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    Predefinito Chi per voi rappresentò meglio la Rivoluzione Conservatrice?

    Il volto ambiguo della Rivoluzione Conservatrice tedesca

    di Luca Rimbotti

    La Rivoluzione Conservatrice – fenomeno essenzialmente tedesco, ma non solo – era un bacino di idee, un laboratorio, in cui vennero ad infusione tutti quegli ideali che da una parte rifiutavano il progressismo illuministico dell’Occidente, mentre dall’altra propugnavano il dinamismo di una rivoluzione in grande stile: ma nel senso di un re-volvere, di un ritornare alla tradizione nazionale, all’ordine dei valori naturali, all’eroismo, alla comunità di popolo, all’idea che la vita è tragica ma anche magnifica lotta.

    Tra il 1918 e il 1932, questi ideali ebbero decine di sostenitori di alto spessore intellettuale, lungo un ventaglio di variazioni ideologiche molto ampio: dalla piccola minoranza di quanti vedevano nel bolscevismo l’alba di una nuova concezione comunitaria, alla grande maggioranza di coloro che invece si battevano per l’estrema affermazione del destino europeo nell’era della tecnica di massa, mantenendo intatte, anzi rilanciandole in modo rivoluzionario, le qualità tradizionali legate alle origini del popolo: identità, storia, stirpe, terra-patria, cultura. Tra questi ultimi, di gran lunga i più importanti, figuravano personaggi del calibro di Jünger, Schmitt, Moeller van den Bruck, Heidegger, Spengler, Thomas Mann, Sombart, Benn, Scheler, Klages, e molti altri. In quella caotica Sodoma che era la Repubblica di Weimar – dove la crisi del Reich fu letta come la crisi dell’intero Occidente liberale – tutti questi ingegni avevano un denominatore comune: impegnare la lotta per opporsi al disfacimento della civiltà europea, restaurando l’ordine tradizionale su basi moderne, attraverso la rivoluzione. Malauguratamente, nessuno di loro fu mai un politico. E pochi ebbero anche solo cultura politica. Quest’assenza di sensiblerie fu il motivo per cui, al momento giusto, spesso la storia non venne riconosciuta. E, tra i più famosi, solo alcuni capirono che il destino non sempre può avere il volto da noi immaginato nel silenzio dei nostri studi, ma che alle volte appare all’improvviso, parlando il linguaggio semplice e brutale degli eventi.

    Scrivevano di una Germania da restaurare nella sua potenza, favoleggiavano di un tipo d’uomo eroico e coraggioso, metallico, che avrebbe dominato il nichilismo dell’epoca moderna; descrivevano la civilizzazione occidentale come il più grande dei mali, il progresso come un dèmone, il capitalismo come una lebbra di usurai, l’egualitarismo e il comunismo come incubi primitivi … e riandavano alle radici del germanesimo, alle fonti dell’identità. Armato di Nietzsche e di antichi miti dionisiaci, c’era persino chi riaccendeva i fuochi di quelle notti primordiali in cui era nato l’uomo europeo… Eppure, quando tutto questo prese vita sotto le loro finestre, quando i miti e le invocazioni assunsero la forma di uomini, di un partito, di una volontà politica, di una voce, quando “l’uomo d’acciaio” descritto nei libri bussava alla loro porta nelle forme stilizzate della politica, molti sguardi si distolsero, molte orecchie cominciarono a non sentirci più… La vecchia sindrome del sognatore, che non vuol essere disturbato neppure dal proprio sogno che si anima… La Rivoluzione Conservatrice tedesca espresse spesso la tragica cecità di molti suoi epigoni dinanzi al prender forma di non poche delle loro costruzioni teoriche.

    Non vollero riconoscere il suono di una campana, i cui rintocchi uscivano in gran parte dai loro stessi libri. Allora, improvvisamente, tutto diventò troppo “demagogico”, troppo “plebeo”. L’intellettuale volle lasciare la militanza, la lotta vera, a quanti accettarono di sporcarsi le mani con i fatti. Alcune derive del Nazionalsocialismo si possono anche storicamente ascrivere alla renitenza di intellettuali e ideologhi, che non parteciparono alla “lotta per i valori” e che, dopo aver lungamente predicato, nel momento dell’azione si appartarono in un piccolo mondo fatto di romanzi e divagazioni. Mentalità da club: “esilio interno” o piuttosto diserzione davanti ai propri stessi ideali? Eppure, un certo spazio critico dovette esistere, poi, anche tra le maglie del regime totalitario, se gli storici riportano di serrate lotte ideologiche intestine durante il Terzo Reich, di polemiche, di divergenze di vedute: Rosenberg non la pensava certo come Klages; Heidegger e Krieck erano avversari politici attestati su sponde lontane… Prendiamo Jünger. Ancora nel 1932, aveva parlato del Dominio, della Gerarchia delle Forme, della Sapienza degli Avi, del Guerriero, del Realismo Eroico, della Forza Primigenia, del Soldato Politico, della “Massa che vede riaffermata la propria esistenza dal Singolo dotato di Grandezza”… Ricordiamo di passata che Jünger negli anni venti collaborò, oltre che con le più note testate del nazionalismo radicale, anche col Völkischer Beobachter, il quotidiano nazionalsocialista e che nel 1923 inviò a Hitler una copia del suo libro Tempeste d’acciaio, con tanto di dedica… Alla luce dei fatti, è forse giunto il momento di considerare quelle proclamazioni solo come buoni esercizi letterari? Nell’infuriare della lotta vera per il Dominio che si ingaggiò di lì a poco, durante gli anni decisivi della Seconda guerra mondiale, noi troviamo Jünger non già nella trincea dove era stato da giovane, ma ai tavoli dei caffè parigini. Qui lo vediamo intento ad irridere Hitler nel segreto del proprio diario, sulle cui paginette si dilettava a chiamarlo col nomignolo di Knièbolo: un po’ poco. Tutto questo fu “fronda” esoterica o immiserimento del talento ideologico? Storico esempio di altèra dissidenza aristocratica o patetico esaurimento di un antico coraggio di militanza?

    E uno Spengler? Anch’egli, dopo aver vaticinato il riarmo del germanesimo e della civiltà bianca, non appena questi postulati ebbero il contorno di un partito politico, che pareva proprio prenderli sul serio, oppose uno sdegnoso distacco. E Gottfried Benn? Dopo aver cantato i destini dell'”uomo superiore che tragicamente combatte”, dopo aver celebrato la “buona razza” dell’uomo tedesco che ha “il sentimento della terra nativa”, come vide che tutto questo diventava uno Stato, una legge, una politica, lasciò cadere la penna…

    Ma la Rivoluzione Conservatrice, per la verità, non fu solo questo. Fu anche il socialismo di Moeller, l’antieconomicismo di Sombart, l’idea nazionale e popolare di Heidegger, il filosofo-contadino vicino alle SA. In effetti, la gran parte degli affiliati ai diversi schieramenti rivoluzionario-conservatori confluì nella NSDAP, contribuendo non poco a solidificarne il pensiero politico e, in alcuni casi, diventandone uomini di punta: da Baeumler a Krieck. Secondo Ernst Nolte – il maggiore storico tedesco – la Rivoluzione Conservatrice ebbe l’occasione di essere più una rivoluzione che non una conservazione, soltanto perché si incrociò con la via politica nazionalsocialista: un partito di massa, una moderna propaganda, un capo carismatico in grado di puntare al potere. Tutte cose che ai teorici mancavano. “Non fu il nazionalsocialismo – si è chiesto Nolte -, in quanto negazione della Rivoluzione francese e di quella bolscevico-comunista, una contro-Rivoluzione tanto rivoluzionaria, quanto la Rivoluzione conservatrice non potrà mai essere?”.

    Dopo tutto, come ha affermato il più esperto studioso di questi argomenti, Armin Mohler, “il nazionalsocialismo resta pur sempre un tentativo di realizzazione politica delle premesse culturali presenti nella Rivoluzione conservatrice”. Il tentativo postumo di sganciare la RC dalla NSDAP è obiettivamente antistorico: provate a sommare i temi ideologici dei vari movimenti nazional-popolari dell’epoca weimariana, ed avrete l’ideologia nazionalsocialista.

    * * *

    Tratto da Linea del 25 luglio 2004.

  2. #2
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    Predefinito Re: Chi per voi rappresentò meglio la Rivoluzione Conservatrice?

    A mio avviso i Voelkischen

  3. #3
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    Predefinito Re: Chi per voi rappresentò meglio la Rivoluzione Conservatrice?

    Quel “Terzo Regno” del socialismo nazionale europeo

    Luca Leonello Rimbotti

    Arthur Moeller van den Bruck fu uno dei più alti risultati ideologici conseguiti dallo sforzo europeo di uscire dalle contraddizioni e dai disastri della modernità: fu uno dei primi a politicizzare il disagio della nostra civiltà di fronte all’affermazione mondiale del liberalismo e all’ascesa della nuova anti-Europa, come fin da subito fu giudicata l’America dai nostri migliori osservatori. Di qui una netta separazione del concetto di Occidente da quello di Europa. Il rifiuto dell’Occidente capitalista e della sua violenta deriva antipopolare doveva condurre in linea retta ad una rivoluzione dei popoli europei, ad un loro ringiovanimento, al loro rilancio come vere democrazie organiche di popolo. Come tanti altri ingegni dei primi decenni del Novecento, anche Moeller vide subito chiaro ciò che ancora oggi molti nostri contemporanei non riescono a distinguere: la perniciosità del liberalismo, la mortifera distruttività delle tecnocrazie capitaliste, l’inganno di fondo che dava e dà sostanza a quel centro di decomposizione mondiale, che già allora erano gli USA: falsa democrazia, impero della Borsa, libertà sì, ma unicamente per il dominio delle sette affaristiche.

    In una parola, per chiunque avesse occhi per vedere, era evidente che un trucco liberale stava per gettare sui popoli del mondo la sua rete di potere, gestita da minoranze snazionalizzate e apolidi: “L’appello al popolo – scrisse Moeller ne Il terzo Reich, il suo libro più famoso, pubblicato nel 1923 – serve alla società liberale soltanto per sentirsi autorizzata ad esercitare il proprio arbitrio. Il liberale ha utilizzato e diffuso lo slogan della democrazia per difendere i suoi privilegi servendosi delle masse”. Chiaro come il sole! Ottant’anni fa, e con tanta maggiore profondità di analisi politica degli odierni cosiddetti no-global, ci fu qualcuno che centrò in pieno l’obiettivo politico, segnalando con forza quale razza di tarlo stesse corrodendo dall’interno la nostra civiltà … ben più lucidamente di tante “sinistre” – ma anche di tante “destre”… – di allora come di oggi, antagoniste di nome ma complici di fatto.

    Il disegno politico di Moeller era preciso: instaurazione di un socialismo conservatore; edificazione di una comunità solidale fortemente connotata dai valori nazionali; avvento di una “democrazia elitaria e organicista”: il tutto, inserito in un quadro di ripresa del ruolo mondiale dell’Europa, gettando uno sguardo di simpatia verso la Russia, il cui bolscevismo Moeller – che fin da giovane fu ammiratore della cultura russa e di Dostoewskij in particolare – giudicava passibile di volgersi prima o poi in un sano socialismo nazionale. Era, questa, l’impostazione generale di quel movimento degli Jungkonservativen che faceva parte della più vasta galassia della Rivoluzione Conservatrice, la dinamica risposta tedesca alla sconfitta del 1918 e alle insidie della moderna tecnocrazia cosmopolita, da cui prese corpo infine il rovesciamento nazionalsocialista.

    Il senso ultimo del messaggio ideologico di Moeller è dunque duplice: da un lato, denuncia del dominio dell’economia sulla politica, per cui in Occidente, come egli scrisse, “il rivolgere l’attenzione alla fluttuazione del denaro ha sostituito la preghiera quotidiana”; dall’altro lato, fortissimo impulso alla ripresa della nazione, da incardinarsi su quel moderno corporativismo antiparlamentare in cui lo scrittore tedesco vedeva la vera rappresentanza del popolo, la vera partecipazione alla “comunità di lavoro”. L’occasione di una rinnovata riflessione sul pensiero antagonista di Moeller viene adesso offerta dal libro di A. Giuseppe Balistreri, Filosofia della konservative Revolution: Arthur Moeller van den Bruck (edizione Lampi di Stampa, Milano 2004). Un testo da cui si ricava, ancora una volta e supportata da una preziosa mole di riferimenti scientifici, l’importanza di un progetto politico che non si estingue nella circostanza storica in cui l’autore visse – la Germania guglielmina e poi quella weimariana – ma si presenta a tutt’oggi con la freschezza di un referente politico attualissimo, reso anzi ancora più immediato dal crescente tracollo che negli ultimi decenni ha investito il concetto europeo di nazione sociale.

    Moeller ebbe la capacità di risvegliare un sistema ideologico – il socialismo antimarxista – e di collocarlo a fianco del valore-nazione, così da presentare alle masse, stordite dalla doppia aggressione del bolscevismo e del liberalismo capitalista, un modello politico che, se da un lato intendeva rinnovare la società, dall’altro mostrava di volerlo fare senza distruggere i patrimoni di cultura, di socialità e di tradizione comunitaria che l’Europa aveva costruito in secoli di lotte. Tutto questo venne racchiuso dal termine terzo Reich: un’evocazione politica che portava in sé anche una volontà di rigenerazione morale, di rivincita religiosa sul materialismo, e che nascondeva l’antico sogno del millenarismo. Da Gioacchino da Fiore in poi, il “terzo regno” significò aspettativa, non solo religiosa ma anche politica, di un mondo finalmente giusto. Era dunque un mito. E Moeller reinterpretò questo mito in chiave ideologica, mettendolo a disposizione delle masse. Come scrive Balistreri, “il terzo Reich è un mito soreliano”. Questo mito soreliano di attivizzazione del popolo fu infine organizzato politicamente dal Nazionalsocialismo il quale, se non coincise con l’elitarismo e l’impoliticità della Rivoluzione Conservatrice, ne tradusse le istanze teoriche in decisioni politiche, trasformando l’ideologia culturale in politica quotidiana di massa.

    Giuseppe A. Balistreri, Filosofia della Konservative Revolution: Arthur Moeller van den BruckCerto, il conservatorismo di Moeller, il suo disegno di una società “dei ceti”, secondo una concezione corporativa conservatrice, rientrava in una tradizione tedesca – quella della Körperschaft, la “comunità dei ranghi sociali” – che esisteva fin dal prussianesimo ottocentesco. E tuttavia la novità del terzo Reich moelleriano consiste nell’abbinare questa tradizione con le esigenze della moderna società di massa. E’ su questo punto che il vecchio conservatorismo doveva diventare il nuovo socialismo. Questo socialismo, come scrive Balistreri riassumendo la concezione moelleriana, “ristabilirà la democrazia nazionale di stampo tedesco, bandendo il liberalismo, il parlamentarismo e il sistema dei partiti, creerà la Volksgemeischaft che si costituirà secondo l’idea dell’articolazione per ceti e corporazioni, e si reggerà in base al Führergedanke“. Moeller aveva compreso che al tentativo di una piccola minoranza di internazionalisti liberali di condurre le nazioni alla sparizione nella “globalità”, si risponde con la nascita di un socialismo dei popoli.

