Il ritorno in Sicilia (1977)
di Emanuele Macaluso - «Rinascita», a. XXXIV, n. 16, 22 aprile 1977, pp. 4-5.
La morte di Girolamo Li Causi
Il 10 agosto 1944 Girolamo Li Causi arriva in Sicilia. L’isola è stata liberata da un anno, nel corso del quale l’amministrazione alleata ha esercitato i suoi poteri direttamente (Amgot) e attraverso un alto commissario civile insediato a Palermo. I sindaci sono di loro nomina, il personale politico accetta i loro progetti. Quali sono questi progetti? Qual è il destino della Sicilia? Non tutti gli alleati sono concordi, ma è certo che gli anglo-americani vogliono creare nell’isola le condizioni politiche che possano contrapporla al Nord presumibilmente «rosso». I comunisti sono esclusi dalla vita politica e perseguitati, alcuni dirigenti sono incarcerati e inviati nei campi di concentramento, in Africa settentrionale. Umberto Fiore, che riorganizza il movimento sindacale, deve rifugiarsi in Calabria. Cesare Sessa (aveva fatto parte, nel 1921, del primo Cc del partito), che è alla testa della Camera del lavoro di Palermo, è arrestato e rinchiuso all’Ucciardone. Il movimento separatista è apertamente appoggiato dagli alleati. Attorno a questo movimento sono raccolti il nucleo più combattivo e reazionario degli agrari, una parte del vecchio personale politico liberaldemocratico (Finocchiaro Aprile era stato con Nitti), strati di piccola e media borghesia e del popolo minuto e disgregato dei quartieri popolari.
La situazione economica è disastrosa: le città bombardate (Messina rasa al suolo), le miniere di zolfo allagate, le poche industrie ferme, i trasporti paralizzati. Il grano, l’olio, il bestiame sono i beni che hanno un valore nuovo e chi li detiene è ricco e potente. Gli agrari e i gabelloti mafiosi hanno quindi un enorme potere economico e politico e riaffermano la loro volontà di riorganizzare e ribadire il loro dominio. Il mercato nero agevola anche i piccoli proprietari contadini, per quel poco che possono commerciare, e si accentua la divisione fra questi e gli strati medi e poveri della città, affamati. Nei borghi rurali i contadini assaltano i municipi e le case baronali. Manca una direzione politica forte, autorevole e unitaria. Si va quindi determinando una disgregazione economico-sociale e una «rottura» politica col Nord dove si viene costruendo l’unità delle forze democratiche e nazionali che chiamano il popolo alla lotta contro il nazifascismo.
I comunisti in Sicilia aprono, con difficoltà, le sezioni e aggregano gruppi dirigenti, formati da vecchi compagni che non avevano seguito le evoluzioni del partito, dai pochi compagni che avevano svolto attività nel periodo clandestino, e da giovani che aderiscono al partito della rivoluzione. La loro politica di unità a sinistra si esprime con la costituzione del «Fronte del lavoro» a cui aderiscono comunisti e socialisti. Nell’aprile del 1944 si svolge, a Messina, il primo convegno dei comunisti siciliani, con la partecipazione di Spano e Gullo che rappresentano la Direzione. Qui si tenta una prima analisi della situazione regionale e si ricerca una piattaforma comune. Il risultato non fu positivo, almeno ai fini di una definizione di una linea politica regionale capace di trovare un collegamento con le masse, sul terreno delle rivendicazioni immediate, dell’avvio della riforma agraria, dell’autonomia e dell’unità democratica, e di saldare politicamente la Sicilia con le forze che lottavano per liberare il paese dal nazifascismo.
La svolta di Salerno non incide in Sicilia. Anzi, si accentua la campagna separatista contro l’arruolamento nell’esercito di liberazione, che trova una eco nelle masse disorientate e sbandate dei giovani. Togliatti intuisce che la Sicilia è un punto nevralgico nella complessa e drammatica situazione italiana, e interviene politicamente indicando con grande lucidità quali sono i nodi che bisogna cominciare a sciogliere per affrontare la situazione siciliana: la riforma agraria e l’autonomia politica. Ma Togliatti non si ferma a queste indicazioni, esposte in una risoluzione della Direzione; ma pone il problema del partito, del suo orientamento e della sua direzione. Da qui la decisione di «richiamare» Li Causi, uno del carcere, che si era affermato come dirigente del partito e di massa nell’organizzazione degli scioperi del ’43 e come dirigente della guerra di liberazione nei Cln.
Li Causi è siciliano e in Sicilia ha maturato la sua ribellione all’ordine costituito. Politicamente, però, è cresciuto al Nord, a Venezia, dove ha studiato e diretto la Camera del lavoro. La sua formazione prosegue, poi, nel fuoco delle lotte politiche degli anni venti: dalla scissione di Livorno all’avvento del fascismo, dall’unificazione tra i comunisti e la frazione terzinternazionalista (della quale, con Serrati, fa parte) alla fondazione dell’Unità (di cui fu redattore, dopo avere lavorato all’Avanti! e a Pagine rosse), dalla repressione fascista al congresso di Lione e alla riorganizzazione del Centro interno del partito, nei primi tempi dell’illegalità, sino alla lunga carcerazione vissuta con grande forza, fierezza e coraggio.
