di Leo Valiani - «Introduzione» a Ugo La Malfa, “Scritti 1925-1953”, Mondadori, Milano 1988, pp. XI-XLVI.
Nell’avvento della repubblica italiana, al posto della monarchia, profondamente compromessasi con la ventennale dittatura del fascismo e con le sue sciagure e guerre, Ugo La Malfa ebbe parte eminente. L’ebbe egualmente nella difesa, nel consolidamento e nei progressi della democrazia, lungo i decenni successivi e, in particolare, nella rapida ricostruzione e nella rigogliosa espansione dell’economia italiana. Vide, altresì, lucidamente, i motivi di fondo della sua fragilità ed ai primi sintomi della crisi, sopraggiunta anche per cause internazionali, rammentò che la crisi stessa in Italia – dato il carattere dualistico dell’economia italiana – era strutturale e non soltanto congiunturale e non poteva essere risolta senza sacrifici da parte di tutti. Fu chiamato Cassandra, ma le sue previsioni sono state confermate dallo svolgimento effettivo. Indicò, tempestivamente, venti e dieci anni fa, i rimedi che solo oggi si cominciano ad applicare, e solo in parte, ma speriamo con successo, nonostante il grave ritardo, dovuto a quanti non avevano voluto ascoltarlo.
Non è dunque soltanto per rendere omaggio all’indimenticabile personaggio al quale s’intitola, che l’Istituto Ugo La Malfa inizia con questo primo volume la pubblicazione dei suoi scritti. Il lettore s’avvedrà come essi siano di eccezionale interesse per l’esatta conoscenza d’un lungo periodo storico e di viva attualità per la chiarificazione degli stessi problemi in corso e per gli orientamenti che dovrebbero scaturirne. Dai suoi scritti, così come da tutta la sua vita ardentemente vissuta, Ugo La Malfa emerge come un grande combattente per la libertà, come un politico di alta statura, come un autentico statista e come una personalità di profonda e moderna cultura, di straordinario fascino e di raro, severo rigore morale.
Ugo La Malfa nacque a Palermo nel 1903, in una famiglia di gente che non conosceva gli agi e poteva contare solo sull’onestà e sulla volontà di lavorare che le erano congeniali. Suo padre era un modesto servitore dello Stato. A stento, con l’aiuto di parenti, e con la ferrea volontà di studiare che aveva, il giovane La Malfa poté accedere all’università e laurearsi nel prestigioso ateneo veneziano di Ca’ Foscari. Al momento della Marcia su Roma era già, per intuito infallibile e per inclinazione intellettuale, risolutamente antifascista, oppositore, malgrado i rischi fisici che ciò comportava, dello squadrismo imperversante. Fra i professori che ebbero maggiore influenza su di lui, Silvio Trentin, studioso di filosofia del diritto e dei problemi dello Stato, e Gino Luzzatto, uno dei decani della storiografia economica italiana, erano antifascisti. Luzzatto, socialista salveminiano, indirizzò gli interessi di La Malfa verso le concrete questioni di politica economica e anche verso il meridionalismo che già portava nel cuore. Trentin, ex deputato repubblicano, lo portò nella politica attiva, nell’Unione democratica nazionale di Giovanni Amendola, nella quale egli stesso militava.
Il debutto politico di La Malfa data dal congresso che l’Unione nazionale tenne nel 1925. La battaglia per costringere Mussolini, direttamente o indirettamente corresponsabile dell’assassinio del segretario generale del Partito socialista unitario, il deputato Giacomo Matteotti, e di innumerevoli altre aggressioni squadristiche (che costeranno poi la vita anche ad Amendola), a dimettersi da capo del governo, era già stata perduta. Alla sconfitta della democrazia avevano concorso gli errori delle opposizioni medesime, la fiducia che il re continuava a riporre in Mussolini, anche dopo le documentate rivelazioni sulle sue colpe, la decisione del fascismo di difendersi con la violenza, facendo ricorso alla propria milizia armata e la paura, nutrita da larghi strati di borghesia, alta, media e minuta, che la vittoria dell’antifascismo potesse significare il ritorno alle minacce rivoluzionarie «rosse» del 1919-20. Di quell’esperienza, sulla quale meditò a lungo, La Malfa tenne conto in tutta la sua lunga attività politica. Nel 1925 si professava tuttavia ottimista, seppure a non breve scadenza. Amendola aveva ragione nell’aver aperto, nei confronti del fascismo che si faceva dittatoriale, una «questione morale». La libertà poteva essere conculcata, ma non per l’eternità: sarebbe risorta, purché avesse trovato sostenitori tenaci ed intransigenti. L’entusiasmo, l’intelligenza ed il desiderio di lotta del ventiduenne La Malfa impressionarono molto favorevolmente Amendola, che lo incluse nella ristretta direzione nazionale (di sole 5 persone) del suo movimento.
