La biblioteca di Hitler
Di Giandomenico Bardanzellu
Sedicimila volumi: saccheggi e dispersione – Guerra e cultura – L’ammirazione per Shakespeare – Una trilogia incompiuta – Nel cuore della formazione: Schopenhauer
“Chi dice la verità prima o poi viene scoperto”
Oscar Wilde
Nei primi giorni del gennaio 2009 il mio interesse fu attratto da una recensione comparsa sulla pagina letteraria della International Herald Tribune dal titolo Hitler’s private library – The books that shaped his life di Timothy W. Ryback (La biblioteca privata di Hitler – i libri che formarono la sua vita). Autore della recensione è Jacob Heilbrunn (il nome è al di là di ogni sospetto), uno dei fondatori del movimento neo-conservatore americano, che ha prodotto i vari Bush, Cheney, Rumsfeld ecc… Heilbrunn si affretta a prendere posizione per tamponare una falla che potrebbe portare ad un’alluvione. E’ possibile che egli sapesse dell’esistenza della biblioteca, ma in tal caso si era ben guardato dal parlarne. Ora è troppo tardi: un libro documentato ed obiettivo ne informa il mondo. Scegliere ancora il silenzio o cercare di stroncarlo? La comunità ebraica sceglie stavolta una via di mezzo: parlarne è inevitabile e stroncarlo è impossibile. Ecco Heilbrunn ricorrere all’ironia, alla battuta: “Sebbene Hitler sia più conosciuto per bruciare i libri, possedeva 16.000 volumi”, “Essere un topo da biblioteca non esclude che si possa essere un assassino di popoli” e così via. Ora noi lasceremo il povero Heilbrunn ad arrampicarsi sugli specchi ed esamineremo più da vicino il sorprendente libro di Ryback.
Ryback premette che l’analisi storica degli eventi può aver luogo solamente quando il loro corso è compiuto, e cita Hegel: “La civetta di Minerva spande le sue ali soltanto quando scende il crepuscolo”.
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Il mondo delle scoperte è sempre affascinante, sebbene per certi aspetti, e per certe persone, sia ancora sconvolgente. Esso può abbattere dalle fondamenta idee, teorie, istituzioni intorno alle quali l’umanità si era per secoli modellata. Si pensi alla tormentata elaborazione e alla definitiva conferma della teoria eliocentrica, si pensi alla scoperta dell’America, la cui esistenza anche dopo i viaggi di Colombo veniva tassativamente negata dai teologi della regina Isabella in quanto la Bibbia non faceva menzione dell’esistenza di un simile continente. Forse anche Colombo, fervente cattolico, condizionato da queste censure, rimase convinto fino alla morte, dopo quattro viaggi, di non avere scoperto un nuovo continente, ma di avere raggiunto “el levante para el poniente”, ossia di essere giunto sulle coste orientali dell’Asia.
Il concetto di “scoperta” significa l’acquisizione alla coscienza dell’umanità di terre, di leggi fisiche, di ritrovamenti archeologici, di documenti, che non erano ancora a conoscenza del mondo. In alcuni casi vi furono personaggi, nonché governi, che, pur essendo al corrente delle scoperte, non diffusero le notizie in loro possesso. Ciò avvenne per ignoranza, per opportunismo politico o per paura. Riprendendo l’esempio del Continente americano è oggi noto che i Vichinghi vi sbarcarono casualmente, intorno all’anno 1000, sotto la guida di Leif Eriksson, figlio di quell’Erik il Rosso al quale, secondo le Saghe islandesi, è attribuita la scoperta della Groenlandia. I Vichinghi chiamarono “Vinland” quella terra strana ed inospitale che è l’attuale isola di Terranova in territorio canadese. Gli studi più recenti indicano che il nome Vinland non ha nulla a che fare con il vino, come talvolta si legge, fantasticando che mille anni fa il Canada avrebbe avuto un clima temperato e sarebbe stato ricco di frutta ed in particolare di uva, da cui i Vichinghi avrebbero tratto il vino. La sillaba “vin” nell’antica lingua norvegese significa “pascolo, prateria”. La costa dove i Vichinghi sbarcarono era abitata da eschimesi selvaggi, da loro chiamati Skrelinghi, nonché da alcune tribù indie del Nord-America. Talmente scarse erano le prospettive di sviluppo che, dopo due anni, i Vichinghi l’abbandonarono definitivamente lasciandovi solo primitive tracce di insediamenti, oggi in parte ricostruiti, nella località chiamata “Anse aux Meadows” (Baia delle Praterie). Tale baia è difficilmente accessibile, si trova nell’estremo lembo nordorientale dell’isola di Terranova e fu recentemente visitata da chi scrive. I Vichinghi non sapevano dove erano sbarcati, e dunque non seppero mai tornarvi. Nessuno nel mondo di allora ebbe cognizione di quell’evento. “I Vichinghi conobbero l’America, ma non la scoprirono”, come scrive Paolo Emilio Taviani nella sua monumentale opera Colombo.
