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    Predefinito Emanuele Macaluso (Caltanissetta, 1924 - Roma, 2021)

    Addio a Emanuele Macaluso, storico dirigente comunista






    Fino all'ultimo Emanuele Macaluso, morto stanotte a 96 anni, ha mantenuto uno sguardo curioso sul mondo. Era sorprendentemente sul pezzo. Ancora la settimana scorsa, dal letto d'ospedale, chiedeva della crisi di governo. La politica è stata la sua dannazione. "E al giornale, che si dice?", domandò, con un filo di voce. A Natale aveva avuto un problema al cuore, che sembrava risolto, ma la notte prima di lasciare la clinica era caduto. Lo incoraggiai a tenere duro. "Ma cosa vuoi, ho quasi cent'anni", rispose lapidario. Che tutto stesse per finire lo indispettiva. Aveva amato moltissimo la vita, affrontata con lo stesso gusto con cui si addenta una mela. "Voglio andarmene nel sonno", aggiunse.

    Ogni mattina si svegliava alle sei, leggeva il pacco di quotidiani comprati all'edicola della piazza di Testaccio, quindi, dopo la passeggiata sul Lungotevere, dettava all'ex giornalista dell'Unità Sergio Sergi il commento scritto a mano sul tavolo della cucina. Sergi lo postava materialmente sulla pagina Facebook Em.Ma in corsivo. Una rubrica di successo. A Macaluso però non importavano i riscontri. Non aveva nemmeno un computer. "Se non scrivo i miei pensieri mi sento morire", mi raccontò una volta, seduto nel salotto del piccolo appartamento ingombro di libri. "Togliatti una volta mi spiegò: un uomo politico che non scrive è un politico dimezzato". Il primo pezzo uscì nel 1942 sull'Unità allora clandestina: una denuncia delle condizioni di lavoro degli zolfatari nisseni. Macaluso aveva 18 anni.


    (...)


    https://www.repubblica.it/politica/2...uso-248084495/
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  2. #2
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    Predefinito Re: Emanuele Macaluso (Caltanissetta, 1924 - Roma, 2021)

    Addio Emanuele, la tua storia è per la sinistra in cerca di se stessa una grande lezione di politica

    DI SERGIO SERGI

    “La politica? La politica è morta”. Al telefono mi lasciò di sasso. Glielo feci ripetere. Mi sembrò una cosa enorme, detta da lui, Emanuele Macaluso, che la politica combattente l’aveva nel sangue. Quasi rassegnato, ma non domo, mi disse che non sapeva più da dove riprendere il filo della matassa. Si affacciava al balcone della sua casa nel popolare quartiere romano di Testaccio: “Vedo solo gente con le mascherine, lo capisco, la salute prima di tutto”.

    Quasi al traguardo dei 97 anni – era nato il giorno d’inizio della primavera del 1924 – Macaluso guardava ormai scivolare via la ragione della sua esistenza. Lui, uno degli ultimi ragazzi rossi, il siciliano togliattiano amico di Sciascia, che ancora sino ad un anno e mezzo fa si arrampicava sui sassi di Portella delle Ginestre, nel corteo della Cgil, per onorare le vittime della strage mafiosa.
    Ho avuto, negli ultimi anni, il grande e impagabile privilegio, di raccogliere i pensieri, le riflessioni di Emanuele Macaluso. Iniziati quando lo colpì in maniera atroce la scomparsa prematura del figlio Pompeo che portava il nome del suo amico e partigiano Colajanni. Soffriva di non aver più un luogo dove consegnare i suoi scritti. Aveva fame di politica. Soprattutto gli mancava un giornale. Il “suo” giornale. E fu così che con Peppe Provenzano, passeggiando nel quartiere, gli proponemmo di “aprire una pagina” su Facebook in cui potesse scrivere di politica.

    “Che cos’è feisbucc?”

    Ci guardò perplesso: cos’è “feisbucc”? Tacemmo ma gli brillarono gli occhi. Era fatta. E riprese, sotto l’intestazione “Em.ma in corsivo”, a consegnarci il suo testo ogni mattino attorno a mezzogiorno. Lezioni di politica. Racconti inediti. Polemiche ragionate. Giammai gridate. E, spesso, accadeva che desse “la linea”.
    Se posso dire, aveva tre crucci che hanno trovato spazio in questo racconto che viaggiava, praticamente a sua insaputa, sulla Rete: la scomparsa di un grande giornale della sinistra – il suo perenne ricordo andava a l’Unità che diresse all’inizio degli anni Ottanta – poi la quasi disperazione per lo stato dei partiti in Italia con le tristi sorti della sinistra e l’affanno del sindacato. Insomma, i capisaldi del suo straordinario impegno politico e sociale.
    Io ho capito che Emanuele Macaluso, specie negli ultimi tempi, tifava in maniera particolare perché si potesse affermare sempre di più la forza del sindacato visto che la politica dei partiti gli riservava continuamente enormi delusioni ed anche sconcerto.
    Del resto, stiamo ricordando un uomo che dalla Cgil veniva, che a 23 anni fu chiamato da Giuseppe Di Vittorio a dirigere il sindacato in Sicilia. In quei tempi, quando ai comizi di Girolamo Li Causi i mafiosi lanciavano bombe. Roba da far tremare i polsi.
    Del resto, adesso, nel momento del commiato, mica è semplice ricordare con precisione il lascito poderoso del sindacalista politico, del parlamentare e, soprattutto, del meridionalista Macaluso. Che ha mancato per un soffio le celebrazioni del centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia. Come se sentisse, e sicuramente lo sentiva, tutto il peso di una ricorrenza che lo riguardava in prima persona.