    * * *

    Tratto da Linea del 12 settembre 2004.

  4. #4
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    Predefinito Re: Chi per voi rappresentò meglio la Rivoluzione Conservatrice?

    La vita culturale e politica tedesca fu caratterizzata, tra il 1918 e il 1933, dall’esistenza di un possente movimento spirituale che si dichiarò deciso «a fare tabula rasa delle rovine del XIX secolo e a stabilire un nuovo ordine di vita». Questo movimento si è manifestato, con maggiore o minore vigore, pressoché ovunque in Europa, ma è stato in Germania che ha marcato più profondamente, ed in tutti i campi, la vita della società. È stato chiamato Konservative Revolution: di "Rivoluzione conservatrice". Di fatto, si tratta di un movimento "metapolitico" molte volte descritto (troppo sovente del resto da avversari, e sulla base di idee preconcette), ma che in definitiva si conosceva assai male, malgrado la sua fondamentale importanza storica.

    Nel 1950 Armin Mohler [alias] si propose di colmare questa lacuna e pubblicò una dissertazione discussa l’anno precedente presso l’Università di Bâle con Karl Jaspers e Herman Schmalenbach. Questa tesi, divenuta poi celebre, è stata quindi riedita sotto forma di vero e proprio manuale, aumentato di un’imponente bibliografia di circa 400 pagine, la quale basta da sola a testimoniare l’importanza e la ricchezza degli autori della Konservative Revolution [versione originale: Die Konservative Revolution in Deutschland 1918-1932. Ein Handbuch; trad. italiana: La rivoluzione conservatrice in Germania 1918-1932. Una guida, LEdE-Akropolis 1990; trad. francese, dalla cui pubblicazione prende le mosse il presente articolo: La révolution conservatrice en Allemagne].

    Il compito che Armin Mohler ha voluto intraprendere è stato dei più ardui. Dal 1918 al 1933, la Rivoluzione Conservatrice non ha mai presentato un aspetto unitario, un solo volto. Tesa alla ricerca della sua propria via, essa si è spinta in mille direzioni apparentemente divergenti, investendo allo stesso modo l’arte come la filosofia, la letteratura come la politica.

    La Rivoluzione Conservatrice forma dunque un universo da sè sola, la cui profondità e ampiezza possono meravigliare coloro che la scoprono per la prima volta. Uomini così diversi come il "primo" Thomas Mann (poi obbligato all’esilio nel 1933), Ernst Jünger (L'Operaio) e suo fratello Friedrich Georg, Oswald Spengler [alias] (l'autore de Il tramonto dell’occidente), Ernst von Salomon (I Proscritti), Alfred Baeumler (divenuto in seguito una sorta di filosofo universitario ufficiale del nazional-socialismo), Stefan George (vedi anche le opere su Gutenberg-DE) e Hugo von Hofmannsthal [alias], il giurista Carì Schmitt [alias], il biologo Jacob von Uexküll, l’antropologo Hans F.K. Günther, l’economista Werner Sombart, l’archeologo Gustav Kossinna, Erwin Guido Kolbenheyer e Hans Grimm [alias], Hans Blüher e Gottfried Benn, Ernst Wiechert, Rainer Maria Rilke, Max Scheler [alias] e Ludwig Klages, per non citarne che alcuni tra i più celebri, sono tutti uomini della Rivoluzione Conservatrice.

    Sono coloro la cui opera suscitò e animò d’impulsi sempre rinnovati una moltitudine di società di pensiero, di "circoli di amici", di organizzazioni segrete e semisegrete a carattere esoterico, di cenacoli letterari, di partiti e "gruppuscoli" politici, di associazioni legate ai Freikorps, all’underground (già!), nelle direzioni più diverse e intorno a propositi e intenzioni i più diversamente articolati.

    La parentela di tutte queste correnti non ne risulta per questo meno evidente, ma la loro comune mentalità non si lascia cogliere che con difficoltà da chi adotti un punto di vista esterno al movimento. D’altra parte, i sentimenti che gli uni e gli altri avevano della loro parentela ideologica non gli impedivano di nutrire tra loro inimicizie e odi furiosi (di quelli che si votano ai "traditori" più ancora che ai nemici). Fu così che Walter Rathenau [alias], le cui opere pure si situano ai margini della Rivoluzione Conservatrice stessa, fu assassinato da terroristi che erano a loro volta "conservatori-rivoluzionari": la questione è ben conosciuta per il racconto fattone da von Salomon in Die Geächteten (I Proscritti).

    Infine, come afferma l’autore della prefazione, la "vicinanza spirituale" al nazionalsocialismo compromette la Rivoluzione Conservatrice e rischia di sfalsare l’analisi gettando un’ombra su ciò che fu in realtà. Pur riconoscendo che si tratta di un compito pressoché impossibile, Mohler ha tentato di aggirare le difficoltà dovute a questa scomoda vicinanza mettendo tra parentesi il fenomeno nazionalsocialista, il cui destino storico ne fece un caso a parte e che la «mancanza di distanza» proibisce ancora oggi d’analizzare. Rimarca tuttavia che i nazionalsocialisti, una volta giunti al potere, si la presero prioritariamente con certi rappresentanti della Konservative Revolution che rifiutarono loro la propria adesione. La "notte dei lunghi coltelli", per non citare che questo, non fu soltanto una resa dei conti tra le correnti del movimento nazionalsocialista, ma anche tra i nazionalsocialisti e taluni "trotzkysti" della KR.

    Da un punto di vista formale, in effetti, scrive Mohler, «i seguaci della Rivoluzione Conservatrice possono essere definiti all'epoca come i trotzkysti del nazionalsocialismo. Così come succede per tutti i grandi movimenti rivoluzionari, comunismo compreso, troviamo, da un lato, un grande partito di massa dalla pesantezza uniforme e, dall’altra, una miriade di piccoli circoli caratterizzati da una vita spirituale intensa, che non esercitano che una debole influenza sulle masse, e che, da un punto di vista della formazione di partiti, riuscivano al massimo a provocare delle scissioni marginali all’interno del grande partito, si dedicavano soprattutto all’organizzazione di sette esplosive e di piccoli gruppi elitari assai poco coerenti. Quando il grande partito fallisce, allora suona l’ora delle eresie trotzkyste». A tal proposito, si potrebbe notare che in realtà la Konservative Revolution è passata allora per un processo inverso, e che fu il ripetuto fallimento delle piccole sette "trotzkyste" ad aprire la via alla presa del potere da parte del nazionalsocialismo.

    Nell’ottica adottata da Armin Mohler, comunque questo non assume che un’importanza secondaria, dato che non si tratta nella sua opera di rappresentare una meccanica rivoluzionaria, ma di abbozzare, così com’è espressamente precisato, una tipologia della RC.

    Dopo aver rimarcato che l’origine prima della Konservative Revolution si situa verso la metà del XIX secolo, Armin Mohler prova dunque a ritrovare e a caratterizzare ciò che chiama Leitbilder, vale a dire le «idee [o, meglio, le immagini] guida» comuni all’insieme degli autori della KR.

    È così indotto a collocare l’«immagine del mondo» (Weltbild) propria alla Rivoluzione Conservatrice nell’opera di Friedrich Nietzsche [alias, alias]; il Nietzsche dello Zarathustra [alias] soprattutto, ma anche quello della Volontà di Potenza e della Genealogia della morale. Tutti i Leitbilder che giunge a mettere in evidenza scaturiscono in effetti dalla visione di Nietzsche. Una di queste "idee guida" è senza alcun dubbio fondamentale. Si tratta della concezione "sferica" della storia, opposta alla concezione lineare comune, tra gli altri, al marxismo e al cristianesimo. Per i seguaci della Rivoluzione Conservatrice , la storia non è un progresso infinito e indefinito. Essa è un eterno ritorno.

    Giustamente, Mohler sottolinea che non è il cerchio che può rappresentare al meglio questo processo di eterno ritorno, ma la sfera (Kugel), che «significa che agli occhi del conservatore-rivoluzionario in ogni momento tutto è contenuto, che presente, passato e avvenire coincidono». Nietzsche viene citato: «Tutto va, tutto ritorna; eternamente ruota la Ruota dell’Essere. Tutto muore, tutto di nuovo fiorisce; eternamente trascorre l’Anno dell’Essere. Tutto crolla, tutto è nuovamente composto; eternamente si ricostruisce la medesima Casa dell’Essere. Tutto si separa, tutto si saluta di nuovo; eternamente resta fedele a se stesso l’Anello dell’Essere. In ogni momento l’Essere comincia; attorno ad ogni Qui si avvolge la Sfera del Là. Il centro è dappertutto. Curvo è il sentiero dell’Eternità» [Cosi parlò Zarathustra, parte terza, "Il convalescente": versione originale del capitolo].

    Un secondo Leitbild, derivante immediatamente dal primo, è quella dell’Interregnum o Zwischenreich: «Noi viviamo in un interregno; il vecchio ordine è crollato, e il nuovo ordine non è ancora divenuto visibile». Ci troviamo alla vigilia di una «svolta della Storia» (Zeitwende). Agli occhi degli uomini della KR, Nietzsche è il profeta di questa "svolta". Meglio, egli marca questa svolta dei Tempi «in cui qualcosa è morto (4) e dove nient’altro ancora è nato». Uno dei rappresentanti più caratteristici della Konservative Revolution, lo scrittore Ernst Jünger afferma, anche lui: «Siamo a una svolta tra due epoche, un cambiamento il cui significato è comparabile a quello del passaggio dall’era della pietra a quella dei metalli» (citato da Wulf Dieter Muller).

    Seguendo l’itinerario che Nietzsche ha tracciato, la Rivoluzione Conservatrice adotta nella sua lotta quotidiana il Leitbild del nichilismo: un nichilismo positivo, dove lo scopo non è il nulla per il nulla (la fine della storia, si dovrebbe dire), ma la riduzione in polvere delle rovine del vecchio ordine, considerata come la condizione sine qua non dell’avvento del nuovo ordine, vale a dire della rigenerazione (Wiedergeburt).

    Questo nichilismo positivo, questo "nichilismo tedesco" o "prussiano" desiderato dalla RC, non è un fine in sé, ma un mezzo: il mezzo per pervenire al «punto magico al di là del quale non giungerà che colui che dispone in se stesso di nuove e invisibili risorse di forza» (Ernst Jünger). Questo "punto magico" forma un’altra Leitbild a se stante, quella del "rivolgimento" (Umschlag), vale a dire dell’istante e del luogo dove la distruzione si muta in creazione, dove la fine si rivela essere un nuovo inizio. È il momento in cui «ciascuno recupera la sua propria origine», il «Grande Meriggio» di Zarathustra [alias], grazie al quale i tempi della storia saranno improvvisamente rigenerati.

    Tutti questi Leitbilder chiariscono la preferenza della KR per le formule che associano termini antagonisti: rivoluzione conservatrice, nichilismo prussiano, socio-aristocrazia, nazional-bolscevismo, ecc. Il fatto è che la vera rivoluzione è, letteralmente, «ri-voluzione, ritorno indietro, riproduzione di un momento che già fu». «Al principio era il verbo», scrive Hans V. Fleig. «Ora,il presente ci conduce a prestare una maggiore attenzione al significato d’origine della parola "rivoluzione". L’Europa, che da centocinquant'anni vive un’epoca di rivoluzioni, durante questo periodo ha esaurito e superato l’eredità di molti secoli. Questa eredità non è altro che la comunità occidentale, tale quale si era ritrovata nello spirito del cristianesimo. Oggi, la croce è corrosa dalle intemperie e, ovunque si posi lo sguardo, la disintegrazione della comunità occidentale si verifica con impressionante rapidità. Vecchi dèi, che si erano creduti da lungo tempo uccisi dalle predicazioni, partono alla ricerca dei loro templi sepolti. La "sovrastruttura" occidentale, questa comunità di popoli germanici, latini e slavi che, in ultima istanza, affonda le proprie radici nell’ecumene della cristianità, si sta sciogliendo come neve al sole. Nel fuoco incandescente di una stella saturnina, che annuncia l’aurora di una nuova Antichità, il pensiero occidentale crolla in polvere…» Friedrich Hielscher, discepolo di Jünger, proclama a sua volta: « L’homo revolvens gioca un ruolo nel grande teatro del mondo; non conoscerà pace fino a che il contenuto dei musei non sarà cambiato. Allora, gli altari sacrificali in pietra si leveranno nuovamente nelle radure, e le croci si ritroveranno nelle vetrine dei musei…».

    L’ideologia comanda qui, in modo immediato, il passaggio all’azione politica. Ma questa resta sostenuta costantemente da una visione metapolitica. Neppure un Ernst Jünger, autore incline al "botanismo letterario", può sottrarsi all’imperativo politico: il suo celebre L’Operaio (Der Arbeiter) si vuole il manifesto di una "nuova politica".

    Armin Mohler, sensibile soprattutto agli aspetti letterari e poetici della Weltanschauung della KR, trascura un po’, da parte sua, i Leitbilder più direttamente legati alle istanze dell’azione politica. Percependo con finezza e chiarezza le dimensioni storico-temporali dell’universo che studia, si preoccupa meno di ritrovarne le dimensioni socio-spaziali.

    Se il marxismo è una teoria che la pratica deve necessariamente prolungare, il Weltbild della Konservative Revolution è, si può dire, una metapolitica che affida alla politica la realizzazione dei suoi fini ultimi relativi all’uomo. È così che il Leitbild "temporale" della rigenerazione ha, ci sembra, agli occhi dei militanti della KR il suo corrispondente nel Leitbild "spaziale" del "popolo (Volk) tedesco": questo è considerato il solo "vero e proprio popolo", perché esso solo ha conservato la "coscienza delle sue origini" e perché esso è, in quanto tale, investito di una missione "redentrice" di cui l’umanità tutta dovrà beneficiare. Questo Leitbild della "missione tedesca", sulla quale Armin Mohler insiste assai poco, costituisce una delle grandi sorgenti storiche della KR, dai celebri Discorsi [versione originale Web] di Fichte [alias] sino a Wagner. Similmente, al Leitbild "temporale" dell’eterno ritorno e della concezione sferica della storia, corrisponde la Leitbild "spaziale" del sovrumanismo aristocratico e di una concezione gerarchica della società, nozioni che, del resto, sono anch’esse in primo piano nel pensiero di Nietzsche; cosi come, inversamente, alla concezione lineare della storia, corrisponde una concezione egualitaria della società.

    In fin dei conti, i "conservatori" della KR vogliono distruggere tutto di ciò che li circonda, perché tutto è già cadavere. Ciò che essi vogliono conservare, lo vediamo oggi chiaramente, non è nient’altro che la storicità dell’uomo, cioè la possibilità di nuovi eterni ritorni, in opposizione alla "fine della storia" progettata, apertamente o meno, dai loro avversari. Essi aprono al ritorno del passato. Ma questo stesso passato non è il passato della memoria; è il passato di un’immaginazione che affonda le sue radici in una Sehnsucht, in uno slancio nostalgico e passionario verso l’avvenire rigenerato che fa seguito al crollo di una civilizzazione.