Quattro secolo dopo i Cinesi, con tutt’altra preparazione tecnica e culturale, costeggiarono il continente americano da ciò che oggi è l’Alaska fino alla Terra del Fuoco, superarono lo Stretto di Magellano e, attraverso l’Atlantico e l’Oceano Indiano, rientrarono in Cina. Tutto ciò avveniva fra il 1421 ed il 1423 sotto il segno dell’imperatore Ciu Di della dinastia dei Ming. Egli sviluppò le costruzioni navali ad un livello del tutto sconosciuto nel resto del mondo, e riuscì ad allestire una flotta immensa che chiamò “La flotta del tesoro”.
In quattro diverse spedizioni i Cinesi circumnavigarono il pianeta prima di Magellano, percorsero il passaggio di Nord-Est, costeggiarono le Americhe, l’Africa e l’Australia. Gli ammiragli, tutti eunuchi di alto rango, informarono solamente l’Imperatore e i suoi ministri dei loro favolosi viaggi, che furono nel massimo segreto descritti e cartografati. Essi assicurarono all’Imperatore che oramai “tutti gli abitanti del mondo erano diventati suoi sudditi!” Nessuna delle grandi potenze del pianeta ebbe cognizione di questi spettacolari viaggi, in particolare della circumnavigazione della Terra, né l’Impero di Bisanzio, né il Sacro Romano Impero, né il Papato o i Re di Francia, Spagna, d’Inghilterra, né il Doge di Venezia.
Sono stati scritti importanti testi su questo tema, fra cui il libro dello storico inglese, nato in Cina, Gavin Menzies. Egli ha compiuto ricerche in 120 Paesi e il titolo del libro è 1421, the year Cina discovered the world, Bantam Press, Londra (1421, l’anno in cui la Cina scoprì l’America, pubblicato in Italia nel 2002 da Carocci). I motivi principali dei Cinesi per tenere segrete le conoscenze acquisite coi loro viaggi possono essere così riassunti: la sicurezza dell’Impero e, soprattutto, il disprezzo perso i popoli occidentali ritenuti barbari e ignoranti, pertanto indegni di avere accesso a simili importanti informazioni.
Come noto, l’America fu infine scoperta, nel senso storico e scientifico della parola, da tre italiani, seppure per conto di governi stranieri: Colombo, Vespucci e Caboto (il John Cabot degli Inglesi!) che, a mezzo della cartografia e della dettagliata descrizione delle coste esplorate, permisero ai naviganti il ritorno e la successiva colonizzazione di quelle Terre, contribuendo a cambiare irreversibilmente la storia del mondo.
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In conclusione: i Vichinghi non comunicarono la loro “scoperta” per ignoranza. I Cinesi non la comunicarono per disprezzo.
Ma anche nel mondo della ricerca storica sono stati nascosti importanti ritrovamenti, per un motivo ancora meno nobile dei precedenti: per paura.
E’ il caso del 16.300 volumi della biblioteca di Adolf Hitler sottratti dai Russi e dagli Americani nel 1945 nei luoghi dove il proprietario li custodiva: nella Cancelleria, nel Bunker di Berlino, nella residenza dell’Obersalzberg e nel primo appartamento occupato dal Fuhrer a Monaco, in Tierschstrasse 41. I volumi rapinati furono tenuti rigorosamente nascosti per evitare di urtare la suscettibilità di certi ambienti interessati a conservare l’esclusiva sui giudizi da loro stessi forniti sul Nazionalsocialismo e sul suo Capo.