    I suoi crucci

    Spetta certamente ad altri, nel campo della sinistra, il compito di fissare più compiutamente l’azione e l’opera di Emanuele Macaluso. Ma siccome, come detto, un suo cruccio è rimasto sino alla fine l’assenza di un vero partito della sinistra, non si può non ricordare, senza far torto a nessuno, la sua decisione di non aderire al Partito Democratico. Anzi, scrisse proprio un libro per sottolineare che quel partito, sorto sulle ceneri di Ds e Margherita, nasceva e restava al “Capolinea” (il titolo). Nei suoi interventi su Facebook ha ripetuto con regolarità questa sua valutazione politica e posso dire che andava constatando quanto avesse colto nel segno, oltre dieci anni fa, ma non se ne gloriava. Ne era semplicemente costernato.
    Francamente, c’era poco da obiettare ad uno che del Partito, quello vero, se ne intendeva per essere stato partecipe di intese battaglie interne, insieme con Napolitano, Bufalini, Chiaromonte, Cervetti ed altri, e per aver frequentato i luoghi fisici dei comunisti. A principiare dalla Botteghe Oscure di Roma dove, per ironia del destino, nel 2011 si ritrovò nuovamente, per pochi mesi, in una stanza al piano terreno – dove
    una volta era ospitata la mitica Libreria Rinascita – a scrivere i suoi editoriali nella sede provvisoria del “Il Riformista”. E cosa potevi dire, se non ascoltare in silenzio, al Macaluso che raccontava quando viaggiò, con Togliatti e Pajetta, sulla carrozza dello czar che li portava alla volta di Mosca per colloqui con il Pcus?
    Stiamo parlando di un altro pezzo di Storia che scorre immancabilmente. Macaluso ne era profondamente cosciente. E lo diceva con lucida convinzione. Sino a pochi giorni fa.
    L’ho sentito al telefono dal suo letto d’ospedale. Aveva problemi cardiaci ed era caduto malamente danneggiando il femore. Irrequieto. Un esile gigante incatenato. Non ne voleva più sentire di stare in quel letto e, men che meno, in terapia intensiva.
    L’ho incitato: sbrigati ad uscire, dobbiamo fare la campagna elettorale. Mi ha risposto: “Sì, certo, come no. Ciao”.


    Addio Emanuele, la tua storia è per la sinistra in cerca di se stessa una grande lezione di politica - Strisciarossa

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  3. #3
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    Predefinito Re: Emanuele Macaluso (Caltanissetta, 1924 - Roma, 2021)

    Macaluso: Berlinguer, il PSI e la svolta mancata


    Stima e dissenso con il celebre leader comunista, responsabile secondo Macaluso della mancata collaborazione con i socialisti, narrati nel libro «50 anni nel PCI»

    «L’ho visto per la prima volta al V Congresso del PCI, nel 1945».
    Comincia così il racconto che Emanuele Macaluso fa del suo rapporto con Enrico Berlinguer all’interno del suo diario “50 anni nel PCI”, edito da Rubbettino nel 2003 e riproposto in libreria in queste ore in omaggio al grande politico e intellettuale siciliano scomparso oggi.

    Quello tra Macaluso e il leader più amato del PCI fu un rapporto di reciproca stima ma collocato su posizioni nettamente diverse: favorevole a un’avvicinamento al PSI il primo, convinto della necessità di un rapporto più intenso con i cattolici il secondo.
    «Berlinguer non si staccò mai dall’asse strategico di Togliatti – scrive Macaluso nel capitolo del libro dedicato al leader comunista – Rispetto a Longo, con la sua segreteria il pendolo della politica del PCI, anziché muoversi verso l’area laico socialista, si spostò in direzione del mondo cattolico-democristiano. Lo stesso intenso rapporto con i leader socialisti europei, come Willy Brandt e Olof Palme, non ebbe come riferimento le conquiste sociali e il governo socialdemocratico, in un regime di libertà, di paesi rilevanti dell’Europa, ma i temi del rapporto Nord-Sud, molto importanti nella visione, per molti aspetti terzomondista, di Berlinguer»
    Secondo Macaluso un peso considerevole in tale forma di agire lo ebbe il rapporto di Berlinguer con Craxi:
    «Berlinguer – scrive – era preoccupato e spiazzato dalla politica di Craxi, dal suo autonomismo aggressivo, anche perché pensava che con il PSI di De Martino fossero stati raggiunti un rapporto di forze e un’intesa politica tali da mettere all’ordine del giorno, in una prospettiva non lunghissima, una fusione tra i due partiti. Tuttavia molti dimenticano che, sino alla vigilia delle elezioni del 1983, i rapporti tra PCI e PSI erano sì conflittuali, ma governati da un reciproco interesse a non provocare rotture irreversibili. È noto che, in quella vigilia, si svolse l’incontro tra Craxi e Berlinguer alle Frattocchie, e fu stilato un comunicato in cui si sottolineava una comune valutazione su tutti i problemi più scottanti, da quelli sociali a quelli della giustizia. Il clima cambiò nel momento in cui Craxi divenne Presidente del Consiglio: un anno di fuoco (…) La conflittualità tra Craxi e Berlinguer si accentuò oltremisura: il primo voleva intensificarla per consolidare la sua presidenza in Italia e all’estero; il secondo perché voleva costruire uno schieramento anticraxiano, trasversale, proletario e borghese, laico e cattolico, alzando da un canto la bandiera della “diversità” comunista e dall’altro la bandiera del “governo degli onesti”»

    Certo Macaluso è consapevole che la mancata collaborazione con il PSI non è completamente ascrivibile a Berlinguer. Nel capitolo del libro dedicato a “Craxi e gli anni Ottanta”, Macaluso scrive:
    «A questo punto, credo che sia giusto chiamare in causa la mia generazione. La quale non riuscì a portare più avanti un rinnovamento e una revisione ideologica e politica che potessero davvero dare vita a una forza alternativa di governo nel solo modo possibile, e cioè ponendo al centro della sua iniziativa una nuova unità della sinistra e incalzando il Psi su questo terreno. Non sottovaluto le responsabilità di Craxi, il quale non seppe rivedere la sua politica dopo la scomparsa di Berlinguer, mentre era Presidente del Consiglio, e soprattutto dopo le elezioni del 1987, quando si verificò una flessione del PCI e il PSI non avanzò in modo significativo. Eppure, di fronte all’esaurimento del rapporto tra dc e socialisti, come asse del vecchio centrosinistra, del Pentapartito, della “governabilità possibile”, il PCI rimase come paralizzato dentro la sua stessa storia e dentro la svolta berlingueriana. (…) dopo il 1980 la “questione” Craxi diventò dirimente, cosicché il gruppo di compagni che la ponevano in termini diversi da quelli usati da Berlinguer venne considerato “inaffidabile”: anche se si trattava di personaggi autorevoli, da Lama a Napolitano, da Chiaromonte a Bufalini, via via fino ai più giovani (…)
    L’amalgama, tra centristi e sinistra, nel “berlinguerismo”, fu costituito dal culto della “diversità”, dall’antisocialismo, dalla diffidenza nei confronti della socialdemocrazia europea. L’asse politico prevalente fu il rapporto con il mondo cattolico.
    C’era una visione integralista»