    Si potrebbe dire delle tendenze delineatesi nel seno della Rivoluzione Conservatrice che esse furono precisamente caratterizzate da un’accentuazione variabile di differenti Leitbilder propri all’insieme del movimento: alcuni, mal percepiti dagli uni, giocarono un ruolo predominante negli altri.

    Di queste tendenze Armin Mohler propone una classificazione in cinque gruppi: i Völkischen, i Jungkonservativen (giovani-, o neo-conservatori), i National-revolutionäre (nazionalrivoluzionari), i Bündischen ("leghisti"), e la Landvolkbewegung (movimento dei contadini). Questi gruppi, a dire la verità, concernono realtà differenti. I primi tre, precisa Mohler, sono dei "movimenti ideologici" che cercano di realizzarsi. Gli altri due corrispondo a delle «esplosioni storiche concrete, da cui in seguito si tentò di trarre un’ideologia». Sono nondimeno i primi che esercitarono la maggiore influenza sul piano politico.

    Tutti e tre mettevano davanti il Leitbild del Volk, ma puntando su esso una luce differente. Per i Völkischen, si tratta soprattutto di opporsi ad un "processo di disgregazione" che minaccia il popolo, e incitarlo ad una più forte coscienza di sé. I Völkischen mettono l’accento sulla "razza", che è ritenuta fondare la specificità del Volk. Ma la loro concezione, anzi la loro definizione della razza è piuttosto variabile. Gli uni la concepiscono da un punto di vista puramente biologico, gli altri vi vedono una sorta di unità esemplare del "corporale" e dello "spirituale". Se per Oswald Spengler [alias] la razza è «ciò-che-è-in-forma» (nella sua propria forma), Jünger parla di "sangue" (Blut), ma di un "sangue" che si apparenta alla "scintilla" dei mistici tedeschi del Medioevo, e più ancora al Graal wagneriano.

    Vi è in effetti una profonda religiosità völkisch, che cerca generalmente di manifestarsi in un rinnovamento religioso anticristiano, sia che si proclami un "cristianesimo germanico" o una "fede tedesca" (Deutschglaube), sia che si provi a resuscitare il culto delle divinità antiche ricollocandole in una prospettiva moderna, così come fece il movimento di Ludendorff e di sua moglie Mathilde. Si constata pure nel movimento völkisch una tendenza all’esoterismo, le cui manifestazioni astruse contribuirono talvolta a screditare il movimento. Di questo essoterismo fu impregnata, tra le altre, la celebre Thule Gesellschaft, alla quale appartenne il poeta e drammaturgo Dietrich Eckart.

    I Jungkonservativen si preoccupano al contrario soprattutto di realizzare la "missione del Volk", che è ai loro occhi l’edificazione di un nuovo Impero (Reich). Le loro guide spirituali, Edgar J. Jung (futura vittima della "notte dei lunghi coltelli"), Arthur Moeller van den Bruck [alias], Heinrich von Gleichen, ecc. vedevano infatti nel Reich l’«organizzazione di tutti i popoli in un insieme sovra-statale, dominato da un principio superiore, sotto la responsabilità suprema di un solo popolo». Non si tratta purtuttavia di nazionalismo. I Jungkonservativen condannavano il nazionalismo, considerando che esso «trasferisce al livello dello Stato nazionale le dottrine egoiste dell’individuo». Nella loro visione, il popolo tedesco non è un popolo come gli altri. È, come proclamato da Fichte [alias], il solo popolo che sia rimasto «cosciente delle proprie origini»; e, di conseguenza, il solo "popolo vero" in seno ai popoli-massa. Ne consegue, diceva Novalis [alias], che «ci sono tedeschi ovunque». Uno dei più tipici autori bündisch, il poeta Walter Flex [alias], autore del celebre Lied delle Oche selvatiche (Wildgänse rauschen durch die Nacht [alias] [versione francese]), scriveva nel 1917, qualche giorno prima di morire al fronte: «Se ho parlato di eternità del popolo tedesco e di missione redentrice del germanesimo, questo non ha nulla a che fare con qualunque egoismo nazionale. Si tratta piuttosto di una convinzione etica, che può ugualmente realizzarsi nella sconfitta o, come ha scritto Ernst Wurche, nella morte eroica di un popolo intero. Nondimeno, ho sempre assegnato un chiaro limite a questa concezione. Io credo che l’evoluzione umana raggiunga la sua forma intima più perfetta nel popolo, e che l’umanesimo universalista implichi una dissoluzione, nel senso che libera e mette a nudo l’egoismo individuale canalizzato sin lì dall’amore per il popolo…».

    Da parte sua Edgar J. Jung dichiara: «I popoli sono uguali, ma solamente in un senso metafisico, allo stesso modo che gli uomini sono uguali davanti a Dio. Chi volesse trasferire sulla terra questa uguaglianza metafisica, peccherebbe contro la natura ed il reale. La potenza demografica, la razza, le attitudini spirituali, l’evoluzione storica, la collocazione geografica, tutto ciò condiziona una gerarchia terrestre tra i popoli, che non si stabilisce né per azzardo né per capriccio».

    Di fatto, i Jungkonservativen, che non si occupavano troppo di filosofia, credevano molto spesso di poter conciliare la metafisica cristiana con una concezione della storia che è essenzialmente anticristiana. Armin Mohler non manca di rimarcare che questa caratteristica permette ai "neo-conservatori" di essere, tra tutte le correnti della RC, i soli nei quali il "sistema" weimariano riconobbe dei legittimi interlocutori (pur rimarcando in questo una una evidente contraddizione logica).

    I nazionalrivoluzionari si formarono quasi tutti nell’esperienza delle Tempeste d’acciaio e del "cameratismo" delle trincee. Per loro, la "nazione" non è altro che il Volk riunito e "messo in movimento" dalla guerra. I nazionalrivoluzionari accettano il progresso tecnico, non perché cedano alla «pericolosa tentazione di ammirarlo», ma perché vogliono «dominarlo, e niente più».

    Si trattava per loro, disse una delle loro guide, Franz Sauwecker, di «finirla col tempo lineare». Vivendo nell’interregnum, pensavano che il tempo del nichilismo positivo fosse giunto. Il loro slancio rivoluzionario e la loro formazione prussiana si congiungevano a sostenere la loro volontà di distruggere l’"ordine borghese"; il loro "nazionalismo dei soldati" faceva tutt’uno col "socialismo dei camerati". Un acuto sentimento tragico della storia e della vita costituisce lo sfondo, cupo e luminoso allo stesso tempo, della loro avventura rivoluzionaria. Le gesta dei Freikorps (Corpi Franchi), il putsch del Bund Wiking guidato dal capitano Ehrhardt, il terrorismo esaltato dei "proscritti" narrato da von Salomon, le attitudini letterarie del "socio-aristocratico" Jünger, il "socialismo prussiano" di Oswald Spengler [alias] il Fronte Nero di Otto Strasser, il sogno (vetero- prussiano) di una alleanza ideologica tra la Rivoluzione Conservatrice e il bolscevismo sfociante in un «Reich (germano-sovietico) da Vlissingen a Vladivostock», tutta questa agitazione possente, ma caotica, si confonde con la tragedia di una Germania ferita e umiliata dalla disfatta, e dona il suo colore più vivo agli inizi della Repubblica di Weimar.

    È invece ben prima della Prima Guerra Mondiale che il movimento del Bund prese il volo, nato, all’alba del secolo, da un vasto movimento giovanile (Jugendbewegung), collegato lui stesso ai Wandervögel (uccelli migratori), improvvisa esplosione, senza colore politico definito, di uno stato d’animo che si era diffuso nella Germania intera.

    Con il Bund, la gioventù dell’interregnum scopre oscuramente che essa ha carica d’avvenire, e che le spetta il compito immenso di produrre il "ribaltamento del tempo storico". La Bündische Jugend manifesta soprattutto un’atteggiamento di fronte alla vita governato da una sorta d’inconscio collettivo.

    «Movimento e mobilità senza altro scopo», scrive Mohler, «senza altro programma, senza altro ideale, che il dinamitare lo stato-di-coscienza della gioventù borghese per l’avvento di una adolescenza nuova, di una segreta energia istintiva». Allo stesso tempo "movimento giovanile" e "società d’uomini", il Bund intende formare una élite, certo destinata, nell’età adulta, a disperdersi nelle più lontane direzioni, ma che finirà per far conoscere ovunque lo stato d’animo e le aspirazioni della Rivoluzione Conservatrice. In tutti i settori politici, a destra, a sinistra come al centro, si videro fiorire organizzazioni giovanili (e anche formazioni paramilitari) che, tutte, trascinavano con sé, sovente inconsciamente e malgrado il colore politico dichiarato, le inquietudini e le preoccupazioni della KR, il che spiega i sorprendenti sviluppi e successi della Gleichschaltung ("adeguamento") politico che sopraggiungerà sotto il Terzo Reich.

    È vero, nondimeno, che la rivendicazione corporativa del Landvolk, costretta dalle circostanze a darsi un colore politico, cade pressoché irresistibilmente nell’orbita della Rivoluzione Conservatrice, dai cui seguaci ottenne il sostegno più sincero e più vigoroso.

    Armin Mohler vede una quinta tendenza della RC nella Landvolkbewegung o "movimento dei contadini". Questo movimento non è in realtà che una moderna "jacquerie" [rivolta di contadini francesi, NdT], un episodio della vita corporativa in seno ad un sistema sociale instabile e lacerato. E' nondimeno esatto che la rivendicazione corporativa del Landvolk, della "gente delle campagne", costretta dalle circostanze a darsi un colore politico, cadde pressoché inevitabilmnete nell’orbita della Konservative Revolution, i cui sostenitori le avevano prodigato il sostegno più sincero e più vigoroso.

    Essa fu successivamente assorbita insensibilmente dal nazionalsocialismo, a causa della spinta dell’evoluzione storica, e dell’azione personale di Walther Darré [alias], teorico del Bauernadel (aristocrazia contadina).

    Le frasi con le quali si conclude il libro hanno una certa risonanza profetica. «Con le cinque tendenze della RC, scrive Mohler, le idee del 1789 si sono trovate confrontate alla negazione assoluta dei loro valori. La lotta ingaggiata allora non è ancora giunta alla fine».

    Armin Mohler pensa in particolare che l’attuale "contestazione" [l'articolo è originariamente comparso a poca distanza dal Maggio 1968 parigino], a dispetto dell’ideologia ch’essa ostenta, trasporti alcuni dei fermenti della Rivoluzione Conservatrice. Se non ne prende coscienza, cosa che rende la sua agitazione vana e talvolta ridicola, «è perché le idee e i mitemi della Konservative Revolution sono quasi sempre esaminati in modo prevenuto a causa della loro fastidiosa vicinanza col nazionalsocialismo». «Si è creata una situazione», conclude Mohler, «che non è nuova: il vero confronto coi problemi resta materia di cerchie a carattere esoterico […] mentre [della contestazione] se ne impadroniscono delle volgari sette le cui interpretazioni grossolane e falsificatrici rischiano, a un momento dato, di raggiungere masse fanatiche».

    Giorgio LOCCHI

    traduzione dal francese di Francesco Boco

  5. #5
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    Predefinito Re: Chi per voi rappresentò meglio la Rivoluzione Conservatrice?

    Theodor Fritsch, Walther Darré, Alfred Rosenberg, Adolf Hitler, Gottfried Feder.

  6. #6
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    Predefinito Re: Chi per voi rappresentò meglio la Rivoluzione Conservatrice?

    "L'odio per la propria Nazione è l'internazionalismo degli imbecilli"- Lenin
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  7. #7
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    Predefinito Re: Chi per voi rappresentò meglio la Rivoluzione Conservatrice?

    Citazione Originariamente Scritto da Kavalerists Visualizza Messaggio
    Va letto anche il saggetto di Azzará su Nietzsche legato alle figure della rivoluzione conservatrice, in particolare van den Bruck.
    Azzará spiega, in particolare, come questi pensatori abbiano preso e ripreso Nietzsche da varii punti di vista in base all'utilitá del momento. Comunque fondamentale e lo trovate aggratis. Se non siete capaci di cercare dove va cercato mandate un messaggio privato.

    Religione per noi significa la dottrina (...) dell'allevamento che renda possibili le anime superiori a spese di quelle inferiori.
    Religion bedeutet uns die Lehre von (...) der Züchtung und Ermöglichung der höheren Seelen auf Unkosten der niederen.

  8. #8
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    Predefinito Re: Chi per voi rappresentò meglio la Rivoluzione Conservatrice?

    Nazionalbolscevismo – uomini, storie, idee

    Ci sono due idee che appaiono oggi sconfitte dal trionfo planetario della liberal-democrazia attualmente diventata o autoproclamatasi “pensiero unico”, intendendo con ciò che non si possano concepire diversamente i rapporti sociali e politici: l’idea dell’identità etnico-nazionale e l’idea socialista intesa in senso generale come idea del controllo della politica e mediante essa, del corpo sociale sull’economia. Il pensiero unico liberal-democratico, infatti, prevede sia l’illimitato cosmopolitismo dei mercati e delle popolazioni, quella che oggi si chiama globalizzazione, sia l’assenza di vincoli e controlli da parte del potere politico e del corpo sociale che esso dovrebbe rappresentare, al dispiegarsi del gioco delle forze economiche, con un radicalismo che è la realizzazione del sogno di Adam Smith e dell’incubo per molti altri.

    Soprattutto di fronte ai disastri e alle crisi croniche in cui le politiche economiche ispirate ai teorici del “pensiero unico” hanno trascinato ormai – si può dire – il mondo intero, l’economia globale, sia ha la sensazione che molto sia stato abbandonato, buttato alle ortiche per fare posto a una rozza semplificazione, specialmente oggi che le sinistre hanno del tutto accantonato qualsiasi concezione socialista per abbracciare con sospetto entusiasmo il verbo neo-liberista con la sua promessa della creazione di società cosmopolite e multietniche, non avvedendosi o fingendo di non avvedersi che i primi a rimetterci sono proprio quei lavoratori, quelle classi lavoratrici che le sinistre stesse credono o fingono di tutelare ancora.

    Forse proprio in una sintesi delle due idee “battute” dal “pensiero unico” predicato dagli apostoli del neo-liberismo, si può trovare la risposta, la via maestra per uscire dalla crisi in cui il capitalismo neo-liberista ci ha trascinati.

    Bene, questa sarà una novità per molti, ma una sintesi di queste due idee “battute”, nazionalismo e bolscevismo, non è una novità assoluta, è già stata sviluppata fra le due guerre mondiali da parte di un movimento che si è autodefinito nazionalbolscevico, e non mediante una posizione centrista, ma proprio mettendo insieme “gli estremi che si toccano” e proprio là dover si toccano, cioè dove i punti di frizione rispetto al pensiero “moderato” liberal-borghese sono più forti.



    Il luogo di un simile esperimento politico, ideologico e culturale, non poteva essere che la Germania, perché la Germania fra le due guerre mondiali è stata un laboratorio politico straordinario, perché la concezione tedesca della Volkgemeinschaft , “comunità di popolo” figlia della cultura romantica, nello stesso tempo istintivamente socialista e segno di definizione di un concetto di nazionalità fortemente identitario, inclinava in questa direzione, sia per l’ostilità comune a destra e a sinistra, verso quel liberalismo che era visto come l’ideologia dei nemici della Germania, quelli che l’avevano voluta costringere a una guerra lunga e sanguinosa e poi imporle l’umiliazione del trattato di Versailles.