«Giovanni Amendola – ha scritto La Malfa in un conciso “ricordo” del novembre 1945 – fu in certo senso l’ultimo dei grandi uomini di Stato dell’Ottocento italiano. Egli discende direttamente da quella razza di uomini che… diede una particolare impronta al Risorgimento italiano… Ma… fu anche un anticipatore. La sua conoscenza dello Stato democratico moderno, questo suo vedere le grandi masse umane entrare in un quadro strutturale statale diverso dal tradizionale lo proiettano nel futuro… La lotta di Giovanni Amendola ebbe carattere tragico… Giovanni Amendola fallì. Ma appunto perché fallì, appunto perché non poté contrapporre che una enorme forza morale ad avvenimenti terribili, noi non dobbiamo fallire. La lotta è sempre quella… Lo Stato della democrazia che Amendola, uomo di Stato dell’Ottocento, sognò per il ventesimo secolo è ancora da creare. Se tenacia, passione morale contenuta e nascosta (dopo di lui è impossibile dare personificazione a una passione morale), se abilità politiche e accorgimenti, se intuiti rapidi e immediati sono necessari bisogna usarne.»[1]
Rievocando così la grande figura di Giovanni Amendola, La Malfa caratterizzava anche se stesso. Amendola era stato sconfitto, quasi fatalmente, ma non era fatale che i suoi continuatori lo fossero, in tempi più propizi alla battaglia democratica. Per affrettarne la venuta, dopo la soppressione dei partiti diversi da quello fascista e d’ogni residua stampa libera, nel novembre 1926, non si poteva fare molto. Si poteva e si doveva opporre la propaganda in esilio o la cospirazione in patria alla dittatura totalitaria, ma sarebbe stata una lotta a lungo impari. Si poteva studiare, meditare, prepararsi per un domani vicino o lontano, come Benedetto Croce esortava a fare. La Malfa studiava, ma partecipò anche alla cospirazione, sin dal suo arresto (per fortuna di breve durata) del 1928, tendendosi vicino a «Giustizia e Libertà». Egli stesso ha narrato come fosse importante per lui la riflessione sulle lettere che Riccardo Bauer inviava, dai penitenziari, alla famiglia, che le faceva leggere a qualche amico fidato. La terribile delusione che il re, rifiutando di difendere lo Stato liberale al quale sarebbe dovuto restare fedele, ed avallando l’azione liberticida del fascismo, aveva inflitto ad Amendola, monarchico da sempre, e la presa di conoscenza della pregiudiziale repubblicana di «Giustizia e Libertà» fecero di La Malfa un repubblicano convinto ed intransigente. Negli anni Trenta non militò, tuttavia, in «Giustizia e Libertà», non tanto per l’adozione, da parte di questa, all’estero, di un programma più marcatamente socialista di quelle che erano state le idee iniziali dei suoi fondatori (di quest’evoluzione, confessò poi nel 1943, sapeva poco) quanto perché non credeva che si potesse tentare, prima di una sconvolgente crisi internazionale, l’insurrezione in Italia, che i capi giellisti propagandavano invece, con la loro stampa clandestina e anche con fatti tanto audaci, quanto disperati, prima che ne fossero maturate le condizioni.
L’originalità di La Malfa consisteva nell’attenzione che dedicava alla realtà italiana, non meno che alle prospettive internazionali. Quelle gli ispiravano cautela. In questa, accanto a ragioni di pessimismo, scorgeva anche ragioni di speranze. Nel suo articolo, significativamente intitolato «Internazionalismo borghese», che pubblicò il 29 giugno 1926, dunque dopo la morte di Amendola, nel quotidiano «Il Mondo» da questi fondato, La Malfa negava che la sconfitta della democrazia liberale in Italia fosse, come molti affermavano o temevano, il preludio del suo tramonto in tutta l’Europa.[2] Ammetteva che l’Europa era preda di nazionalismi e, di fronte all’avanzata degli Stati Uniti e del Giappone, dava prova di arretramenti politici ed economici, dovuti agli errori dei suoi ceti dirigenti, dalla guerra e dal trattato di pace di Versailles in avanti. «I ceti borghesi agricoli e industriali meno intelligenti… sperano, attraverso la politica nazionalistica, di comprimere le masse e di allettarle con la speranza di possibilità espansionistiche… Ma quali sono mai le colonie in cui è possibile esercitare una servitù politica o un intenso sfruttamento economico? I popolo coloniali si svegliano contro gli antichi padroni… Sui campi di battaglia di Europa non si potrebbero decidere le sorti di una nazione se non a prezzo di una crisi sempre più grave d’impoverimento e di decadenza». Le dittature, il dumping, il protezionismo, «la riduzione dei salari e la limitazione dei consumi non costituiscono soluzione della crisi, ma aggravamento di essa». Esistono invece alcune «correnti della borghesia industriale che comprendono come la funzione delle classi capitalistiche presupponga un regime di libertà… L’industria europea necessita di una sistemazione europea nell’ambito degli Stati Uniti d’Europa, e tutto ciò non può essere che opera della borghesia… I partiti socialdemocratici, d’altra parte, indicano alla borghesia la nuova via da battere; la loro adesione alla Società delle Nazioni ha un indubbio significato. In questo senso la democrazia non è morta, come non è morto il socialismo».
(...)
[1] «Ricordo», in «Il Mondo» 22 novembre 1945. Cfr. in questo volume a p. 328.
[2] «Internazionalismo borghese», in «Il Mondo», 29 giugno 1926. Cfr. in questo volume a p. 9.