    «L’ostilità a spostare il “centro” del PCI per costruire una maggioranza con la “destra” – continua Macaluso – ha bloccato un processo, anzi, ha tolto di mezzo la possibilità di dare uno sbocco diverso alla crisi comunista, nella direzione del socialismo europeo. Diciamo le cose come stanno: a Napolitano si possono fare critiche e osservazioni su vari momenti del suo agire politico, ma nel gruppo dirigente era il solo che avesse conoscenze, frequentazioni, rapporti politici e credibilità nell’area del socialismo europeo.
    Quale credibilità poteva avere Occhetto in quel mondo? Se si fosse posta attenzione alle sorti della sinistra, non era difficile capire quale soluzione dare alla nostra crisi. Non fu così, e i costi sono stati alti»

    Macaluso: Berlinguer, il PSI e la svolta mancata - Avanti
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    Predefinito Re: Emanuele Macaluso (Caltanissetta, 1924 - Roma, 2021)

    Mixer - 1982

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  5. #5
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    Predefinito Re: Emanuele Macaluso (Caltanissetta, 1924 - Roma, 2021)

    aveva la sua bella età
    nella gioia e nel dolore INTER eterno amore !!!
    mai stati in B

  6. #6
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    Predefinito Re: Emanuele Macaluso (Caltanissetta, 1924 - Roma, 2021)

    Indubbiamente un uomo notevole.
    "Io nacqui a debellar tre mali estremi: / tirannide, sofismi, ipocrisia"


    IL DISPUTATOR CORTESE

    Possono tenersi il loro paradiso.
    Quando morirò, andrò nella Terra di Mezzo.

  7. #7
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    Predefinito Re: Emanuele Macaluso (Caltanissetta, 1924 - Roma, 2021)

    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

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  8. #8
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    Predefinito Re: Emanuele Macaluso (Caltanissetta, 1924 - Roma, 2021)

    Ugo La Malfa e i “limiti” della Dc (1979)

    di Emanuele Macaluso - «Rinascita», a. XXXVI, 2 marzo 1979, pp. 1-2.