    La storia del nazionalbolscevismo ci è raccontata in questo agile libretto da Marco Bagozzi, un giovane e promettente ricercatore che si è già rivelato come una delle voci più interessanti della nostra “Area”.

    Va da sé che un movimento come quello nazionalbolscevico non poteva costituire un tutto unico e nemmeno omogeneo, ma piuttosto una galassia di movimentini politici e di intellettuali più o meno indipendenti l’uno dall’altro, ma fra i quali si manifestavano importanti e sorprendenti convergenze.



    L’autore ci presenta quello che potremmo definire un avvicinamento concentrico all’argomento, esaminando dapprima gli elementi di nazionalismo presenti nel bolscevismo (quello sovietico) e nel comunismo tedesco fra le due guerre, poi quelli di sinistra nel nazionalsocialismo, e infine il nazionalbolscevismo vero e proprio.



    Ora, una critica che mi sembra di dover avanzare al libro di Bagozzi, è che egli, sulla scia – va riconosciuto – dei nazionalbolscevichi tedeschi, sopravvaluta molto l’importanza del primo punto.

    Che Stalin abbia a un certo punto proclamato l’avvento del “socialismo in un solo Paese” di contro alla prospettiva trozkista di rivoluzione mondiale, non rappresenta una svolta ideologica rispetto a Marx e Lenin, ma una semplice questione di Realpolitik . Trozky faceva propria l’idea di Marx che una volta scoppiata, la rivoluzione proletaria si sarebbe estesa rapidamente a una dimensione mondiale, ma questa è semplicemente una delle cose che dimostrano quanto il “socialismo scientifico” fosse profondamente intriso di utopia. Stalin fece ricorso al patriottismo russo improvvisamente resuscitato, in maniera del tutto strumentale durante il conflitto russo-tedesco, e anche questo non era un mutamento ideologico ma semplice scaltrezza politica.



    Il ricorso dei comunisti non sovietici ad argomenti di natura patriottica o nazionale, poi, quando è avvenuto, è sempre stato tattico e strumentale, vi hanno fatto ricorso solo quando – per avventura – l’interesse delle rispettive nazioni finiva per coincidere con quello sovietico o del movimento comunista internazionale (ammesso che si possa fare un distinguo fra le due cose).

    Ne abbiamo avuto chiari esempi nella storia del comunismo italiano, e abbiamo tutti i motivi per ritenere che per quello tedesco o di altra nazionalità, le cose non stessero in maniera sostanzialmente diversa. Ad esempio, nel 1948, il PCI parve percorso da un’ondata di patriottismo, e denunciò con veemenza gli orrori compiuti dai titini contro la popolazione italiana sulla sponda orientale dell’Adriatico, le foibe e gli eccidi compiuti per costringere gli Italiani alla fuga, per cancellare la presenza italiana in Istria e nella Venezia Giulia. Non è in alcun modo credibile che i dirigenti del PCI avessero saputo di tutto questo soltanto allora. Semplicemente, misero in piazza tutto ciò perché Tito aveva rotto con Stalin che era sempre “il papa” del comunismo, e di cui erano fedeli seguaci.



    Quegli stessi che fingevano di indignarsi per le atrocità commesse dagli Jugoslavi sulla sponda orientale dell’Adriatico, quattro anni prima erano pienamente consenzienti. Si ricorderà che la brigata partigiana non comunista Osoppo, dopo essere stata catturata con l’inganno, fu massacrata come una mandria di agnelli al mattatoio alle Malghe di Porzus, per aver rifiutato di mettersi agli ordini del IX Corpus jugoslavo, cosa che avrebbe prefigurato l’annessione alla Jugoslavia di tutto il Friuli. Ma a compiere il massacro non furono gli jugoslavi, ma i comunisti italiani della brigata Garibaldi.

    Oggi la sinistra nostrana fa sfoggio di patriottismo, ma solo allo scopo di infastidire e di contrastare politicamente la Lega. Io penso che si possa considerare una regola che ogni volta che un comunista o un “compagno” fa sfoggio di nazionalismo o di patriottismo, si tratta di qualcosa di strumentale e di ipocrita.

    Il momento massimo di espressione nazionalistica-patriottica, il KPD, il partito comunista tedesco guidato da Ernst Thalmann, del resto di stretta osservanza sovietica e staliniana, lo ebbe in occasione della crisi della Ruhr. I Francesi occuparono questa importantissima regione mineraria posta sul confine occidentale della Germania, in conseguenza del mancato pagamento da parte tedesca delle esorbitanti riparazioni di guerra previste dal trattato di Versailles.



    Nel 1923, in seguito a un attentato dinamitardo, le autorità di occupazione francesi della Ruhr arrestano e giustiziano uno studente, Albrecht Leo Schlageter. Questo evento provocò un’ondata d’indignazione fortissima in tutta la Germania, e i comunisti si affrettarono a cavalcare la protesta; in questo ruolo la funzione principale l’ebbe l’esponente del Komintern in Germania Karl Radek (che rispondeva direttamente a Stalin). Per un certo periodo si ebbe quella che fu chiamata la “linea Schlageter”, ossia la convergenza d’azione fra comunisti e nazionalsocialisti, agevolata dal fatto che le potenze dell’Intesa non erano solo il nemico che aveva umiliato la Germania dal punto di vista nazionale, ma l’incarnazione di quell’ordine internazionale liberal-democratico-borghese che era nello stesso tempo il nemico di classe.

    Almeno all’epoca, i comunisti approfittarono della situazione facendo sfoggio di un patriottismo e di uno spirito di rivalsa nazionale maggiore di quello nazionalsocialista, poiché l’esigenza di tenere buoni rapporti con il fascismo italiano obbligava il partito di Hitler a tacere sulla questione del Tirolo meridionale diventato l’Alto Adige, mentre il KPD aveva al riguardo mano libera, ma, come ho detto, per dei comunisti il patriottismo è sempre qualcosa di spurio e strumentale, e mi sembra che Bagozzi sopravvaluti gli spunti in questo senso.



    Completamente diverso il discorso per quanto riguarda la componente socialista del nazionalsocialismo. In tutti i fascismi c’è sempre stata una componente “di sinistra” anche se l’esigenza della lotta al comunismo e la conseguente alleanza con i ceti borghesi hanno finito per metterla spesso in sordina, forse soltanto il franchismo spagnolo (e anche qui distinguendo Franco dal falangismo di Jose Antonio) si caratterizza come movimento puramente conservatore.

    Nel nazionalsocialismo questa tendenza era presente maggiormente che altrove. Non a caso, esso era nato come “Partito dei Lavoratori Tedeschi” (DAP), e lo stesso antisemitismo si presentava connesso a un discorso sociale, poiché l’ebreo era visto sostanzialmente come il borghese usuraio, sfruttatore e parassita (e ciò trovava più consonanze di quel che si penserebbe oggi nelle posizioni degli stessi comunisti).

    In tutto ciò faceva gioco la concezione romantica e organicista della Volksgemeinschaf, insieme sociale e nazionale, risalente ai Discorsi alla nazione tedesca di Fichte.

    Se tutto ciò vale per la corrente ortodossa del nazionalsocialismo, vale a maggior ragione per quella che fu la sua “ala sinistra” incarnata dai fratelli Gregor e Otto Strasser.

    La vicenda è nota. Gregor Strasser che dei due fratelli era la personalità dominante, si mise in concorrenza con Hitler per la leadership del partito, finì emarginato e poi fu fra le vittime della sanguinosa epurazione della “notte dei lunghi coltelli”, mentre Otto si rifugiò in America, mentre Joseph Goebbels, la terza personalità di rilievo di questa corrente, si schierò dalla parte di Hitler, ed era destinato a diventare ministro della propaganda del Terzo Reich.

    L’esponente principale del nazionalbolscevismo vero e proprio, tuttavia, il suo teorico e leader, fu Ernst Niekisch, travagliata figura di rivoluzionario oggi praticamente sconosciuta al di fuori degli ambienti degli storici e dei ricercatori politici e sociologici. Nato in Slesia nel 1889, crebbe in Baviera dove la famiglia si trasferì quando era giovanissimo, di famiglia piccolo-borghese – il padre era un fabbro – riuscì a completare gli studi fra mille problemi soprattutto economici. Subì l’influenza del pensiero di Marx, ma anche di Schopenhauer, Nietzsche, Kant, Hegel. Fu arruolato allo scoppio della prima guerra mondiale, ma non fu mandato al fronte per problemi di vista, divenne istruttore delle reclute.

    Aderì al SPD, il partito socialista tedesco ma se ne staccò per l’atteggiamento troppo morbido di quest’ultimi sulla questione della Ruhr. Fece parte di diversi gruppuscoli di ispirazione socialista e rivoluzionaria e scrisse numerosi articoli e saggi nei quali il suo pensiero politico si andò via via precisando. Nel 1926 fondò il giornale “Wiederstand”(“Resistenza”), che doveva ospitare alcune delle firme più prestigiose della politica e della cultura tedesche, fra cui quella di Enst Junger. Di Hitler e dei nazionalsocialisti aveva un’idea negativa, eccezion fatta per il gruppo che faceva capo ai fratelli Strasser.

    La pubblicazione del “Wiederstand”fu vietata nel 1934. Niekisch fu arrestato nel 1937 e nel 1939 fu condannato all’ergastolo, fu dapprima inviato nel carcere di Brandeburgo, dove fu liberato dall’Armata Rossa alla fine della guerra. Dopo il conflitto, si stabilì nella DDR e aderì alla SED, il partito comunista tedesco-orientale, da cui si staccò in seguito alla repressione dei moti popolari del 1953. Si rifugiò allora a Berlino ovest, ormai malato e quasi cieco, dove morì nel 1967.

    Nella visione politica di Niekisch, rivoluzione sociale e rivoluzione nazionale sono strettamente abbinate, propugna una netta contrapposizione all’Occidente liberal-democratico e borghese e vede nella Russia sovietica un alleato naturale della Germania, è stato un netto propugnatore di quella che lui per primo chiamò Ostpolitik, politica di attenzione verso l’est. Nella rivoluzione bolscevica vedeva non tanto la realizzazione delle idee di Marx di cui ripudiava l’internazionalismo, quanto piuttosto la rinascita nazionale russa che doveva servire di esempio a quella tedesca. Un altro tratto caratteristico del suo pensiero, è il fatto che egli vedeva nell’Occidente liberal-democratico un prolungamento del Romanentum, dello spirito latino e anti-tedesco della Controriforma, quindi il nemico naturale e atavico della Germania, contro il quale invocava l’alleanza coi popoli slavi e soprattutto con la Russia rigenerata dalla rivoluzione bolscevica.

    Il nazionalbolscevismo non fu un movimento unitario e coerente, ma piuttosto una galassia di personalità che si incontrarono attratte in vario grado dal magmatico carisma di Niekisch, e che Bagozzi documenta nel suo agile ma denso testo, ma che nello spazio di una recensione sono impossibili da citare tutte. E’ singolare, ma fra gli aderenti al nazionalbolscevismo troviamo anche diversi aristocratici, fra i quali la personalità intellettuale più rilevante è probabilmente Moeller van Den Bruck, ma qui – ci fa osservare Bagozzi – fa probabilmente gioco lo stretto legame di sangue che esisteva fra la nobiltà tedesca e quella russa, in conseguenza del quale l’Ostpolitik, l’orientamento verso est, era cosa del tutto naturale.

    Fra i collaboratori del “Wiederstand” la personalità di maggior rilievo fu probabilmente quella di Ernst Junger. Di questo scrittore e fine intellettuale nonché assertore di una visione politica di totale rifiuto dell’occidentalismo liberal-democratico, l’opera politica più importante e nota è probabilmente il saggio Der Arbeiter (“L’operaio”, “Il lavoratore” o anche “Il creatore”; questo termine ricco di sfumature si rende difficilmente in italiano). La sua concezione si potrebbe definire un “socialismo di guerra” coincidente con la totale militarizzazione della società, il suo conglobamento in un’unica volontà titanica che non lascia nessuno spazio ai borghesi (antitesi sia del lavoratore che del militare) né alla proprietà privata.

    Bagozzi conclude la sua disamina con un’osservazione di grande interesse sulla quale sarebbe opportuno riflettere con grande attenzione. Quella nazionalbolscevica è stata in sostanza una “rivoluzione postuma”. Le rivoluzioni anti-occidentali, anti-borghesi, anti-americane successive alla seconda guerra mondiale che si sono diffuse soprattutto nel Terzo Mondo ex coloniale, da Nasser a Hugo Chavez passando per Gheddafi, Saddam Hussein e gli Assad siriani, sono figlie molto più di Niekisch che non di Marx, e davvero non stupisce che siano oggi gli USA e la CIA ad avere suscitato il fondamentalismo islamico per distruggere le tendenze nazionali e socialiste presenti nel mondo arabo, evocando quello che – anche dal loro punto di vista – si è rivelato un rimedio peggiore del male.

    Oggi anche questa tendenza nazionale e socialista presente nel Terzo Mondo appare in fase di ripiegamento, si tratta tuttavia di una delle poche forze che ancora si oppongono allo strangolamento dell’umanità in un “nuovo ordine” planetario e mondialista, che vede i popoli disgregati, meticciati e asservita all’alta finanza.

  9. #9
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    Predefinito Re: Chi per voi rappresentò meglio la Rivoluzione Conservatrice?

    Nelle tempeste d’acciaio della crisi. Il nazionalbolscevismo tra ieri e oggi
    Pubblicato il 20 nov 2020

    di Franco Milanesi

    Recensione del libro di David Bernardini, Nazionalbolscevismo. Piccola storia del rossobrunismo in Europa, Shake, Milano 2020.

    Sulla comprensione del significato storico e politologico del nazionalbolscevismo gravano due condizionamenti. Da una parte esso è oggetto di una sorta di damnatio memoriae da parte della sinistra di classe che fatica a prendere atto quanto l’internazionalismo proletario appartenga più alla tradizione ideologica marxiana e alla pubblicistica terzinternazionalista che alla storia effettuale dei movimenti di emancipazione. Percorrendo la storia del Novecento ci troviamo infatti di fronte a una frequente ed efficace attivazione dell’idea di nazione utilizzata come potenza mobilitante nel corso delle lotte di liberazione dal controllo e dal dominio di Stati stranieri, nei conflitti antiimperialisti, nella propaganda contro le borghesie che spadroneggiano nell’illimitato mercato-mondo. Anche nella fase di consolidamento degli stati socialisti, l’afflato internazionalista ha non di rado lasciato il posto al richiamo a forme di identità radicate nel fluido e ambiguo concetto di nazione (i lavori di Mosse, Wehler, Campi restano, sotto questo aspetto, punti di riferimento obbligati). La seconda ipoteca rimanda agli intrecci abborracciati tra neosovranismo, nazionalismo e comunismo che lo smottamento della cultura della sinistra ha lasciato come strascico melmoso dietro di sé. Con esiti spesso risibili e inquietanti non tanto sul piano del rigore teorico quanto su quello della strategia politica conseguente, non di rado orientata verso il suprematismo, il razzismo o il vero e proprio neofascismo.