Li Causi è, nel 1943, uno dei compagni del gruppo dirigente del carcere e membro della Direzione. Ma manca dalla Sicilia da trent’anni. Siciliani ne ha incontrati nelle traduzioni da un penitenziario all’altro e in carcere: poliziotti, secondini, detenuti comuni e anche qualche detenuto politico come Fanalis di Caltagirone. Il 10 agosto del 1944 rimette piede in una Sicilia che egli ha vivissima nella sua straordinaria memoria, ma che trova densa di problemi vecchi e nuovi, al centro di aspre lotte e di intrighi internazionali. Il suo primo rapporto con la sua terra è estremamente significativo. Nelle stesse ore in cui Li Causi sbarca nell’isola, i contadini di Mazzarino attaccano e incendiamo tutti i centri del potere della famiglia dei feudatari Bartoli: il comune, l’esattoria, l’amministrazione del barone, la casa baronale. Li Causi non ha neppure il tempo di abbracciare la madre. Va a Mazzarino, nel cuore della Sicilia feudale. Qui parla per la prima volta ai contadini insorti. E parla come se fosse cresciuto e vissuto sempre con loro, parla come uno di loro spiegando i meccanismi di sfruttamento «locale» e la loro complementarietà con quelli nazionali; parla della classe operaia che lotta con le armi contro il nazismo e delle necessità di un’alleanza che deve esprimersi, in Sicilia, con un profondo rinnovamento delle strutture economiche e politiche.
È il discorso che, appena un mese dopo, proseguirà a Villalba, dove egli corre a sfidare «don Calò» Vizzini e indica nel gabelloto mafioso la cerniera del sistema che per prima deve essere fatta saltare. Ma questa lotta – e in questa lotta, l’unità reale tra classe operaia e contadina – sarà possibile soltanto se ci sarà anche in Sicilia l’organizzazione, l’unità popolare, la lotta disciplinata e consapevole. Quindi: la lega, la cooperativa, il partito.
Ebbe così inizio l’opera di Li Causi dirigente politico. Egli divenne, subito dopo Villalba, il capo delle grandi masse contadine, una guida, un compagno, un esempio, un simbolo della Sicilia nuova. Un simbolo di quella Sicilia senza nome e senza voce che le classi dirigenti avevano tenuto sepolta con l’oppressione, l’omertà, l’ipocrisia, la violenza praticata con brutalità e raffinatezza: col volto dello Stato e con quello della mafia, col fucile del campiere e con quello del carabiniere, col codice del giudice e la toga dell’avvocato. Li Causi diede voce, nome e volto a questa Sicilia, contribuendo in maniera decisiva a costruire il partito comunista, lavorando con tenacia per l’unità delle forze democratiche e autonomistiche, animando le lotte dei contadini e del popolo con la sua attività di dirigente di partito e di massa, di giornalista e di parlamentare eminente.
È questo il primo fecondo periodo della lunga stagione politica siciliana di Li Causi. Anzitutto l’organizzazione del partito. Questa comincia con l’aiuto preziosissimo di Edoardo D’Onofrio, che viene in Sicilia per alcuni mesi, di Marino Mazzetti, un operaio bolognese garibaldino di Spagna, di altri compagni. Li Causi fonda e dirige un quotidiano, La Voce della Sicilia, che diventa uno strumento essenziale di collegamento e orientamento. Si aggrega un gruppo dirigente regionale. L’opera di orientamento per far prevalere la politica di unità delle forze autonomistiche e democratiche è tenacissima. Li Causi tesse una fitta trama di rapporti politici con i dirigenti dei partiti democratici e delle forze della borghesia produttiva, prima nei comitati di liberazione e poi alla Consulta regionale che doveva elaborare lo statuto di autonomia.
I risultati elettorali del 1946 sono deludenti. Il Pci raccoglie meno del 9% dei voti, tutti concentrati nei vecchi centri «rossi» e nelle campagne. Le grandi città votano per la monarchia e per i partiti conservatori. Ma il seme, tuttavia, comincia a germogliare. Dopo il 1946, Li Causi stimola la ripresa delle lotte agrarie; alla Consulta regionale diventa un protagonista della battaglia autonomista. La sua intelligenza vivissima, la sua vasta cultura, la sua straordinaria esperienza, il suo rigore morale gli consentono di esercitare una reale opera di direzione nell’ambito delle forze democratiche e autonomiste.
Egli intuisce il ruolo nuovo che comincia ad esercitare la Democrazia cristiana, col suo retroterra sturziano e cattolico, e, nonostante le esitazioni del Psi nei confronti di un ordinamento regionale dotato di ampi poteri, trova modo di fare prevalere una posizione che consente una conclusione positiva e unitaria della Consulta con l’approvazione dello Statuto. È questo il periodo in cui la spinta contadina si salda con i nuclei operai e con strati di piccola e media borghesia che si riconoscono nella piattaforma autonomista del nostro partito. Matura così il risultato positivo conseguito dal Blocco del popolo nelle elezioni per la prima Assemblea regionale (aprile 1947) e la crisi del movimento separatista con la scissione dell’ala più progressista guidata da Antonino Varvaro.