    Le pregiudiziali e le preclusioni della Dc, dopo Andreotti, sembra che vogliano sbarrare la strada anche al tentativo dell’on. La Malfa. Anzi, queste pregiudiziali sembrano essere anche più rigide per il significato che ha assunto la candidatura del leader repubblicano, come rottura di un sistema politico che aveva ruotato sempre attorno alla Dc e ai presidenti del Consiglio da essa espressi. Questa candidatura ha trovato consensi di opinione pubblica non tanto, come è stato scritto da qualcuno, perché rappresenterebbe una punizione alla Dc, ma perché potrebbe esprimere meglio il significato del 20 giugno che, da un canto, ha liquidato le vecchie formule che avevano caratterizzato il trentennio e, dall’altro, non aveva espresso una maggioranza alternativa alla stessa Dc. Cioè, la candidatura dell’on. La Malfa potrebbe costituire, in un momento particolarmente difficile e in una situazione parlamentare complessa, un punto di raccordo tra tutte le forze democratiche.
    Ma per agevolare questo compito è necessaria non solo la volontà del designato di assolverlo, ma è necessario soprattutto sbarazzare il campo da ogni pregiudiziale o manovra.
    I passi fatti finora dalla Dc si muovono, invece, in senso opposto. Immediatamente dopo la designazione, in un comunicato della sua direzione, la Dc affermava che «si conferma la validità e l’importanza della politica di solidarietà nazionale, degli equilibri e dei limiti con i quali essa è stata imposta dalla Dc».
    Ma proprio questi limiti hanno fatto fallire Andreotti, e se si vuole risolvere la crisi non bisogna riproporli a La Malfa al quale si dovrebbe consentire, a nostro avviso, di potersi muovere al di là di questi limiti. D’altra parte, l’argomento secondo cui la Dc non può superare nei confronti di un laico i limiti già posti ad Andreotti, è pretestuoso, dato che, proprio perché a formare il governo non è un democristiano, la Dc, qualora lo volesse, potrebbe muoversi più agevolmente superando le vecchie pregiudiziali.
    È chiaro, quindi, da dove, ancora una volta, vengono preclusioni e sbarramenti alla soluzione della crisi. Eppure c’è qualcuno che continua a parlare di una doppia pregiudiziale: una della Dc e una del Pci. È bene, dunque, chiarire ancora un volta questo punto. Anzitutto, e lo diciamo senza ipocrisie e con un preciso intento polemico, che l’accusa mossaci di porre noi una questione pregiudiziale di schieramento è veramente enorme. Chi scrive queste cose nella Dc o in altri partiti, in alcuni giornali, non coglie la stridente contraddizione in cui si trova la Dc, che pregiudizialmente – e cioè a prescindere da ogni contenuto programmatico – vuole imporre una formula di governo che comunque escluda la partecipazione «diretta o indiretta», come si usa dire, del Pci. E cos’è questo se non privilegiare le formule sui contenuti? Ma quello che è ancora più enorme è che l’accusa viene rivolta ad un partito come il nostro che, per oltre due anni, ha appoggiato dall’esterno un governo composto di soli dc, impegnandosi, spesso da solo, nel Parlamento e nel paese a sostenere un programma concordato e più volte disatteso o distorto o apertamente sabotato dai ministri in carica e da nutriti gruppi di parlamentari dalla Dc.
    Come si fa a rimproverare il Pci di anteporre ai contenuti questioni di schieramento, quando si sono fatte carte false e giochi di prestigio per far prevalere, nel caso delle nomine dei grandi enti pubblici, un certo schieramento, quello di centro-sinistra? E come giudicare, ancora in questi giorni, la tracotanza dei padroni dei canali della Rai, che ogni mattina alle sette e trenta ci propinano un comizio di Selva per giustificare le preclusioni anticomuniste della Dc, e alle otto, attraverso la melliflua voce di un redattore del Gr uno, si snodano litanie interminabili per dire alla fine che ci sono «le due pregiudiziali», e che nel giusto mezzo c’è chi vuole salvare la patria, e cioè il Psi? Non c’è già uno schieramento che controlla mezzi di comunicazione (Rai e stampa) finanziati dal pubblico denaro?
    Noi non siamo sfuggiti né vogliamo sfuggire ad un confronto sui contenuti della politica di solidarietà nazionale; anzi, abbiamo più volte ricordato che proprio su questi contenuti si è manifestato lo scontro con la Dc. Basti ricordare la tormentata vicenda dei patti agrari, la legge sulla riforma della polizia, quella sull’università, la vicenda dello Sme, ecc. Anche sul progetto di riforma delle pensioni e sul piano triennale si sono manifestati dissensi sui contenuti ancora prima del dibattito parlamentare. Ma più in generale, c’è da dire che proprio in questi anni, in cui fuori dal governo ci siamo battuti per dare contenuti innovatori alla politica di unità nazionale, sono emerse con nettezza due contraddizioni: l’incapacità della Dc di rappresentare nel governo tutta la maggioranza, e un modo di governare e affrontare i nodi della crisi in contraddizione con i presupposti della politica di emergenza e di solidarietà nazionale.
    Cioè, la Dc governando, dirigendo i ministeri e gli enti pubblici, ha dato a questa politica certi contenuti che la smentivano o la appannavano agli occhi delle grandi masse. Ed è per questo che il Pci ha posto contestualmente il problema del programma e delle garanzie politiche della sua realizzazione e dell’adozione di metodi di governo corrispondenti alle esigenze della politica di solidarietà. Partendo da queste premesse, abbiamo considerato positiva la designazione dell’on. La Malfa che, non ponendo né lui né il suo partito una pregiudiziale nei confronti del Pci, consente un esame più sereno e più oggettivo dei problemi politici e programmatici aperti.
    Diciamo subito che la gravità della situazione internazionale e il ruolo che in questo momento può giocare il nostro paese insieme a tutte le altre nazioni europee, dovrebbero suggerire la costituzione di un governo di unità democratica con la presenza degli esponenti più prestigiosi dei partiti democratici. E lo diciamo, tenendo conto del fatto che la crisi non si è aperta su temi di politica estera e, come è detto nell’ultima risoluzione della direzione del Pci, che ancora oggi la piattaforma che su questi temi è stata votata dalla maggioranza nel Parlamento costituisce una base utile e produttiva per una iniziativa italiana.
    Questa nostra posizione la ribadiamo con forza nel momento in cui da parte di alcuni gruppi oltranzisti e irresponsabili si propone invece una soluzione della crisi che, strumentalizzando la situazione internazionale, faccia prevalere ancora una volta le ragioni della propaganda anticomunista su quelle della pace, che pur si manifestano con forza nelle posizioni di altri governi europei.
    La segreteria della Dc non ha fatto sue queste posizioni oltranziste, e questo è, in questo momento, un dato certamente da non sottovalutare. Tuttavia continua, nonostante l’intrecciarsi dell’emergenza nazionale con quella internazionale, a far prevalere posizioni di parte agli interessi generali. Anzi, le più recenti prese di posizione della Dc e i contrasti che si sono manifestati al suo interno, da una parte con le forsennate uscite anticomuniste di Donat Cattin e dall’altra con le repliche della segreteria, rivelano complesse manovre che hanno come obiettivo di sbarrare la strada a una soluzione positiva della crisi, ponendo in definitiva una precisa alternativa: o il governo anticomunista prefigurato da Donat Cattin o le elezioni anticipate. La nostra valutazione non è una forzatura, dato che nessuno dei dirigenti dc prende ancora in considerazione la possibilità di superare quei limiti che hanno bloccato fino ad oggi ogni trattativa sul nascere. Al momento in cui scriviamo, non sappiamo quale decisione prenderà l’on. La Malfa dopo le consultazioni con i partiti della disciolta maggioranza. Per parte nostra, pensiamo che esistano soluzioni che possano evitare rotture e rappresentino un avanzamento reale e su basi più solide della politica di unità nazionale. Per raggiungere questo risultato il nostro partito opererà con convinzione e realismo politico, ma è necessario che dalla Dc venga un segno politicamente significativo che superi i limiti di una preclusione assurda, intollerabile e che viene usata direttamente nei nostri confronti e indirettamente e spregiudicatamente per tagliare la strada ad ogni iniziativa che viene da altri partiti, dal Pri come dal Psi. Delle iniziative del Psdi, si può non parlarne.

    Emanuele Macaluso
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    Predefinito Re: Emanuele Macaluso (Caltanissetta, 1924 - Roma, 2021)

    Il caso Moro e le nuove tappe dell’emergenza (1978)

    di Emanuele Macaluso - «Rinascita», a. XXXV, n. 42, 27 ottobre 1978, pp. 3-4.