    Per avvicinarsi alla comprensione dell’intricata storia dei gruppi, delle riviste e delle personalità che hanno innestato su tronco della nazione ulteriori motivi teorici, gli articoli e i saggi monografici di David Bernardini, giovane professore a contratto presso l’Università di Milano, rappresentano uno strumento indispensabile. Se in Pugni proletari e baionette prussiane. Il nazionalbolscevismo nella Repubblica di Weimar, Biblion 2017, veniva studiato in particolare il momento postbellico, in quest’ultimo lavoro Nazionalbolscevismo. Piccola storia del rossobrunismo in Europa, Shake, Milano 2020, Bernardini dilata notevolmente il raggio spazio-temporale prendendo in considerazione – con un’interessante procedere a ritroso, dalla contemporaneità alle origini weimariane del fenomeno – le molteplici espressioni politiche che hanno radicato la propria strategia nel punto di congiunzione tra nazionalismo e classismo, tra l’appartenenza allo “spirito” di un popolo connotato da “sangue e suolo” e la lotta anticapitalistica. Quanto siano ossimorici questi nessi è l’interrogativo che accompagna l’intero percorso di lettura e che in ragione dell’originalità e dell’ambivalenza del fenomeno non viene mai definitivamente risolto.

    Percorrendo il libro a ritroso e andando direttamente alle origini del fenomeno, si coglie come siano state le «foreste d’acciaio» (secondo la definizione di Ernst Jünger) in cui si svolse il grande macello del 1914-18 e soprattutto il diktat punitivo di Versailles a creare le condizioni per la formazione dei primi gruppi. Essi tentano di saldare e politicizzare il ribellismo antiliberale e anticapitalista, diffuso a causa della capitolazione politica (e non militare) della Germania, in una compatta ideologia in cui il risentimento verso Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti si sostanzia in un originale programma politico fortemente influenzato dalle idee che circolano e si intersecano in «quello straordinario laboratorio culturale e ideologico che è la Repubblica di Weimar» (p. 78). La sconfitta tedesca è attribuita alla responsabilità e all’ignavia delle forze liberali e socialiste che hanno svenduto agli Stati dell’Intesa un esercito “mai sconfitto sui campi di battaglia”. Per gli ideologi nazionalrivoluzionari questo “tradimento” a opera di forze interne giunge dopo ripetuti attacchi alla sovranità tedesca condotti da forze e potentati stranieri.

    Secondo questa prospettiva, scrive Bernardini, «il popolo tedesco sarebbe da secoli vittima di una colonizzazione culturale e politica: prima Roma e la Controriforma, poi gli ideali della Rivoluzione francese, infine quelli dell’Europa, tutte armi per la “deteschizzazione”» (p. 159). Questo contrasto tra la latinità meridionale e il Nord germanico, tra la grande Kultur tedesca e la Civilisation illuministica e democratica è in vario modo all’origine della capitolazione del 1918 (che ha tonalità spirituali oltre che materiale) e si perpetua nel primo dopoguerra, quando il blocco capitalistico-borghese guidato dagli Stati Uniti si fa promotore di un complessivo processo di colonizzazione. Gli Usa condensano in sé tutti tratti del “male”: consumismo, individualismo, edonismo, universalismo antidentitario, materialismo, mercificazione, pluralismo etnico e linguistico. Elementi che vanno intesi non tanto come ricadute marginali di un sistema di produzione ma come qualità penetrate in profondità nel tessuto dei soggetti e assunti in interiore homine dalla Figur borghese.

    La specifica attenzione per l’antropologia politica è sicuramente uno dei tratti di originalità e di suggestione del nazionalbolscevismo. Borghese non è solo o tanto colui che appartiene a una classe sociale, il soggetto che regge il sistema di produzione capitalistico: borghese è un Typus antropologico dominato dall’“economico”, fiaccato dall’arroccamento nel proprio interesse individuale, privo di “spirito” di appartenenza, indifferente pertanto a ogni dépense individuale a favore della superiore causa della comunità nazionale. È una soggetto internazionale, mercantile (le “potenze marittime” di Carl Schmitt) e per questo s-radicato: dal suolo, dal popolo che lo abita, dalla cultura che nasce sul terreno materiale delle relazioni.

    A questo idealtipo si contrappone un’immagine speculare e contraria che, muovendo dalla dimensione soggettiva, proietta su scala sociale e politica l’alterità piena al blocco di dominio occidentale. Lo scenario è la Russia e in quella direzione, verso Est, la Germania e i popoli che desiderano liberarsi dal giogo del capitale devono rivolgere il proprio sguardo. L’Ost Orientirung prende le mosse dalla vittoriosa rivoluzione del 1917. Per Niekisch il merito del bolscevismo non è tanto quello di aver abbattuto lo zarismo, quanto di aver bloccato lo sviluppo capitalistico in Russia, di avere creato un baluardo contro la dilagante occidentalizzazione del mondo e di “spaventare” le borghesie internazionali. In tal senso la Russia stalinizzata completa il percorso apertosi con la rivoluzione poiché porta sulla scena della storia i tratti di uno Stato, di una società e di un tipo umano completamente nuovo. Il “milite” sovietico racchiude in sé la potenza del popolo, del barbaro-soldato e del lavoratore; egli vive il proprio impegno di lavoro come servizio politico per una comunità più ampia che ha in primis il “tono” dell’appartenenza nazionale. Lo Stato rappresenta dunque la condensazione istituzionale di un sociale omologato nello sforzo di costruzione di un Nuovo Mondo e di un inedito modo di esistenza. La Russia stalinizzata, orgogliosamente nazionale, è la realtà in atto dello spirito operaio e contadino e ha ben poco a che fare con l’ispirazione universalistica del marxismo.

    Per i nazionalbolscevichi comunismo e marxismo si divaricano nettamente a causa dell’omologazione di quest’ultimo all’economicismo e al materialismo proprio del capitale. Nella Germania di Weimar essi furono pertanto critici verso i comunisti, accusati di un internazionalismo vacuo e parolaio, sprezzanti nei confronti del fiacco riformismo della Spd, ostili al montante nazismo anche per l’efficace lavoro di proselitismo della destra estrema dentro lo stesso blocco sociale di riferimento. Questa scelta di marginalità sarà pagata dal movimento in termini di impotenza operativa, di frammentazione e isolamento. Dopo l’avvento al potere di Hitler, incarnazione come scrisse Nieksich nel 1932 del «destino tedesco», si chiuse in due soli mesi la partita con tutte le opposizioni rossobrune che implosero tra dispersione, riassorbimento e repressione. Già recluso durante la Repubblica di Weimar, Niekisch verrà inghiottito nelle galere naziste da cui uscirà solo nel 1945, duramente minato nel fisico.

    Nel secondo dopoguerra l’ipotesi nazionalbolscevica mantiene, come illustra Bernardini, una sua dignità teorica, pur riproducendo senza modificazioni rilevanti i caratteri sostanziali del momento weimariano. Una parte della destra estrema del dopoguerra, violentemente anticomunista, continuerà per esempio a osservare con interesse la Russia come luogo di elezione del tradizionalismo antioccidentale infatuandosi al tempo stesso per tutte le insorgenze nazionaliste e localiste – l’Iran e i palestinesi, l’indipendentismo irlandese e quello basco – interpretate come consapevoli atti di ribellione alla “messa in forma” operata dal mondialismo capitalistico. «Il nemico è ora la cancellazione della specificità dei popoli, l’omogeneizzazione globale a cui tenderebbero sia il comunismo sovietico sia il capitalismo» (p. 74) e, dopo la fine dell’Urss, il globalismo e la sua “cultura” massificante.

    Seguendo i percorsi biografici dei militanti rossobruni, Bernardini disegna un continuo sconfinamento in Francia, Italia e Germania tra fascismo, nazismo e rossobrunismo. Il francese Thiriart fondatore della Jeune Europe è un’ex SS; stessa provenienza ha Arthur Ehrhardt in Germania, mentre Eichberg, ancora nella Repubblica Federale, autore di testi e manifesti in cui critica marxismo sovietico e universalismo capitalista, radica la strategia della sua organizzazione nel pensiero e nelle azioni di Maurras, Barrés e La Rochelle, gli stessi numi tutelari del fascismo francese. Anche in Austria, Belgio, Portogallo sorgono esperienze nazionalrivolzionarie che «avendo riconosciuto la nazione come soggetto rivoluzionario, sfoceranno nel fascismo» (p. 87).

    Il caso italiano assume tratti rilevanti sul piano qualitativo e quantitativo. Già nel 1946 appaiono riviste come «Rivolta ideale», «Rosso e nero», «Pensiero nazionale». Siamo nell’alveo della sinistra fascista dalla quale i vari soggetti del socialismo nazionale usciranno ed entreranno con fluidità anche nei decenni successivi, mentre assai più sporadici e difficoltosi saranno le intersezioni con la sinistra. La svolta atlantista e l’istituzionalizzazione definitiva dell’Msi portano all’allontanamento di molti attivisti e a nuove organizzazioni: Giovane Europa e soprattutto Lotta di Popolo che arriva a sommare qualche centinaio di militanti. Negli anni Settanta troviamo altre sigle legate a personaggi costantemente presenti nelle cronache del neofascismo nazionale: Freda, Fiore, Adinolfi.

    Se l’esperienza rossobruna in Italia ha radici nell’esperimento fiumano, nel “diciannovismo” e nel presunto carattere “sociale” della Rsi, lo scavo minuzioso di Bernardini nel nazionalbolscevismo europeo mostra, in ultimo, una «profonda convergenza ideologica» (p. 154) tra i diversi movimenti che ci permette di racchiudere un fenomeno apparentemente sfuggente a ogni tipologizzazione in una cornice concettuale abbastanza precisa. Già nel testo precedente Bernardini aveva chiarito, in sede di bilancio storiografico, come un ipotetico accredito “di sinistra” delle esperienze storiche e ideologiche del nazionalbolscevismo naufragasse di fronte alla sostanza di «un modello di società autoritaria, marziale, sessista e razzista (anche se l’antisemitismo giocava un ruolo del tutto secondario) nella quale gli individui dovevano essere ridotti a ingranaggi di una nazione mobilitata e militarizzata» (Pugni proletari e baionette prussiane, p. 213). Un profilo che attraverso aggiornamenti e modificazioni si conferma anche nelle storia delle formazioni nazional-rivoluzionarie negli anni Sessanta e Settanta che, in ultimo, non esprimono pochi gradi di originalità rispetto alle elaborazioni originarie prodotte dai “padri fondatori” nel primo dopoguerra. Insomma, se leggiamo il Manifesto nazionalbolscevico di Karl Otto Paetel ritroviamo quasi tutti i tratti caratterizzanti di un movimento tanto articolato (c’è da perdersi tra sigle di micro-organizzazioni e il proliferare delle riviste) quanto “ripetitivo” nelle sue ossessioni teoriche.

    Ma va anche detto che la crisi delle grandi “case” politiche novecentesche e l’emergere di una potente corrente populista – per quanto siano sfrangiati i suoi contorni semantici – riporta alcune intuizioni nazionalbolsceviche su un terreno di potenziale riattivazione. Il popolo disegnato nelle campagne mobilitanti dei populisti di sinistra ha gli stessi connotati antiborghesi e comunitari del blocco sociale cui fanno riferimento le numerose riviste del fronte nazionalrivoluzionario nella sua versione neobolscevica. La rappresentazione semplificata di un “basso” contro l’“alto”, che ha caratterizzato le recenti campagne elettorali in tutto il mondo, è sempre stata percorsa da un sotterraneo e raramente esplicitato richiamo alla nazione come elemento unificante di un popolo organicamente disegnato, compattato dentro un’identità di volta in volta costruita (il «significante vuoto» di cui parla Laclau), senza divisioni o striature.

    Ciò detto, il lavoro complessivo di Bernardini serve anche a mettere in guardia da attualizzazioni o torsioni interpretative. È evidente, per esempio, quanto la figura del “milite del lavoro” come atomo di un’organica società comunista alternativa in ogni suo tratto (economico, politico, antropologico) a quella borghese sia consegnata alla storia del “secolo degli estremi”. Un tempo percorso da militanti che aderivano appieno alla tipologia del totus politicus, marcando così la cesura da una attualità striata in ogni sua espressione da quell’antipolitica che gli stessi movimenti populisti sembrano cavalcare, identificando il potere e il “male” nello Stato e nei partiti piuttosto che nei potentati economici.

    Tra memoria della militanza e potenziali attualizzazioni, originalità teoriche e vacui slogan antisistema, il nazionalbolscevismo sconfina in ogni caso dalla mera ricostruzione storiografica e, come ben dimostra questo testo, interroga il presente e la sua incerta configurazione politica e sociale.

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    Predefinito Re: Chi per voi rappresentò meglio la Rivoluzione Conservatrice?