La biblioteca viene fatta conoscere soltanto ora, 63 anni dopo, grazie alla coraggiosa e laboriosa ricerca di un giovane storico, Timothy W. Ryback. Dell’esistenza di questa massa di libri di innegabile valenza storica erano fino ad oggi al corrente pochissimi “addetti ai lavori” che ben si guardarono dal comunicarne l’esistenza, ossia l’FBI, il quale a suo tempo fu incaricato della presa in consegna e del trasferimento dei volumi in America, e gli archivisti incaricati di conservarli in oscuri locali, inaccessibili al pubblico.
Ryback, che è ben lungi dall’essere un nazista, si è concentrato solo sui libri di sicura appartenenza al Fuhrer da lui certamente letti ed annotati, perché sono quelli che permettono di gettare uno sguardo furtivo sulla sua intima personalità. Solo nel 2008 Ryback riesce a pubblicare il libro Hitler’s private library – The books that shape his life, Alfred A. Knopf, New York, 2008, oggi disponibile anche nella traduzione italiana La biblioteca di Hitler – Che cosa leggeva il Fuhrer, Mondadori. Si noti che la corretta traduzione in italiano del sottotitolo originale inglese “the books that shaped his life” è “i libri che formarono la sua vita” e non già il più banale “che cosa leggeva il Fuhrer”. Si ritiene che l’eccellente traduttrice lo abbia ben saputo, ma evidentemente ha prevalso la circospetta politica dell’editore.
I libri del Fuhrer furono tenuti preclusi al pubblico a causa del devastante impatto che essi avrebbero avuto sulla falsa immagine di Adolf Hitler che la letteratura e la stampa politicamente corretta avevano per più di mezzo secolo gabellato al mondo. Sarebbe risultato che Hitler non ebbe soltanto eccezionali capacità politiche, ma fu anche dotato di singolare sensibilità nel campo delle arti figurative, architettoniche e musicali (per citare caratteristiche che nessuno ha mai potuto constatare), e fu anche una personalità ricca di cultura storica, letteraria e filosofica, oltre che militare, alla quale, grazie ad una prodigiosa memoria, poté attingere in ogni istante della sua vita.
Tutto ciò doveva rimanere rigorosamente nascosto! Come spiegare che “l’imbianchino”, “il caporale austriaco”, “l’artista fallito”, “il prete mancato” e soprattutto “il Prolet” (che in tedesco significa “proletario”, ma che è anche il velenoso insulto riservato al Fuhrer da certi strati dell’aristocrazia tedesca), avesse anche raccolto e classificato personalmente 16.300 volumi, di cui la massima parte reca inequivocabili tracce di lettura, come testimoniano sottolineature, commenti e annotazioni manoscritte?
Mentre nel caso di altri grandi uomini della Storia le umili origini vengono universalmente riconosciute come un merito e ciò a causa delle difficoltà che hanno aggiunto alla loro vita sociale e culturale, nel caso di Hitler le umili origini vengono considerate un’ulteriore vergogna! La massima parte dei suoi biografi si sofferma con supponenza delle modeste condizioni della sua famiglia, addirittura esagerando la miseria materiale e morale in cui il piccolo Adolf sarebbe nato e cresciuto. Essi vogliono vedere un’ulteriore prova per la sua demonizzazione: è chiaro, lasciano intendere con spocchia, che “da parte di chi nasce e cresce in un certo ambiente non c’è da aspettarsi niente di buono!”. Nella delirante ricerca per individuare anche nell’infanzia di Hitler le radici della sua “politica criminale” nessun biografo è però riuscito a battere lo scrittore ebreo Norman Mailer che nel suo ultimo (per fortuna) libro The castle in the forest, Little Brown, 2007, ha superato ogni limite di volgarità e di malafede. L’autore presenta il libro come una biografia dei primi 15 anni di vita di Hitler. Da una piccolissima nota prima del titolo si apprende che il libro è “opera di finzione, strettamente basata su dati storici”!. Con questa premessa ogni infamia diviene lecita, l’importante è che sembri vera! Mailer immagina che i primi 15 anni della vita di Hitler gli vengano narrati dal diavolo incaricato da Satana di instillare nel giovane Adi tutti i germi del male. Il libro fu criticamente recensito in Svizzera con un articolo Des Teufels Antwort (La risposta del diavolo) comparso sulla Neue Zurcher Zeitung del 23 settembre 2007.