    Terrorismo, crisi, quadro politico: Parlamento, governo e partiti fanno il bilancio del dopo 16 marzo

    Il 16 marzo, il rapimento dell’on. Aldo Moro e il massacro della sua scorta imposero (e non poteva essere diversamente) di votare subito la fiducia ad un governo la cui inadeguatezza veniva messa in luce proprio dai drammatici fatti di quella mattina. La contraddizione era evidente, ma in quel momento non risolvibile. Vogliamo dire, cioè, che nella mattina del 16 marzo venne acutamente in evidenza il carattere dell’emergenza politica in Italia e l’esigenza, quindi, di una direzione del paese più forte ed autorevole espressa da un governo di unità.
    Tuttavia, occorre dire che il governo e la maggioranza seppero dare una risposta complessivamente giusta ai problemi che si posero nel momento in cui, durante la lunga prigionia di Moro, cominciò a delinearsi la cosiddetta strategia della trattativa. Una risposta giusta e necessaria, che raccolse consensi vastissimi, nazionali ed internazionali (basti pensare all’eccezionale appello di Paolo VI), anche se offuscata dalla incapacità dello Stato di individuare e colpire i centri dell’eversione e del terrorismo e, possibilmente, di liberare Moro. Questo elemento positivo e questo limite si ritrovano d’altronde nella stessa relazione con cui il ministro Rognoni ha aperto il dibattito alla Camera. Occorre ricordare anche che questa incapacità dello Stato ha radici profonde nel modo stesso di concepire ed usare gli apparati negli anni in cui si sono esercitati il monopolio politico della Dc e la discriminazione anti-comunista.
    Ma andiamo all’essenziale di una polemica che si è riproposta nelle scorse settimane e poi, ancora, nell’aula di Montecitorio. Cosa sarebbe oggi l’Italia se si fosse accettata la linea della «trattativa» con i terroristi?
    Ci è stato rimproverato che la linea scelta avrebbe condotto fatalmente all’assassinio di Moro. Sono convinto che, in ogni caso, il presidente della Dc sarebbe stato ucciso. Ma quello che è certo è che la trattativa, condotta sotto il ricatto dei terroristi, non avrebbe lacerato soltanto una maggioranza di governo o il partito della Dc, ma la nazione e la democrazia, esponendo lo Stato a tutti i ricatti.
    Leonardo Sciascia ha scritto che uno Stato forte (cioè autorevole) avrebbe potuto trattare; uno Stato debole (cioè con scarsa credibilità) no. Non so quali siano gli Stati forti a cui potrebbe riferirsi Sciascia. Ma, in ogni caso, dato che il nostro Stato è debole, ha fatto bene a non trattare o no? O non era forse proprio in ragione di questa debolezza che qualcuno pensava di utilizzare quanto Moro chiedeva per dare un colpo mortale a questo Stato ancora debole, e pur tuttavia democratico? Si voleva, cioè, far venire meno le condizioni e la possibilità di operare per il rafforzamento dello Stato, rinnovandolo.
    La trattativa per «olpizzare», come è stato detto, il terrorismo avrebbe certamente golpizzato l’Italia, dato che si sarebbero finalmente create le condizioni per unificare la destra – silenziosa o rumorosa, moderata o reazionaria, clericale o massone, statale o antistatale, trattativista o antitrattativista, nazionale o internazionale – per schiacciare non i terroristi «olpizzati», ma la democrazia, che a quel punto sarebbe stata definita impotente e correa. E quanti, dopo avere scritto che questo Stato non merita di essere difeso, a quel punto avrebbero scritto che quella democrazia non valeva la pena di essere difesa, e non valeva la pena perché era una democrazia imbelle, disossata e corrotta?
    Abbiamo detto che la vicenda Moro ha messo in evidenza la debolezza del governo e, più in generale, delle strutture statali. Ma oggi si tratta di rispondere a una domanda che non solo la vicenda Moro ma tutto un insieme di fatti ci pone: come fare questo Stato più forte, dato che non basta certo la risposta che è stata data al momento della richiesta di trattative per dire che siamo di fronte a uno Stato autorevole? Che il governo del 16 marzo fosse inadeguato a questo compito, il nostro partito lo aveva detto a conclusione della crisi apertasi all’inizio di quest’anno. E, del resto, anche gli altri partiti della maggioranza, in un modo o nell’altro, manifestarono lo stesso convincimento. Tuttavia, la linea scelta da noi è stata quella di verificare le capacità di questa maggioranza e, soprattutto, la possibilità di questo governo di esprimerle pienamente e di attuare il programma concordato, in un confronto costante con i problemi da risolvere e nel rapporto con le grandi masse popolari.