Il secondo momento cruciale in cui emerge la figura di Li Causi è quello che si apre con la strage di Portella della Ginestra e la rottura dell’unità democratica e antifascista, in Sicilia e sul piano nazionale. La prima Assemblea regionale venne aperta sotto il segno di questa rottura e fu macchiata dal sangue contadino di Portella. La crisi che si aprì allora, e che ha conosciuto momenti drammatici, ancora oggi non può dirsi chiusa. Le grandi lotte dei contadini, dei minatori, degli operai delle fabbriche, dei popolani dei quartieri disgregati avevano aperto una breccia nel vecchio mondo siciliano e avevano fatto fare le ossa al partito comunista. Li Causi intuisce il significato che ha l’uso del banditismo politico da parte della mafia e dello Stato. Le elezioni del 1948 avevano cementato la Dc con il vecchio blocco agrario, la mafia, l’apparato dello Stato. Si dà avvio ad un’azione terroristica che ha come obiettivo lo scompaginamento del tessuto organizzativo faticosamente costruito dai sindacati, dal Pci, dal Psi. Il banditismo viene usato dalla mafia e questa viene usata dall’apparato statale. Perciò Li Causi pone con forza il problema dello Stato e del suo apparato repressivo in Sicilia. Rileggendo i discorsi e gli scritti di questi anni si ritrovano fatti e analisi che ci fanno vedere quali sono alcune delle radici della strategia del terrorismo e della tensione. Quando oggi sentiamo che capi della polizia, del Sid, dei carabinieri, della magistratura e uomini di governo hanno tramato e hanno utilizzato terroristi fascisti e provocatori per colpire il movimento operaio e la democrazia, il nostro pensiero corre a quegli anni, alle memorabili battaglie politiche e parlamentari di Li Causi.
Alla fine degli anni quaranta e negli anni cinquanta, e ancora dopo, l’apparato dello Stato fu costruito selezionando un personale pronto a tutte le scelleratezze e al servizio non dello Stato ma del potere della Dc. Le vicende della strage di Portella e dell’uso del bandito Giuliano sono, da questo punto di vista, esemplari. Nel 1947 Li Causi pone per primo con drammaticità e lucidità questo problema e apre una battaglia che continuerà sino agli ultimi giorni della sua vita. Nel luglio di quell’anno, Li Causi presenta alla Costituente un’interpellanza in cui mette in luce sia la riorganizzazione del banditismo politico in Sicilia, sia il fatto che a capo di questo c’è l’ispettore di pubblica sicurezza Messana. Nel corso dello svolgimento dell’interpellanza, Li Causi afferma che «si ha la precisa sensazione che il banditismo politico è diretto proprio dall’ispettore Messana». Questa «sensazione» sarà in seguito – in un dibattito al Senato svoltosi il 23 giugno 1949 – documentata in maniera inoppugnabile. Li Causi presenta le prove che l’ispettore Messana sapeva che la banda Giuliano aveva avuto il mandato di operare a Portella della Ginestra. Intanto continuano a cadere dirigenti sindacali e carabinieri, fra i quali il colonnello Geronazzo.
Nel 1951 al Senato Li Causi dice: «Il popolo siciliano è stato accusato dal ministro Scelba di omertà. Ma voi, come potete immaginare che a Monreale – dove si sapeva che la famiglia del mafioso Miceli ospitava Giuliano con l’accordo dell’ispettore Verdiani – ci possa essere chi vada a denunciare Miceli? Polizia, banditi, mafia erano insieme, mangiavano insieme e voi accusate il popolo siciliano di omertà mentre il funzionario dello Stato appare correo, il favoreggiatore, l’istigatore!». In questa situazione Li Causi da un canto accusa il governo per «avere sospinto i funzionari a questi metodi», dall’altro si rivolge ai poliziotti, ai carabinieri, agli ufficiali «onesti e fedeli allo Stato» esortandoli a non contrapporsi al popolo, e fa appello ai lavoratori perché non considerino loro nemico il carabiniere. Nel suo ormai celebre appello al bandito Giuliano afferma: «Il triste inganno di ribellarsi contro l’oppressore con il delitto e con la vendetta individuale è costato nei secoli ai contadini siciliani molto sangue e lutti e miserie infinite. Non sono i carabinieri, comandati per fare rispettare la legge, anche se questa legge per il tristo gioco delle forze politiche che vogliono dominare la Sicilia provoca irresistibili ribellioni negli animi primitivi ma forti come il tuo, non sono i carabinieri colpevoli».
Il problema che Li Causi pone con grande forza in questo periodo è il nesso tra la lotta per la riforma agraria, l’autonomia e il potere statale. Il nodo storico che riemerge con Li Causi è quello del rapporto tra lo Stato e la Sicilia, tra lo Stato e i cittadini: il nodo della costruzione dello Stato democratico.
E questo nodo non è ancora oggi pienamente sciolto, né in Sicilia, né nel paese.
Emanuele Macaluso