    ERNST NIEKISCH - UN RIVOLUZIONARIO TEDESCO(1889-1967)

    Ernst Niekisch è la figura più rappresentativa del complesso e multiforme panorama che offre il movimento nazional-bolscevico tedesco degli anni 1918-1933. In lui si incarnano con chiarezza le caratteristiche - e le contraddizioni - evocate dal termine nazional-bolscevico e che rispondono molto più ad uno stato d'animo, ad una disposizione attivista, che ad una ideologia dai contorni precisi o ad una unità organizzativa, poiché questo movimento era composto da una infinità di piccoli circoli, gruppi, riviste ecc. senza che ci fosse mai stato un partito che si fosse qualificato nazional-bolscevico. E’ curioso constatare come nessuno di questi gruppi o persone usò questo appellativo (se escludiamo la rivista di Karl Otto Paetel, "Die Sozialistische Nation") bensì che l’aggettivo fu impiegato in modo dispregiativo, non scevro di sensazionalismo, dalla stampa e dai partiti sostenitori della Repubblica di Weimar, dei quali tutti i nazional-bolscevichi furono feroci nemici non essendoci sotto questo punto di vista differenze fra gruppi d’origine comunista che assimilarono l’idea nazionale ed i gruppi nazionalisti disposti a perseguire scambi economici radicali e l’alleanza con l'URSS per distruggere l'odiato sistema nato dal Diktat di Versailles. Ernst Niekisch nacque il 23 maggio 1889 a Trebnitz (Slesia). Era figlio di un limatore che si trasferì a Nordlingen im Reis (Baviera-Svevia) nel 1891. Niekisch frequenta gli studi di magistero, che termina nel 1907, esercitando poi a Ries e Augsburg. Non era frequente nella Germania guglielmina - quello Stato in cui si era realizzata la vittoria del borghese sul soldato secondo Carl Schmitt - che il figlio di un operaio studiasse, per cui Niekisch dovette soffrire le burle e l’ostilità dei suoi compagni di scuola. Già in quel periodo era avido di sapere ("Una vita da nullità è insopportabile", dirà) e divorato da un interiore fuoco rivoluzionario; legge Hauptmann, Ibsen, Nietzsche, Schopenhauer, Kant, Hegel e Macchiavelli, alla cui influenza si aggiungerà quella di Marx, a partire dal 1915. Arruolato nell’esercito nel 1914, seri problemi alla vista gli impediscono di giungere al fronte, per cui eserciterà, sino al febbraio del 1917, funzioni di istruttore di reclute ad Augsburg. Nell’ottobre del 1917 entra nel Partito Socialdemocratico (SPD) e si sente fortemente attratto dalla rivoluzione bolscevica. E' di quell’epoca il suo primo scritto politico, oggi perso, intitolato significativamente Licht aus dem osten (Luce dall’Est), nel quale già formulava ciò che sarà una costante della sua azione politica: l’idea della "Ostorientierung". La diffusione di questo foglio sarà sabotata dallo stesso SPD al cui periodico di Augsburg "Schwabischen Volkszeitung" collaborava Niekisch. Il 7 novembre 1918 Eisner, a Monaco, proclama la Repubblica. Niekisch fonda il Consiglio degli Operai e Soldati di Augsburg e ne diviene il presidente, dopo esserlo già stato del Consiglio Centrale degli Operai, Contadini e Soldati di Monaco nel febbraio e nel marzo del 1919. Egli è l’unico membro del Comitato Centrale che vota contro la proclamazione della prima Repubblica sovietica in Baviera, poiché considera che questa, in ragione del suo carattere agrario, sia la provincia tedesca meno idonea a realizzare l’esperimento. Malgrado ciò, con l’entrata dei Freikorps a Monaco, Niekisch viene arrestato il 5 maggio - giorno in cui passa dal SPD al Partito Socialdemocratico Indipendente (USPD). lI 22 giugno viene condannato a due anni di fortezza per la sua attività nel Consiglio degli Operai e Soldati, per quanto non abbia avuto nulla a che vedere con i crimini della Repubblica sovietica bavarese. Niekisch sconta integralmente la sua pena, e nonostante l’elezione al parlamento bavarese nelle liste della USPD non sarà liberato fino all’agosto del 1921. Frattanto, si ritrova nel SPD per effetto della riunificazione dello stesso con la USPD (la scissione si era determinata durante la guerra mondiale). Niekisch non è assolutamente d’accordo con la politica condiscendente dell’SPD - per temperamento era incapace di sopportare le mezze tinte o i compromessi - ed a questa situazione di sdegno si aggiungevano le minacce contro di lui e la sua famiglia (si era sposato nel 1915 ed aveva un figlio); così rinuncia al suo mandato parlamentare e si trasferisce a Berlino, dove entra nella direzione della segreteria giovanile del grande sindacato dei tessili, un lavoro burocratico che non troverà di suo gradimento. I suoi rapporti con L'SPD si deteriorano progressivamente, per il fatto che Niekisch si oppone al pagamento dei danni di guerra alla Francia e al Belgio e appoggia la resistenza nazionale quando la Francia occupa il bacino della Ruhr, nel gennaio del 1923. Dal 1924 si oppone anche al Piano Dawes, che regola il pagamento dei danni di guerra imposto alla Germania a Versailles. Niekisch attaccò frontalmente la posizione dell’SPD di accettazione del Piano Dawes in una conferenza di sindacalisti e socialdemocratici scontrandosi con Franz Hilferding, principale rappresentante della linea ufficiale.
    NeI 1925 Niekisch, che è redattore capo della rivista socialista Firn (Il nevaio), pubblica i due primi lavori giunti fino a noi: Der Weg der deutschen Arbeiterschaft zum Staat e Grundfragen deutscher Aussenpolitik. Entrambe le opere testimoniano una influenza di Lassalle molto maggiore di quella di Marx/Engels, un aspetto che fa somigliare queste prime prese di posizione di Niekisch a quelle assunte nell’immediato dopoguerra dai comunisti di Amburgo, che si separarono dal Partito Comunista Tedesco (KPD) per fondare il Partito Comunista Operaio Tedesco (KAPD), guidato da Laufenberg e Wolffheim, che era un accanito partigiano della lotta di liberazione contro Versailles (questo partito, che giunse a disporre di una base abbastanza ampia, occupa un posto importante nella storia del nazionalbolscevismo). Nei suoi scritti del 1925, Niekisch propone che l'SPD si faccia portavoce dello spirito di resistenza del popolo tedesco contro l'imperialismo capitalista delle potenze dell’Intesa, ed allo stesso tempo sostiene che la liberazione sociale delle masse proletarie ha come presupposto inevitabile la liberazione nazionale. Queste idee, unite alla sua opposizione alla politica estera filofrancese dell’SPD ed alla sua lotta contro il Piano Dawes, gli attirano la sfiducia dei vertici socialdemocratici. Il celebre Eduard Bernstein lo attaccherà per suoi atteggiamenti nazionalistici sulla rivista "Glocke". In realtà, Niekisch non fu mai marxista nel senso ortodosso della parola: concedeva al marxismo valore di critica sociale, ma non di WeItanschauung, ed immaginava lo Stato socialista al di sopra di qualsiasi interesse di classe, come esecutore testamentario di Weimar e Königsberg (cioè di Goethe e Kant). Si comprende facilmente come questo genere di idee non fossero gradite all'imborghesita direzione dell’SPD... Ma Niekisch non era isolato in seno al movimento socialista, poiché manteneva stretti rapporti con il Circolo Hofgeismar della Gioventù Socialista, che ne rappresentava l’ala nazionalista fortemente influenzata dalla Rivoluzione conservatrice. Niekisch scrisse spesso su "Rundbrief", la rivista di questo circolo, dal quale usciranno fedeli collaboratori quando avrà inizio l’epoca di "Widerstand": fra essi Benedikt Qbermayr, che lavorerà con Darré nel Reichsmährstand. Poco a poco l’SPD comincia a disfarsi di Niekisch: per le pressioni del suo primo presidente, Niekisch fu escluso dal suo posto nel sindacato dei tessili, e nel luglio del 1925 anticipò con le dimissioni dall'SPD il provvedimento di espulsione avviato contro di lui, ed il cui risultato non dava adito a dubbi. Inizia ora il periodo che riserverà a Niekisch un posto nella storia delle idee rivoluzionarie del XX secolo: considerando molto problematico lo schema "destra-centro-sinistra", egli si sforza di raggruppare le migliori forze della destra e della sinistra (conformemente alla celebre immagine del ferro di cavallo, in cui gli estremi si trovano più vicini fra loro di quanto non lo siano con il centro) per la lotta contro un nemico che definisce chiaramente: all’esterno l’Occidente liberale ed il Trattato di Versailles; all’interno il liberalismo di Weimar. Nel luglio del 1926 pubblica il primo numero della rivista Widerstand ("Resistenza"), e riesce ad attirare frazioni importanti - per numero ed attivismo - dell’antico Freikorps "Bund Oberland" mentre aderisce all'Altsozialdemokratische Partei (ASP) della Sassonia, cercando di utilizzarlo come piattaforma per i suoi programmi di unificazione delle forze rivoluzionarie. Per questa ragione si trasferisce a Dresda, dove dirige il periodico dell’ASP ("Der Volkstaat"), conducendo una dura lotta contro la politica filo-occidentale di Stresemann, opponendo al trattato di Locarno, con il quale la Germania riconosceva come definitive le sue frontiere occidentali ed il suo impegno a pagare i danni di guerra, lo spirito del trattato di Rapallo (1922), con il quale la Russia sovietica e la Germania sconfitta - i due paria d'Europa - strinsero le loro relazioni solidarizzando contro le potenze vincitrici. L'esperienza con l’ASP termina quando questo partito è sconfitto nelle elezioni del 1928, e ridotto ad entità insignificante. Questo insuccesso non significa assolutamente che Niekisch abbandoni la lotta scoraggiato. Al contrario, è in questo periodo che scriverà le sue opere fondamentali: Gedanken über deutsche Politik, Politik und idee (entrambe del 1929), Entscheidung (1930: il suo capolavoro), Der Politische Raum deutschen Widerstandes (1931) e Politik deutschen Widerstandes (1932). Parallelamente a questa attività pubblicistica, continua a pubblicare la rivista "Widerstand", fonda la casa editrice che porta lo stesso nome nel 1928 e viaggia in tutti gli angoli della Germania come conferenziere. Il solo elenco delle personalità con le quali ha rapporti è impressionante (dal maggio 1929 si trasferisce definitivamente a Berlino): il filosofo Alfred Baeumler gli presenta Ernst e Georg Jünger, con i quali avvia una stretta collaborazione; mantiene rapporti con la sinistra del NSDAP. il conte Ernst zu Reventlow, Gregor Strasser (che gli offrirà di diventare redattore capo dei "Voelkischer Beobachter") e Goebbels, che è uno dei più convinti ammiratori del suo libro Entscheidung (Decisione). E’ pure determinante la sua amicizia con Carl Schmitt. Nell'ottobre del 1929, Niekisch è l’animatore dell’azione giovanile contro il Piano Young (un altro piano di "riparazioni"), pubblicando sul periodico "Die Kommenden", il 28 febbraio del 1930, un ardente appello contro questo piano, sottoscritto da quasi tutte le associazioni giovanili tedesche - fra le quali la Lega degli Studenti Nazionalsocialisti e la Gioventù Hitleriana -, e che fu appoggiato da manifestazioni di massa. I simpatizzanti della sua rivista furono organizzati in "Circoli Widerstand" che celebrarono tre congressi nazionali negli anni 1930-1932. Nell'autunno del '32 Niekisch va in URSS, partecipando ad un viaggio organizzato dalla ARPLAN (Associazione per lo studio del Piano Quinquennale sovietico, fondata dal professor Friedrich Lenz, altra figura di spicco del nazional-bolscevismo). Questi dati biografici erano indispensabili per presentare un uomo come Niekisch, che è praticamente uno sconosciuto; e per poter comprendere le sue idee, idee che, d'altra parte, egli non espose mai sistematicamente - era un rivoluzionario ed uno scrittore da battaglia -, ne tenteremo una ricostruzione. Dal 1919 Niekisch era un attento lettore di Spengler (cosa che non deve sorprendere in un socialista di quell' epoca, nella quale esisteva a livello intellettuale e politico una compenetrazione tra destra e sinistra, quasi una osmosi, impensabile nelle attuali circostanze), del quale assimilerà soprattutto la famosa opposizione fra "Kultur" e "Zivilisation". Ma la sua concezione politica fu notevolmente segnata dalla lettura di un articolo di Dostoevskij che ebbe una grande influenza nella Rivoluzione conservatrice tramite il Thomas Mann delle Considerazioni di un apolitico, e di Moeller van den Bruck con Germania, potenza protestante (dal Diario di uno scrittore, maggio/giugno 1877, cap. III). Il termine "protestante" non ha nessuna connotazione religiosa, ma allude al fatto che la Germania, da Arminio ad oggi, ha sempre "protestato" contro le pretese romane di dominio universale, riprese dalla Chiesa cattolica e dalle idee della Rivoluzione francese, prolungandosi, come segnalerà Thomas Mann, sino agli obiettivi dell' Intesa che lottò contro la Germania nella Prima Guerra Mondiale. Da questo momento, l’odio verso il mondo romano diventa un aspetto essenziale del pensiero di Niekisch, e le idee espresse in questo articolo di Dostoevskij rafforzano le sue concezioni. Niekisch fa risalire la decadenza del germanesimo ai tempi in cui Carlomagno compì il massacro della nobiltà sassone ed obbligò i sopravvissuti a convertirsi al cristianesimo: cristianesimo che per i popoli germanici fu un veleno mortale, il cui scopo è stato quello di addomesticare il germanesimo eroico al fine di renderlo maturo per la schiavitù romana. Niekisch non esita a proclamare che tutti i popoli che dovevano difendere la propria libertà contro l’imperialismo occidentale erano obbligati a rompere con il cristianesimo per sopravvivere. Il disprezzo per il cattolicesimo si univa in Niekisch all’esaltazione del protestantesimo tedesco, non in quanto confessione religiosa (Niekisch censurava aspramente il protestantesimo ufficiale, che accusava di riconciliarsi con Roma nella comune lotta antirivoluzionaria), ma in quanto presa di coscienza orgogliosa dell’essere tedesco e attitudine aristocratica opposta agli stati d’animo delle masse cattoliche: una posizione molto simile a quella di Rosenberg, visto che difendevano entrambi la libertà di coscienza contro l’oscurantismo dogmatico (Niekisch commentò sulla sua rivista lo scritto di Rosenberg "il mito del XX secolo").Questa attitudine ostile dell'imperialismo romano verso la Germania è continuata attraverso i secoli, poiché "ebrei", gesuiti e massoni sono da secoli coloro che hanno voluto schiavizzare ed addomesticare i barbari germanici. L’accordo del mondo intero contro la Germania che si manifesta soprattutto quando questa si è dotata di uno Stato forte, si rivelò con particolare chiarezza durante la Prima Guerra Mondiale, dopo la quale le potenze vincitrici imposero alla Germania la democrazia (vista da Niekisch come un fenomeno di infiltrazione straniera) per distruggerla definitivamente. Il Primato del politico sull' economico fu sempre un principio fondamentale del pensiero di Niekisch. Fortemente influenzato da Carl Schmitt, e partendo da questa base, Niekisch doveva vedere come nemico irriducibile il liberalismo borghese, che valorizza soprattutto i principi economici e considera l'uomo soltanto isolatamente, come unità alla ricerca del suo esclusivo profitto. l'individualismo borghese (con i conseguenti Stato liberale di diritto, libertà individuali, considerazioni dello Stato come un male) e materialismo nel pensiero di Niekisch appaiono come caratteristiche essenziali della democrazia borghese. Nello stesso tempo, Niekisch sviluppa una critica non originale, ma efficace e sincera, del sistema capitalista come sistema il cui motore è l’utile privato e non il soddisfacimento delle necessità individuali e collettive; e che, per di più, genera