    La lotta e il dibattito politico che si sono sviluppati in questi mesi attorno ai vari problemi hanno fatto emergere all’interno della Democrazia cristiana due tendenze che hanno ormai contorni abbastanza precisi. Da una parte c’è chi pensa che l’emergenza ed il rapporto con i comunisti debbano essere considerati un momento eccezionale e transitorio, utile per superare gli aspetti più acuti, appariscenti e congiunturali della crisi, ma da chiudere al più presto, nel tentativo di tornare alla vecchia politica e a vecchi schieramenti che, comunque verniciati, avrebbero un punto preciso di riferimento nell’emarginazione del Pci.
    Dall’altra – e questa mi pare la posizione essenziale venuta fuori al convegno della corrente democristiana della Base tenutosi a Belgirate nei giorni scorsi – chi dà all’emergenza una dimensione e uno spessore ben più corposi, ritenendo che si possa uscire dalla crisi solo se saranno affrontati e risolti i problemi strutturali nella sfera dell’economia, della società e dello Stato, attraverso riforme profonde che sciolgano nodi come quelli del Mezzogiorno, della programmazione economica e della costruzione di uno Stato con un’ampia base popolare. Per far questo, viene ritenuto necessario portare gli attuali rapporti politici a un nuovo sviluppo, per rendere, nel corso di un confronto e di una battaglia politica più stringente, durevole e di prospettiva, il rapporto con i comunisti, e, più in generale, con tutta la sinistra.
    Non a caso questi settori della Democrazia cristiana si richiamano a quella che Moro indicò come «terza fase», la cui costruzione non è rinviata a domani, a quando, come qualcuno dice, l’emergenza sarà conclusa, ma è contenuta nell’oggi, e cioè, nel modo in cui oggi stesso l’emergenza viene affrontata.
    Anche per questo la nostra battaglia attorno a scadenze che sono nel programma e nell’agenda dell’attività di governo acquistano un significato e un valore rispetto alla strada che si vuole percorrere e nel confronto con quelle che si possono definire le due anime della Dc.
    Abbiamo visto come alcuni atti del Parlamento e del governo volti a costruire strumenti per una programmazione, a risanare la finanza pubblica, a riorganizzare gli apparati dello Stato, determinano non solo opposizioni abbastanza prevedibili in certi gruppi economici e di potere che hanno manovrato le leve dell’economia e dello Stato decidendo le sorti del paese, ma provocano tensioni nel corpo stesso della società: tensioni di cui le esplosioni corporative sono poi solo un segno ma la cui ampiezza e profondità non bisogna sottovalutare. Da qui nasce l’esigenza non solo di avere un’azione coerente e decisa del governo e della maggioranza, ma anche, e direi soprattutto, un’azione e un impegno delle forze politiche nella società per un rapporto positivo con le masse tale da battere le posizioni negative e coinvolgere, invece, in un’azione positiva tutte le forze interessate al cambiamento e alle riforme.
    Fra i dati negativi della situazione attuale c’è proprio una dissociazione da questo impegno. Per cui il problema non è per noi comunisti solo, come qualcuno ha detto, di stare o non stare nel governo (problema certo rilevante ai fini della direzione del paese), ma quello di una comune battaglia, politica e di massa, delle forze che hanno concordato il programma, per la sua realizzazione.
    È attraverso il confronto con questi problemi, con queste realtà, che è possibile verificare le maggioranze di governo, e non certo sulla base di dispute più o meno ideologiche o ideologizzanti. E questa mi pare l’altra risposta che è venuta dal convegno di Belgirate anche nella polemica fatta da molti esponenti della Base nei confronti del partito socialista. Non una sottovalutazione del dibattito ideale e culturale, non un appiattimento delle differenze; ma l’esigenza di far prevalere i processi politici reali in rapporto alle soluzioni che il paese oggi richiede. E non solo la polemica col Psi, ma anche quella portata avanti nei confronti del furore anticomunista di un Donat Cattin e, aggiungiamo noi, nei confronti delle furbizie di certi gruppi dorotei, espresse in una recente intervista da Bisaglia, il quale ha detto che nel momento in cui il Pci accettasse le «condizioni ideologiche» poste da Craxi, tutto sarebbe risolto perché a quel punto si potrebbero fare diverse maggioranze: Pci-Psi, Dc-Psi o, ha aggiunto, Dc-Pci indifferentemente. Il piccolo particolare che Bisaglia trascura è l’identità del Pci e la forza connessa a questa identità, forza che si dimostra indispensabile appunto per sciogliere i nodi che stringono l’Italia.
    Questo è anche il modo per rendere forte lo Stato, respingendo la logica ed il ricatto dell’eversione e del terrorismo. Un ripiegamento, un ritorno indietro, significherebbe, appunto, dare partita vinta a chi, anche col terrore, pensa di bloccare e di rovesciare i processi politici aperti in questi anni.