L’”idillio” fra Norman Mailer e Hitler comincia ancora prima della nascita del pargoletto. Mailer sostiene che la madre di Hitler, Klara Polzl, non fosse la moglie del padre di Hitler, Alois, bensì…sua figlia! Dall’accoppiamento incestuoso fra padre e figlia nei fienili di un misero e sperduto villaggio austriaco, sarebbe nato il “mostro”!. La sua infanzia e l’adolescenza vengono descritte come una ininterrotta serie di complicate masturbazioni, di accoppiamenti omosessuali e di atteggiamenti paranoidi. Il giovinetto cresce in un mondo di totale abiezione economica, culturale e morale. “Insomma”, fa capire il Mailer: “dall’alba si vede il giorno”. D’altronde, ci racconta il Mailer, già in famiglia vi erano esempi di perversioni di ogni tipo: un nonno di Hitler si sarebbe accoppiato con una puledra. Da buon cattolico il vecchio andò poi a confessarsi dal parroco, il quale però non se la prese più di tanto. Si fosse trattato di un adulterio o comunque di una relazione illecita con una donna, gli disse il parroco, si sarebbe trattato di un peccato gravissimo. Ma da una cavalla, si sa, non avrebbe potuto nascere un essere umano! Così il nonno se la cavò con qualche Ave Maria.
Mailer, nato nel 1923 a Long Beach, era forse l’esponente più sordido dell’intellettualismo ebraico americano, corrotto, carico di denaro e di odio, esaltato da premi letterari pilotati politicamente, come il premio Pulitzer, alcolizzato, definito “Maiale dell’anno” da un’Associazione Americana per l’Emancipazione. Sposato sei volte, produce alla fine dei suoi giorni uno dei più ripugnanti testi pseudo-storici che siano mai stati scritti. E’ un vero peccato che sia morto poco dopo averlo pubblicato, perché forse il colpo di grazia glielo avrebbero dato la scoperta da parte di Ryback della biblioteca del suo “beniamino”, Adolf Hitler.
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Ryback osserva che il critico tedesco del XIX secolo, Walter Benjamin, appassionato bibliografo, sosteneva che si può giudicare un libro dalla sua copertina ed un bibliografo dalla sua collezione. Benjamin sosteneva inoltre che “non sono i libri che vivono nel bibliografo bensì è lui che vive in loro. Un collezionista può essere compreso soltanto dopo la sua morte”. Dal 1945 per più di mezzo secolo, gran parte dei libri di Hitler rimase nell’oscurità climatizzata della Rare Books Division della biblioteca del Congresso, edificio Thomas Jefferson, dirimpetto alla US Supreme Court. Questi libri, una volta appassionatamente conservati, spostati, combinati per argomento da Hitler stesso, sono ora accumulati senza alcun criterio. Accanto alle edizioni originali di Clausewitz si trova, ad esempio, un libro di cucina francese dedicato “à monsieur Hitler, végétarien”. Vi si trovano le prime edizioni del Mein Kampf, un’analisi del Parsifal, una monografia di Nostradamus, le Deutsche Schriften (Scritti tedeschi) di Paul Lagarde (1934) dove sono sottolineati concetti come il “il trasferimento di tutti gli ebrei d’Austria e di Germania in Palestina” e “gli ebrei sono come un’acquatica pestilenza che deve essere sradicata dai nostri fiumi e dai nostri laghi”. Paul Anton Lagarde era un orientalista, nato a Berlino il 2 novembre 1827 e morto a Gottinga il 22 dicembre 1891 dove era professore dal 1869. Insegnava glottologia semitica, copto, persiano, armeno. Tradusse e pubblicò in tedesco tutte le opere di Giordano Bruno. Nel 1903 furono pubblicati postumi gli Scritti Tedeschi sui rapporti fra Stato e Chiesa.