continuamente disoccupazione. In questo modo la borghesia viene qualificata come nemico interno che collabora con gli Stati occidentali borghesi all’oppressione della Germania. Il sistema di Weimar (incarnato da democratici, socialisti e clericali) rappresentava l’opposto dello spirito e della volontà statale dei tedeschi, ed era il nemico contro il quale si doveva organizzare la “Resistenza". Quello di "Resistenza" è un'altro concetto fondamentale dell'opera di Niekisch. La rivista dallo stesso nome recava, oltre al sottotitolo (prima "Blätter für sozialistische und nationalrevolutionäre Politik", quindi "Zeitschrift für nationalrevolutionäre Politik") una significativa frase di Clausewitz: "La resistenza è un'attività mediante la quale devono essere distrutte tante forze del nemico da indurlo a rinunciare ai suoi propositi". Se Niekisch considerava possibile questa attitudine di resistenza è perché credeva che la situazione di decadenza della Germania fosse passeggera, non irreversibile; e per quanto a volte sottolineasse che il suo pessimismo era “illimitato", si devono considerare le sue dichiarazioni in questo senso come semplici espedienti retorici, poiché la sua continua attività rivoluzionaria è la prova migliore che in nessun momento cedette al pessimismo ed allo sconforto. Abbiamo visto qual era il nemico contro cui dover organizzare la resistenza: “La democrazia parlamentare ed il liberalismo, il modo di vivere francese e l’americanismo". Con la stessa esattezza Niekisch definisce gli obiettivi della resistenza: l’indipendenza e la libertà della Germania, la più alta valorizzazione dello Stato, il recupero di tutti i tedeschi che si trovavano sorto il dominio straniero. Coerente col suo rifiuto dei valori economici, Niekisch non contrappone a questo nemico una forma migliore di distribuzione dei beni materiali, né il conseguimento di una società del benessere: ciò che Niekisch cercava era il superamento del mondo borghese, i cui beni si devono “detestare asceticamente". Il programma di "Resistenza" dell’aprile del 1930 non lascia dubbi da questo punto di vista: nello stesso si chiede il rifiuto deciso di tutti i beni che l’Europa vagheggia (punto 7a), il ritiro dall'economia internazionale (punto 7b), la riduzione della popolazione urbana e la ricostituzione delle possibilità di vita contadina (7c-d), la volontà di povertà ed un modo di vita semplice che deve opporsi orgogliosamente alla vita raffinata delle potenze imperialiste occidentali (7f) e, finalmente, la rinuncia al principio della proprietà privata nel senso del diritto romano, poiché “agli occhi dell’opposizione nazionale, la proprietà non ha senso né diritto al di fuori del servizio al popolo ed allo Stato”. Per realizzare i suoi obiettivi, che Uwe Sauermann definisce con precisione identici a quelli dei nazionalisti, anche se le strade e gli strumenti per conseguirli sono nuovi, Niekisch cerca le forze rivoluzionarie adeguate. Non può sorprendere che un uomo proveniente dalla sinistra come lui si diriga in primo luogo al movimento operaio. Niekisch constata che l’abuso che la borghesia ha fatto del concetto "nazionale", impiegato come copertura dei suoi interessi economici e di classe, ha provocato nel lavoratore l’identificazione fra "nazionale" e "socialreazionario", fatto che ha portato il proletariato a separarsi troppo dai legami nazionali per crearsi un proprio Stato. E per quanto questo atteggiamento dell’insieme del movimento operaio sia parzialmente giustificato, non sfugge a Niekisch il fatto che il lavoratore in quanto tale è solo appena diverso da un "borghese frustrato” senz’altra aspirazione che quella di conseguire un benessere economico ed un modo di vivere identico a quello della borghesia. Questa era una conseguenza necessaria al fatto che il marxismo è un ideologia borghese, nata nello stesso terreno del liberalismo e tale da condividere con questo una valorizzazione della vita in termini esclusivamente economici.La responsabilità di questa situazione ricade in gran parte sulla socialdemocrazia che "è soltanto liberalismo popolarizzato e che ha spinto il lavoratore nel suo egoismo di classe, cercando di farne un borghese". Questa attitudine del SPD è quella che ha portato, dopo il 1918, non alla realizzazione della indispensabile rivoluzione nazionale e sociale, bensì "alla ricerca di cariche per i suoi dirigenti” ed alla conversione in una opposizione all'interno del sistema capitalista, anziché in un partito rivoluzionario: L’SPD è un partito liberale e capitalista che impiega una terminologia socialrivoluzionaria per ingannare i lavoratori. Questa analisi è quella che porta Niekisch a dire che tutte le forme di socialismo basate su considerazioni umanitarie sono "tendenze corruttrici che dissolvono la sostanza della volontà guerriera del popolo tedesco". Influenzata molto dal “decisionismo" di Cari Schmitt, l’attitudine di Niekisch verso il KPD è molto più sfumata. Prima di tutto, ed in opposizione al SPD, fermamente basato su concezioni borghesi, il comunismo si regge “su istinti elementari". Del KPD Niekisch apprezza in modo particolare la “struttura autocratica”, la “approvazione a voce alta della dittatura”. Queste caratteristiche renderebbero possibile utilizzare il comunismo come “mezzo” ed il percorrere insieme una parte della strada. Niekisch accolse con speranza il "Programma di Liberazione Nazionale e Sociale" del KPD (24 agosto 1930) in cui si dichiarava la lotta totale contro le riparazioni di guerra e l’ordine dì Versailles, ma quando ciò si rivelò solo una tattica - diretta a frenare i crescenti successi del NSDAP-, cosi come lo era stata la "linea Schlagater" nei 1923, Niekisch denunciò la malafede dei comunisti sul problema nazionale e li qualificò come incapaci di realizzare il compito al quale lui aspirava poiché erano "solo socialrivoluzionari" e per di più poco rivoluzionari. Il ruolo dirigente nel partito rivoluzionario avrebbe quindi dovuto essere ricoperto da un "nazionalista" di nuovo stampo, senza legami con il vecchio nazionalismo (è significativo che Niekisch considerasse il partito tradizionale dei nazionalisti, il DNVP, incapace di conseguire la resurrezione tedesca perché orientato verso l'epoca guglielmina, definitivamente scomparsa). Il nuovo nazionalismo doveva essere socialrivoluzionario, non condizionato, disposto a distruggere tutto quanto potesse ostacolare l’indipendenza tedesca, ed il nuovo nazionalista, fra i cui compiti c’era quello di utilizzare l’operaio comunista rivoluzionario, doveva avere la caratteristica fondamentale di volersi sacrificare e voler servire. Secondo una bella immagine di Niekisch, il comunismo non sarebbe altro che “il fumo che inevitabilmente sale dove un mondo comincia a bruciare”.Si è vista l’immagine offerta da Niekisch della secolare decadenza tedesca, ma nel passato tedesco non tutto è oscuro; c’è un modello al quale Niekisch guarderà costantemente: la vecchia Prussia o, come egli dice, l'idea di Potsdam, una Prussia che con l'apporto di sangue slavo possa essere l’antidoto contro la Germania romanizzata.E così che esigerà, fin dai primi numeri di "Widerstand", la resurrezione di "una Germania prussiana, disciplinata e barbara, più preoccupata del potere che delle cose dello spirito". Cosa significa esattamente la Prussia per Niekisch? O.E. Schüddekopf lo ha indicato esattamente quando dice che nella "idea di Potsdam" Niekisch vedeva tutte le premesse del suo nazional-bolscevismo: "Lo Stato totale, l’economia pianificata, l’alleanza con la Russia, una condizione spirituale antiromana, la difesa contro l'Ovest, contro l'Occidente, l'incondizionato Stato guerriero, la povertà...". Nell'idea prussiana di sovranità Niekisch riconosce l'idea di cui hanno bisogno i tedeschi: quella dello "Stato totale", necessario in quanto la Germania, minacciata dall'ostilità dei vicini per la sua condizione geografica, ha bisogno di diventare uno Stato militare. Questo Stato totale deve essere lo strumento di lotta cui deve essere tutto subordinato - l'economia come la cultura e la scienza - affinchè il popolo tedesco possa ottenere la sua libertà. E’ evidente, per Niekisch - ed in questo occorre ricercare una delle ragioni più profonde del suo nazional-bolscevismo -, che lo Stato non può dipendere da un’economia capitalista in cui offerta e domanda determinino il mercato; al contrario, l’economia deve essere subordinata allo Stato ed alle sue necessità. Per qualche tempo, Niekisch ebbe fiducia in determinati settori della Reichswehr (pronunciò molte delle sue conferenze in questo ambiente militare) per realizzare l’"idea di Potsdam”, ma agli inizi del 1933 si allontanò dalla concezione di una "dittatura della Reichswehr" perché essa non gli appariva sufficientemente "pura" e "prussiana" tanto da farsi portatrice della "dittatura nazionale", e ciò era dovuto, sicuramente, ai suoi legami con le potenze economiche. Un'altro degli aspetti chiave del pensiero di Niekisch è il primato riconosciuto alla politica estera (l'unica vera politica per Spengler) su quella interna. Le sue concezioni al riguardo sono marcatamente influenzate da Macchiavelli (del quale Niekisch era grande ammiratore, tanto da firmare alcuni suoi articoli con lo pseudonimo di Niccolò) e dal suo amico Karl Haushofer. Del primo, Niekisch conserverà sempre la Realpolitik, la sua convinzione che la vera essenza della politica è sempre la lotta fra Stati per il potere e la supremazia, dal secondo apprenderà a pensare secondo dimensioni geopolitiche, considerando che nella situazione di allora - ed a maggior ragione in quella attuale - hanno un peso nella politica mondiale solamente gli Stati costruiti su grandi spazi, e siccome nel 1930 l'Europa centrale di per sè non avrebbe potuto essere altro che una colonia americana, sottomessa non solo allo sfruttamento economico, ma "alla banalità, alla nullità, al deserto, alla vacuità della spiritualità americana", Niekisch propone un grande stato "da Vladivostok sino a Vlessingen", cioè un blocco germano-slavo dominato dallo spirito prussiano con l'imperio dell'unico collettivismo che possa sopportare l'orgoglio umano: quello militare. Accettando con decisione il concetto di "popoli proletari" (come avrebbero fatto i fascisti di sinistra), il nazionalismo di Niekisch era un nazionalismo di liberazione, privo di sciovinismo, i cui obbiettivi dovevano essere la distruzione dell'ordine europeo sorto da Versailles e la liquidazione della Società delle Nazioni, strumento delle potenze vincitrici. Agli inizi del suo pensiero, Niekisch sognava un "gioco in comune" della Germania con i due Paesi che avevano saputo respingere la "struttura intellettuale" occidentale: la Russia bolscevica e l'Italia fascista (è un'altra coincidenza, tra le molte, fra il pensiero di Niekisch e quello di Ramiro Ledesma). Nel suo programma dell'aprile del 1930, Niekisch chiedeva "relazioni pubbliche o segrete con tutti i popoli che soffrono, come il popolo tedesco, sotto l'oppressione delle potenze imperialiste occidentali". Fra questi popoli annoverava l'URSS ed i popoli coloniali dell'Asia e dell'Africa. Più avanti vedremo la sua evoluzione in relazione al Fascismo, mentre ci occuperemo dell'immagine che Niekisch aveva della Russia sovietica. Prima di tutto dobbiamo dire che quest' immagine non era esclusiva di Niekisch, ma che era patrimonio comune di quasi tutti gli esponenti della Rivoluzione Conservatrice e del nazional-bolscevismo, a partire da Moeller van den Bruck, e lo saranno anche i più lucidi fascisti di sinistra: Ramiro Ledesma Ramos e Drieu la Rochelle. Perchè, in effetti, Niekisch considerava la rivoluzione russa del 1917 prima di tutto come una rivoluzione nazionale, più che come una rivoluzione sociale. La Russia, che si trovava in pericolo di morte a causa dell'infiltrazione dei valori occidentali estranei alla sua essenza, "incendiò di nuovo Mosca" per farla finita con i suoi invasori, impiegando il marxismo come combustibile. Con parole dello stesso Niekisch: "Questo fu il senso della Rivoluzione bolscevica: la Russia, in pericolo di morte, ricorse all'idea di Potsdam, la portò sino alle estreme conseguenze, quasi oltre ogni misura, e creò questo Stato assolutista di guerrieri che sottomette la stessa vita quotidiana alla disciplina militare, i cui cittadini sanno sopportare la fame quando c'è da battersi, la cui vita è tutta carica, fino all'esplosione, di volontà di resistenza". Kerenski era stato solo una testa di legno dell' Occidente che voleva introdurre la democrazia borghese in Russia (Kerenski era, chiaramente, l’uomo nel quale avevano fiducia le potenze dell’Intesa perché la Russia continuasse al loro fianco la guerra contro la Germania); la rivoluzione bolscevica era stata diretta contro gli Stati imperialisti dell’Occidente e contro la borghesia interna favorevole allo straniero ed antinazionale. Coerente con questa interpretazione, Niekisch definirà il leninismo come "ciò che rimane del marxismo quando un uomo di Stato geniale lo utilizza per finalità di politica nazionale", e citerà con frequenza la celebre frase di Lenin che sarebbe diventata il leit-motiv di tutti i nazional-bolscevichi: "Fate della causa del popolo la causa della Nazione e la causa della Nazione diventerà la causa del popolo". Nelle lotte per il potere che ebbero luogo ai vertici sovietici dopo la morte di Lenin, le simpatie di Niekisch erano dirette a Stalin, e la sua ostilità verso Trotzskij (atteggiamento condiviso, fra molti altri, anche da Ernst Jünger e dagli Strasser). Trotzskij ed i suoi seguaci, incarnavano, agli occhi di Niekisch, le forze occidentali, il veleno dell’Ovest, le forze di una decomposizione ostile a un ordine nazionale in Russia. Per questo motivo Niekisch accolse con soddisfazione la vittoria di Stalin e dette al suo regime la qualifica di "organizzazione della difesa nazionale che libera gli istinti virili e combattenti". Il Primo Piano Quinquennale, in corso quando Niekisch scriveva, era "Un prodigioso sforzo morale e nazionale destinato a conseguire l’autarchia". Era quindi l’aspetto politico-militare della pianificazione ciò che affascinava Niekisch, gli aspetti socio-economici (come nel caso della sua valutazione del KDP) lo interessavano appena. Fu in questo modo che poté coniare la formula: "collettivismo + pianificazione = militarizzazione del popolo". Quanto Niekisch apprezzava della Russia è esattamente il contrario di quanto ha attratto gli intellettuali marxisti degenerati: “La violenta volontà di produzione per rendere forte e difendere lo Stato, l’imbarbarimento cosciente dell’esistenza... l’attitudine guerriera, autocratica, dell’élite dirigente che governa dittatorialmente, l’esercizio per praticare l’ascesi di un popolo...”