    Emanuele Macaluso
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

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    Predefinito Re: Emanuele Macaluso (Caltanissetta, 1924 - Roma, 2021)

    La Repubblica alla prova (1977)

    di Emanuele Macaluso - «Rinascita», a. XXXIV, n. 11, 18 marzo 1977, pp. 1-2

    Stiamo vivendo giorni carichi di avvenimenti e di tensioni che mettono a dura prova uomini che pure hanno formato le loro coscienze e il loro carattere nel fuoco di lotte durissime, organizzazioni sociali e politiche che hanno profonde radici nella classe operaia e nel popolo, e le stesse istituzioni repubblicane che in questi anni hanno retto, grazie al sostegno popolare, di fronte agli attacchi più insidiosi che sono venuti dall’esterno e dall’interno di queste istituzioni. Quanto è accaduto a Bologna e a Roma è tra quegli avvenimenti nella storia della nostra democrazia destinati a lasciare un segno profondo. E non solo per la gravità e la drammaticità della cronaca. Ma anche per ciò che portano alla luce, per il loro essere in qualche modo uno spartiacque della situazione politica italiana.
    Se vogliamo fare chiarezza dobbiamo partire da qui: la Repubblica è ad un passaggio difficile perché sono in discussione gli orientamenti di fondo e i metodi di governo che sono prevalsi negli ultimi trent’anni nei centri decisivi della vita pubblica (Parlamento, governo, Regioni, Comuni, enti pubblici, apparati statali). È chiaro che gli avvenimenti a cui ci riferiamo non sono solo i fatti di Roma e di Bologna o il dibattito parlamentare sullo scandalo Lockheed – che sono stati i segnali più evidenti delle tensioni che scuotono il paese – ma il quadro entro il quale questi fatti si svolgono, cioè la situazione politica generale che è sempre stata, e resta, per noi il punto di riferimento essenziale e decisivo.
    Non è certo la prima volta che uomini, partiti, sindacati, istituzioni si trovano a una stretta che li sollecita a scelte difficili e coraggiose. Pensiamo a quel complesso di iniziative che diedero vita, nel ’43, all’unità delle forze che combattevano il fascismo; nel ’44 alla svolta di Salerno; nel ’46 alla Repubblica e pensiamo anche ad altri momenti di svolta della vita nazionale: la rottura dell’unità democratica, il ’48 con l’attentato a Togliatti e le repressioni; il ’53 e la crisi del centrismo dopo il fallimento della legge truffa, il ’60 con la sconfitta di Tambroni e l’avvio del centro-sinistra, il ’68 e la crisi acuta dei vecchi equilibri sociali e l’esplosione del movimento studentesco. Oggi forse il passaggio ad una nuova fase politica è più difficile, almeno rispetto a quelle che si sono verificate dopo il 1948, perché ne sono investiti in forme nuove e più radicali i rapporti fra le classi e fra i partiti. È in discussione, infatti, l’egemonia della Dc e il dominio incontrollato del grande capitale privato e pubblico, cioè delle forze che hanno deciso per grande parte le sorti del paese nell’ultimo trentennio. Ecco perché la crisi che si è aperta nel 1968 ha provocato e continua a provocare sommovimenti sociali e politici che non trovano ancora un assestamento. Sono ormai dieci anni che questi sommovimenti sollecitano una nuova politica, una diversa direzione del paese e un peso nuovo della classe operaia e della masse lavoratrici nella vita dello Stato.
    I giovani del ’68 non sono più giovani e, dopo diverse esperienze, gran parte di essi oggi sono nel Pci, coi comunisti, per un rapporto col Pci. È stata questa una saldatura essenziale non solo per il partito comunista e per il movimento operaio ma per la democrazia italiana. Si realizzerà una analoga saldatura con la gioventù di oggi? Ecco un problema essenziale. I pensieri, i problemi che agitano i giovani di oggi non sono quelli di ieri e molto diversi sono gli orientamenti di certi gruppi che agitano il mondo giovanile. Su questa diversità abbiamo cercato di riflettere e significativi approfondimenti sono venuti nella discussione svoltasi nel Comitato centrale del partito tenutosi in questi giorni.
    Ma c’è un filo che lega il 1968 all’oggi ed esso è costituito dallo svolgimento di una crisi sociale e politica quanto mai lunga e tortuosa, punteggiata da avvenimenti inquietanti e drammatici: da piazza Fontana a Reggio Calabria, dalle trame nere e dai brigatisti «rossi» al Sid ed altri centri statali inquinati, dagli scandali tipo Lockheed e dalle evasioni fiscali scandalose all’ostentazione della ricchezza, alle esplosioni di forme nuove di criminalità comune e politica, e al suo intreccio e collegamento con centrali straniere, alla crisi di vecchi apparati di polizia e giudiziari. La crisi economica ha acuito e drammatizzato tutti i problemi irrisolti, ha allargato la protesta contro la corruzione, l’inefficienza e le ingiustizie accumulate nella società, ha esasperato tensioni sociali e politiche.
    In questo quadro si collocano le agitazioni degli studenti in una scuola devastata e disgregata dall’ignavia e dal malgoverno dei ministeri a direzione dc e dal velleitarismo opportunista e inconcludente dell’estremismo, non fronteggiati adeguatamente dalle forze democratiche per l’incapacità di queste di portare avanti, con continuità e coerenza, una lotta volta ad affermare, anche attraverso obiettivi intermedi, un disegno riformatore. In questa situazione non possiamo stupirci se si manifestano posizioni che noi riteniamo profondamente sbagliate e se queste trovano un consenso largo e radunano migliaia di giovani. Altra cosa però è il disegno criminale di alcuni gruppi sovversivi che fanno leva su questa rabbia e su questo sbandamento per attaccare il movimento operaio e le istituzioni democratiche, per colpire la Repubblica ed aprire così la strada alla repressione e all’avventura reazionaria.
    A questo proposito occorre essere molto chiari e coerenti, parlando apertamente al paese, alle masse, ai giovani, come abbiamo fatto col nostro Comitato centrale.
    Sono alcune settimane che noi stiamo parlando di un disegno torbido rivolto contro la Repubblica, di fenomeni di squadrismo. Si cominciò contestando il diritto alla parola, facendo violenza al metodo del confronto civile. E già allora vi furono segni chiari di ciò che su quella via sarebbe accaduto. Vi furono molti che in quei giorni gongolavano perché l’azione era rivolta contro i sindacati, i comunisti, l’insieme del movimento popolare democratico. Si strizzò l’occhio ai protagonisti di quelle imprese. Ebbene oggi quella violenza si è tradotta in una violenza più aperta, esplicita: la violenza delle armi. I fatti di Roma e Bologna hanno confermato che esistono nel paese formazioni squadristiche organizzate su scala nazionale, «abilmente e freddamente dirette» che si inseriscono in un movimento confuso, abusano della tolleranza che ricevono – o che hanno ricevuto fino ai disordini dell’11 e del 12 marzo – per portare avanti un piano di aperta eversione antidemocratica. Un punto perciò deve essere netto, chiaro, senza ombra di compromessi: non è ammissibile in alcun modo e in nessun momento che vi siano giustificazioni, tolleranze, e tanto meno comprensione e difesa di chi fa uso delle armi, di chi spara e saccheggia, arrivando – e lo diciamo con aperto, sottolineato sdegno – a usare l’aggettivo «proletario».
    Questa logica, e una tolleranza nei suoi confronti, disgrega la democrazia, si fa, essa sì, portatrice della repressione e del fascismo. C’è in Italia ormai un «partito» paramilitare, armato che opera e in cui confluiscono sbandati, provocatori, mestatori, demagoghi, di destra o di delirante estremismo, e che è parte, espressione e strumento insieme, di un disegno antirepubblicano. Ebbene, questo «partito» della violenza va sconfitto, battuto.