Tra i volumi di Hitler prelevati a Berchtesgaden figurano le opere complete di Shakspeare, in nove volumi rilegati in cuoio, con incise le sue iniziali in oro. Egli riteneva che Shakespeare fosse superiore, sotto ogni aspetto, a Goethe e Schiller, perché mentre Sakhespeare ha esplorato con la sua immaginazione le forze primordiali che avrebbero condotto all’edificazione dell’Impero Britannico, i due autori tedeschi si sono concentrati sulla crisi della vita e sulle rivalità fra fratelli. “Come si spiega” si chiede Hitler “che l’Illuminismo tedesco (lessing) abbia prodotto un “Nathan il Saggio”, la storia di un rabbino che riconcilia cristiani, mussulmani ed ebrei, mentre fu Sakhespeare a dare al mondo “Il mercante di Venezia” e “Shylock”?”. Tra i libri del Fuhrer, scrive ancora Ryback, fu ritrovata la traduzione in tedesco del testo di Henry Ford L’ebreo internazionale – il principale problema del mondo, ma sul suo comodino Hitler teneva anche testi più leggeri come un’edizione dei divertenti e dispettosi personaggi di Wilhelm Busch Max und Moritz (simili ai nostri Bibì e Bibò).
Lo storico inglese Jan Kershaw definisce Hitler come “una delle personalità più impenetrabili della Storia moderna” e scrive che “le fonti per ricostruire la vita privata e personale del dittatore tedesco sono straordinariamente scarse in paragone, ad esempio, alle fonti relative a Churchill e Stalin”.
Non siamo per nulla d’accordo con questo parere. La presunta assenza di fonti sulla vita privata e personale del Fuhrer ha fatto comodo per decenni ai suoi detrattori lasciandoli liberi di diffamarlo come meglio credevano opportuno.
In aggiunta al ben noto libro di Kubizek Er war mein Jugendfreund (Era il mio amico di gioventù) mai tradotto in italiano ma fatto conoscere da l’Uomo libero n. 53, la fantasia di chi si lamenta della scarso materiale sulla vita di Hitler deve fare i conti con altri tre pilastri documentali:
1) Hitler’s Tischgesprache (Conversazioni intorno ad un tavolo) raccolte nel 1941 e 1942 da Henry D. Picker, avvocato e giurista, incaricato da Hitler di trascrivere tutte le conversazioni che il Fuhrer conduceva con i suoi invitati sui più disparati argomenti, dalla storia alla pittura, dalla società alla politica e così via. Il libro fu proibito per lungo tempo in Germania.
2) I velbali di Hitler – Rapporti stenografici di guerra 1942-1945, a cura di Helmut Heiber, resoconti delle sedute con i suoi generali sulla situazione militare, da cui risulta con quanta attenzione egli ascoltasse tutte le opinioni, anche quelle diverse dalle proprie, e dove con calma e serenità esprimesse le proprie posizioni, lungi dal comportarsi in modo isterico e villano, come la letteratura fasulla e i film di Hollywood da decenni ce lo presentano. Il primo volume dei Verbali è comparso in italiano solo nel 2009. I testi sopravvissuti all’arbitraria distruzione rappresentano un centesimo del totale.
3) Il libro sulla sua biblioteca, di cui ci stiamo occupando.
La biblioteca di Hitler costituisce innegabilmente una valida fonte di informazione sulle sue più personali opinioni, che ci vengono consegnate attraverso i titoli, le sottolineature, i commenti attraverso punti esclamativi o interrogativi su certe frasi, le dediche dei donatori, i segni dell’uso ripetuto di un dato libro attraverso le orecchie alle pagine, gli appunti, le macchie, nonché attraverso tutti i segni che ad un bibliografo esperto permettono di individuare il carattere del collezionista, così come l’esperto fisiognomico può risalire all’essenza del carattere di una persona attraverso i tratti del volto.
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( continua )
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