. Era logico che Niekisch vedesse nell’Unione Sovietica il compagno ideale di un’alleanza con la Germania, poiché incarnava i valori antioccidentali cui Niekisch aspirava. Inoltre, occorre tener presente che in quell’epoca l’URSS era uno Stato isolato, visto con sospetto dai paesi occidentali ed escluso da ogni tipo di alleanza, per non dire circondato da Stati ostili che erano praticamente satelliti della Francia e dell’Inghilterra (Stati baltici, Polonia, Romania); a questo bisogna poi aggiungere che fino a ben oltre gli inizi degli anni ‘30, l’URSS non faceva parte della Società delle Nazioni né aveva rapporti diplomatici con gli USA. Niekisch riteneva che un'alleanza Russia-Germania fosse necessaria anche per la prima, poiché "la Russia deve temere l'Asia", e solo un blocco dall'Atlantico al Pacifico poteva contenere "la marea gialla", allo stesso modo in cui solo con la collaborazione tedesca la Russia avrebbe potuto sfruttare le immense risorse della Siberia. Abbiamo visto per quali ragioni la Russia appariva a Niekisch come un modello. Ma per la Germania non si trattava di copiare l'idea bolscevica, di accettarla in quanto tale. La Germania - e su questo punto Niekisch condivide l'opinione di tutti i nazionalisti - deve cercare le sue proprie idee e forme, e se la Russia veniva portata ad esempio, la ragione era che aveva organizzato uno Stato seguendo la "legge di Potsdam" che avrebbe dovuto ispirare anche la Germania. Organizzando uno Stato assolutamente antioccidentale, la Germania non avrebbe imitato la Russia, ma avrebbe recuperato la propria specificità, alienata nel corso di tutti quegli anni di sottomissione allo straniero e che si era incarnata nello Stato russo. Per quanto gli accordi con la Polonia e la Francia sondati dalla Russia saranno osservati con inquietudine da Niekisch, che difenderà appassionatamente l'Unione Sovietica contro le minacce di intervento e contro le campagne condotte a sue discapito dalle confessioni religiose. Inoltre, per Niekisch "una partecipazione della Germania alla crociata contro la Russia significherebbe... un suicidio". Questo sarà il rimprovero più importante - e convincente - di Niekisch al nazionalsocialismo, e con ciò giungiamo ad un punto che non cessa di provocare una certa perplessità: l'atteggiamento di Niekisch verso il nazionalsocialismo. Questa perplessità non è solo nostra; durante l'epoca che studiamo, Niekisch era visto dai suoi contemporanei più o meno come un "nazi". Certamente, la rivista paracomunista "Aufbruch" lo accomunava a Hitler nel 1932; più specifica, la rivista sovietica "Moskauer Rundschau" (30 novembre 1930), qualificava il suo "Entscheidung" come "l'opera di un romantico che ha ripreso da Nietzsche la sua scala di valori". Per dei critici moderni come Armin Mohler "molto di quanto Niekisch aveva chiesto per anni sarà realizzato da Hitler", e Faye segnala che la polemica contro i nazionalsocialisti, per il linguaggio che usa "lo colloca nel campo degli stessi". Cosa fu dunque ciò che portò Niekisch ad opporsi al nazionalsocialismo? Da un'ottica retrospettiva, Niekisch considera il NSDAP fino al 1923 come un "movimento nazional-rivoluzionario genuinamente tedesco", ma dalla rifondazione del Partito, nel 1925, pronuncia un'altro giudizio, nello stesso modo in cui modificherà il suo precedente giudizio sul fascismo italiano. Troviamo l'essenziale delle critiche di Niekisch al nazionalsocialismo in un opuscolo del 1932: "Hitler - ein deutsches Verhängnis" (Hitler, una fatalità tedesca) che apparve illustrato con impressionanti disegni di un artista di valore: A. Paul Weber. Dupeux segnala con esattezza che queste critiche non sono fatte dal punto di vista dell'umanitarismo e della democrazia, com'è usuale ai nostri giorni, e Sauermann lo qualifica come un "avversario in fondo essenzialmente rassomigliante". Niekisch considerava "cattolico", "romano" e "fascista" il fatto di dirigersi alle masse e giunse ad esprimere "l'assurdo" (Dupeux) che: "che è nazista, presto sarà cattolico". In questa critica occorre vedere, per cercare di comprenderla, la manifestazione di un atteggiamento molto comune fra tutti gli autori della Rivoluzione conservatrice, che disprezzavano come "demagogia" qualsiasi lavoro fra le masse, ed occorre ricordare, anche, che Niekisch non fu mai un tattico né un "politico pratico". Allo stesso tempo occorre mettere in relazione la sfiducia verso il nazionalsocialismo con le origini austriache e bavaresi dello stesso, poiché abbiamo già visto che Niekisch guardava con diffidenza ai tedeschi del sud e dell'ovest, come influenzati dalla romanizzazione. D'altra parte, Niekisch rimprovera al nazionalsocialismo la sua "democraticità" alla Rousseau e la sua fede nel popolo. Per Niekisch l'essenziale è lo Stato: egli sviluppò sempre un vero "culto dello Stato", perfino nella sua epoca socialdemocratica, per cui risulta per lo meno grottesco qualificarlo come un "sindacalista anarchico" (sic). Niekisch commise gravi errori nella sua valutazione del nazionalsocialismo, come il prendere sul serio il "giuramento di legalità" pronunciato da Hitler nel corso del processo al tenente Scheringer, senza sospettare che si trattava di mera tattica (con parole di Lenin, un rivoluzionario deve saper utilizzare tutte le risorse, legali ed illegali, servirsi di tutti i mezzi secondo la situazione, e questo Hitler lo realizzò alla perfezione), e ritenere che Hitler si trovasse molto lontano dal potere...nel gennaio del 1933. Questi errori possono spiegarsi facilmente, come ha fatto Sauermann, con il fatto che Niekisch giudicava il NSDAP più basandosi sulla propaganda elettorale che sullo studio della vera essenza di questo movimento. Tuttavia, il rimprovero fondamentale concerne la politica estera. Per Niekisch, la disponibilità - espressa nel "Mein Kampf" - di Hitler ad un'intesa con Italia ed Inghilterra e l'ostilità verso la Russia erano gli errori fondamentali del nazionalsocialismo, poiché questo orientamento avrebbe fatto della Germania un "gendarme dell'Occidente". Questa critica è molto più coerente delle anteriori. L'assurda fiducia di Hitler di poter giungere ad un accordo con l'Inghilterra gli avrebbe fatto commettere gravi errori (Dunkerque, per citarne uno); sulla sua alleanza con l'Italia, determinata dal sentimento e non dagli interessi - ciò che è funesto in politica - egli stesso si sarebbe espresso ripetutamente e con amarezza. Per quanto riguarda l'URSS, fra i collaboratori di Hitler Goebbels fu sempre del parere che si dovesse giungere ad un intesa, e perfino ad un'alleanza con essa, e ciò non solo nel periodo della sua collaborazione con gli Strasser, ma sino alla fine del III Reich, come ha dimostrato inequivocabilmente il suo ultimo addetto stampa Wilfred von Owen nel suo diario ("Finale furioso. Con Goebbels sino alla fine"), edito per la prima volta - in tedesco - a Buenos Aires (1950) e proibito in Germania sino al 1974, data in cui fu pubblicato dalla prestigiosa Grabert-Verlag di Tübingen, alla faccia degli antisovietici e filo-occidentali di professione. La denuncia, sostenuta da Niekisch, di qualsiasi crociata contro la Russia, assunse toni profetici quando evocò in un' immagine angosciosa "le ombre del momento in cui le forze...della Germania diretta verso l'Est, sperperate, eccessivamente tese, esploderanno...Resterà un popolo esausto, senza speranza, e l'ordine di Versailles sarà più forte che mai". Indubbiamente Ernst Niekisch esercitò, negli anni dal 1926 al 1933, una influenza reale nella politica tedesca, mediante la diffusione e l'accettazione dei suoi scritti negli ambienti nazional-rivoluzionari che lottavano contro il sistema di Weimar. Questa influenza non deve essere valutata, certamente in termini quantitativi: l'attività di Niekisch non si orientò mai verso la conquista delle masse, né il carattere delle sue idee era il più adeguato a questo fine. Per fornire alcune cifre, diremo che la sua rivista "Widerstand" aveva una tiratura che oscillava fra le 3.000 e le 4.500 copie, fatto che è lungi dall'essere disprezzabile per l'epoca, ed in più trattandosi di una rivista ben presentata e di alto livello intellettuale; i circoli "Resistenza" raggruppavano circa 5.000 simpatizzanti, dei quali circa 500 erano politicamente attivi. Non è molto a paragone dei grandi partiti di massa, ma l'influenza delle idee di Niekisch dev'essere valutata considerando le sue conferenze, il giro delle sue amicizie (di cui abbiamo già parlato), i suoi rapporti con gli ambienti militari, la sua attività editoriale, e soprattutto, la speciale atmosfera della Germania in quegli anni, in cui le idee trasmesse da "Widerstand" trovavano un ambiente molto ricettivo nelle Leghe paramilitari, nel Movimento Giovanile, fra le innumerevoli riviste affini ed anche in grandi raggruppamenti come il NSDAP, lo Stahlhelm, ed un certo settore di militanti del KPD (come si sa, il passaggio di militanti del KPD nel NSDAP, e viceversa, fu un fenomeno molto comune negli ultimi anni della Repubblica di Weimar, anche se gli storici moderni ammettono che vi fu una percentuale maggiore di rivoluzionari che percorsero il primo tipo di tragitto, ancor prima dell'arrivo di Hitler al potere). Queste brevi osservazioni possono a ragione far ritenere che l'influenza di Niekisch fu molto più ampia di quanto potrebbe far pensare il numero dei suoi simpatizzanti. Il 9 marzo del 1933 Niekisch è arrestato da un gruppo di SA ed il suo domicilio perquisito. Viene posto in libertà immediatamente, ma la rivista "Entscheidung", fondata nell'autunno del 1932, viene sospesa. "Widerstand", al contrario, continuerà ad apparire sino al dicembre del 1934, e la casa editrice dallo stesso nome pubblica libri sino al 1936 inoltrato. Dal 1934 Niekisch viaggia per quasi tutti i paesi d'Europa, nei quali sembra abbia avuto contatti con i circoli dell'emigrazione. Nel 1935, nel corso di una visita a Roma, viene ricevuto da Mussolini. Non si può fare a meno di commuoversi nell'immaginare questo incontro, disteso e cordiale, fra due grandi uomini che avevano iniziato la loro carriera politica nelle file del socialismo rivoluzionario. Alla domanda di Mussolini su che cosa aveva contro Hitler, Niekisch rispose:"Faccio mie le vostre parole sui popoli proletari". Mussolini rispose."E' quanto dico sempre a Hitler". (Va ricordato che questi scrisse una lettera a Mussolini - il 6 marzo 1940 - in cui gli spiegava il suo accordo con la Russia, perché "ciò che ha portato il nazionalsocialismo all'ostilità contro il comunismo è solo la posizione - unilaterale - giudaico-internazionale, e non, al contrario, l'ideologia dello Stato stalinista-russo-nazionalista". Durante la guerra, Hitler esprimerà ripetutamente la sua ammirazione per Stalin, in contrasto con l'assoluto disprezzo che provava per Roosevelt e Churchill). Nel marzo del 1937 Niekisch è arrestato con 70 dei suoi militanti (un gran numero di membri dei circoli "Resistenza" aveva cessato la propria attività, significativamente, nel constatare che Hitler stava portando avanti realmente la demolizione del Diktat di Versailles che anch'essi avevano tanto combattuto). Nel gennaio del 1939 è processato davanti al Tribunale Popolare, accusato di alto tradimento ed infrazione sulla legge sulla fondazione di nuovi partiti, e condannato all'ergastolo. Sembra che le accuse che più pesarono contro di lui furono i manoscritti trovati nella sua casa, nei quali criticava Hitler ed altri dirigenti del III Reich. Fu incarcerato nella prigione di Brandenburg sino al 27 aprile del 1945, giorno in cui viene liberato dalle truppe sovietiche, quasi completamente cieco e semiparalitico. Nell'estate del 1945 entra nel KPD che, dopo la fusione nella zona sovietica con l'SPD, nel 1946 si denominerà Partito Socialista Unificato di Germania (SED) e viene eletto al Congresso Popolare come delegato della Lega Culturale. Da questo posto difende una via tedesca al socialismo e si oppone dal 1948 alle tendenze di una divisione permanete della Germania. Nel 1947 viene nominato professore all'Università Humboldt di Berlino, e nel 1949 è direttore dell' "Istituto di Ricerche sull'Imperialismo"; in quell'anno pubblica uno studio sul problema delle élites in Ortega y Gasset. Niekisch non era, ovviamente, un "collaborazionista" servile: dal 1950 si rende conto che i russi non vogliono un "via tedesca" al socialismo, ma solo avere un satellite docile (come gli americani nella Germania federale). Coerentemente con il suo modo di essere, fa apertamente le sue critiche e lentamente cade in disgrazia; nel 1951 il suo corso è sospeso e l'Istituto chiuso. Nel 1952 ha luogo la sua scomunica definitiva, effettuata dall'organo ufficiale del Comitato Centrale del SED a proposito del suo libro del 1952 "Europäische Bilanz". Niekisch è accusato di "...giungere a erronee conclusioni pessimistiche perché, malgrado l'occasionale impiego della terminologia marxista, non impiega il metodo marxista...la sua concezione della storia è essenzialmente idealista...". Il colpo finale è dato dagli avvenimenti del 17 giugno del 1953 a Berlino, che Niekisch considera come una legittima rivolta popolare. La conseguente repressione distrugge le sue ultime speranze nella Germania democratica e lo induce a ritirarsi dalla politica. Da questo momento Niekisch, vecchio e malato, si dedica a scrivere le sue memorie cercando di dare al suo antico atteggiamento di "Resistenza" un significato di opposizione a Hitler, nel tentativo di cancellare le orme della sua opposizione al liberalismo. In ciò fu aiutato dalla ristretta cerchia dei vecchi amici sopravvissuti. Il più influente fra loro fu il suo antico luogotenente, Josef Drexel, vecchio membro del Bund Oberland e divenuto, nel secondo dopoguerra, magnate della stampa in Franconia. Questo tentativo può spiegarsi, oltre che con il già menzionato stato di salute di Niekisch, con la sua richiesta di ottenere dalla Repubblica Federale (viveva a Berlino Ovest) una pensione per i suoi anni di carcere. Questa pensione gli fu sempre negata, attraverso una interminabile serie di processi. I tribunali basarono il rifiuto su due punti: Niekisch aveva fatto parte di una setta nazionalsocialista (sic) ed aveva collaborato in seguito al consolidamento di un'altro totalitarismo: quello della Germania democratica. Cosa bisogna pensare di questi tentativi di rendere innocuo Niekisch si deduce da quanto fin qui esposto. La storiografia più recente li ha smentiti del tutto. Il 23 maggio del 1967, praticamente dimenticato, Niekisch moriva a Berlino. Malgrado sia quasi impossibile trovare le sue opere anteriori al 1933, in parte perché non ripubblicate ed in parte perché scomparse dalle biblioteche, A. Mohler ha segnalato che Niekisch torna farsi virulento, e fotocopie dei suoi scritti circolano di mano in mano fra i giovani tedeschi disillusi dal neo-marxismo (Marcuse, Suola di Frankfurt). La critica storica gli riconosce sempre maggiore importanza. DI quest'uomo, che si oppone a tutti i regimi presenti nella Germania del XX secolo, bisogna dire che mai operò mosso dall'opportunismo. I suoi cambi di orientamento furono sempre il prodotto della sua incessante ricerca di uno Stato che potesse garantire la liberazione della Germania e dello strumento idoneo a raggiungere questo obiettivo. Le sue sofferenze - reali - meritano il rispetto dovuto a quanti mantengono coerentemente le proprie idee. Niekisch avrebbe potuto seguire una carriera burocratica nell'SPD, accettare lo splendido posto offertogli da Gregor Strasser, esiliarsi nel 1933, tacere nella Germania democratica...Ma sempre fu fedele al suo ideale ed operò come credeva di dover fare senza tener conto delle conseguenze personali che avrebbero potuto derivargli. La sua collaborazione con il SED è comprensibile, ed ancor più il modo in cui si concluse. Oggi che l'Europa è sottomessa agli pseudovalori dell'Occidente americanizzato, le sue idee e la sua lotta continuano ad avere un valore esemplare. E' quanto compresero i nazional-rivoluzionari di "Sache del Volches" quando, nel 1976, apposero una targa sulla vecchia casa di Niekisch, con la frase: "O siamo un popolo rivoluzionario o cessiamo definitivamente di essere un popolo libero".

    Josè Cuadrado Costa

 

 

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