    Come si reagisce a questa ondata di violenza e si difende l’ordine democratico, senza cadere nella repressione? Nel nostro Comitato centrale è stato detto con nettezza che se si vuole spezzare la spirale eversione-repressione (che è il trabocchetto in cui ci vuole far cadere il nemico) bisogna respingere l’idea di una «autodifesa armata» da parte del movimento democratico ed operaio. A difendere le libertà, la democrazia e la convivenza civile debbono essere le forze dello Stato repubblicano. Non possono esserci equivoci su questo punto. Conosciamo le diffidenze storiche verso l’apparato statale, che sono antiche, quanto antico è l’uso antipopolare di esso. Sappiamo che ci sono storture, inquinamenti e anche provocatori all’interno di questi apparati. Ma la lotta per un giusto orientamento delle forze dell’ordine pubblico è possibile se sarà condotta in modo unitario, in presenza di una pressione popolare di massa, in collegamento con le forze migliori di questi apparati, e se si svolgerà sul terreno degli indirizzi e della direzione politica.
    Occorre quindi una riflessione più di fondo sulla strategie e sulle piattaforme dei vari settori che si richiamano al «movimento studentesco» e di certi gruppi che in questi anni hanno combattuto, negato o sottovalutato due esigenze essenziali e complementari: l’unità, nella sua articolazione, del movimento operaio e la difesa del regime democratico, così come è stato disegnato dalla Costituzione.
    Queste considerazioni ci riportano però al discorso sugli indirizzi generali, sul governo del paese, sulla soluzione da dare ai gravi problemi aperti, sul rinnovamento e la moralizzazione della vita pubblica.
    Apparentemente, fra l’aspro dibattito parlamentare sulla vicenda della Lockheed e le manifestazioni degli studenti, con le provocazioni che le hanno accompagnate, non c’è correlazione. E invece la correlazione c’è ed è strettissima. Se si vogliono battere i gruppi avventuristici è necessario isolarli e, per isolarli, è necessario dare soluzione ai problemi e dare una immagine della Repubblica che non sia quella fornita in questi anni dai governi diretti dalla Dc. Il dibattito sullo scandalo della Lockheed ha messo in evidenza la resistenza della Dc a operare quei mutamenti che corrispondano a questa esigenza.
    Non ci riferiamo alla difesa che è stata fatta di Gui, ma alle motivazioni che si sono date a questa difesa e alle indicazioni politiche ricavate dal dibattito e dal discorso dell’on. Moro, alle reazioni della Dc, alle decisioni del Parlamento. Il Popolo ha scritto che la «innocenza di Gui è stata provata e che solo il prevalere rigido delle scelte politiche freddamente determinate l’ha potuta mortificare». «È stata provata». Ma da chi? Quello che dice la Dc è legge? «Il prevalere rigido di scelte politiche» viene rimproverato da chi ha rovesciato in aula il giudizio dato su Tanassi dall’Inquirente – senza che siano intervenuti altri fatti – per cercare proprio di fare prevalere uno schieramento. E cosa sottintende il pesante rimprovero mosso al Psi, al Pri e al Pli «di avere corrisposto alla spinta impressa dal Pci verso la rigidità assoluta degli schieramenti», quando la Dc aveva esaltato il «limpido» atteggiamento di questi partiti che non avevano firmato col Pci per l’incriminazione di Rumor? Bisogna stare sempre e comunque con la Dc, altrimenti si corre il rischio di essere scomunicati?
    Questi commenti sono venuti dopo il discorso di Moro che aveva riproposto la Dc come il centro di un sistema stellare attorno al quale non possono esserci che satelliti e senza il quale tutto crolla. È il discorso che abbiamo sentito altre volte, quando si è parlato del Sifar e del Sid, dell’antimafia e dei saccheggi delle città. Quando esplose lo scandalo di Agrigento – ottobre ’66 – il Popolo scrisse che l’accusa «investe tutta intera la Dc, tutta intera la sua classe dirigente, tutte le sue scelte politiche di fondo». Tutto ciò, aggiungeva il giornale dc, «non è tollerabile». È il discorso di Moro dopo circa dieci anni.
    Il discorso di Moro è stata da taluni interpretato come l’apertura di una nuova fase politica, quella del «dopo-Andreotti». È così? In ogni caso, diciamo subito che il «dopo-Andreotti» non può significare l’invenzione di nuove formule o almeno solo di formule di governo. A quali contenuti pensa la Dc? E – prima di tutto – pensa a una politica di contrapposizione o di convergenze democratiche?
    L’on. Moro ha detto che queste convergenze, se ci sono, non possono che avere al centro la Dc e il suo sistema di potere e che questa è l’ispirazione politica che ha animato la Dc e i suoi governi in questi trent’anni. È il discorso della «continuità», è il discorso che lo stesso Moro fece al Psi avviando la politica di centro-sinistra e che il Psi pagò con una frattura al suo interno, con la rottura a sinistra e con un allentamento dei suoi legami di massa. È un discorso che è stato pagato da tutto il paese e che ha lasciato irrisolti i problemi drammatici che abbiamo davanti.
    Ma questa impostazione è stata battuta nel Parlamento il quale, aldilà dei casi personali esaminati (che saranno ora giudicati dai giudici previsti dalla Costituzione), ha affermato che non è vero che le esigenze della Dc coincidono con quelle della democrazia e che la giustizia debba essere piegata a quelle esigenze. No. La Dc è un partito come gli altri e non è più possibile mantenere un patto di «omertà» in nome «dell’area democratica». Noi vogliamo sperare che questo voto abbia fatto riflettere l’on. Moro e quei democristiani che da un canto avvertono l’esigenza di un mutamento e dall’altro pensano che esso possa avvenire senza mettere in discussione la Dc e il suo ruolo, così come si è configurato in questi trent’anni. E invece è proprio questo ruolo in discussione, non l’essenzialità dell’apporto della Dc allo svolgimento democratico del paese. Anzi, proprio perché siamo convinti della essenzialità di questo apporto e dell’urgenza dei problemi che premono, sollecitiamo i dirigenti dc a guardare con realismo e senso di responsabilità all’avvenire della democrazia italiana. I dati sono chiari: la Dc non può governare senza il Pci, questo non può governare senza la Dc, entrambi non possono governare senza il Psi e l’apporto di altre forze laiche e democratiche.
    Se non si parte dal riconoscimento di questa realtà, che è la realtà uscita dalle urne il 20 giugno, allora vuol dire una cosa sola, comunque la si mascheri: il tentativo di una rivincita, magari attraverso nuove elezioni anticipate. Ora, se questo è stato sempre un evento traumatico nella vita del paese, non occorre molto per intendere che cosa vorrebbe dire oggi, mentre sono in opera forze eversive che puntano allo scontro, attentano alla stabilità delle istituzioni democratiche, giocano la carta della guerra civile. Sarebbe un atto di totale irresponsabilità politica.
    Anche dai fatti di questi giorni esce dunque una lezione chiara e precisa. Andare avanti e oltre l’attuale situazione politica non è soltanto necessario, ma è anche l’unica strada possibile per garantire la democrazia e la Repubblica e per affrontare gli stessi drammatici problemi della condizione giovanile. E andare avanti, significa oggi una svolta democratica che, col contributo dei comunisti, dia al paese una nuova direzione politica.

    Emanuele Macaluso
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