di Marco Gervasoni

Negli anni tra il 1976 e il 1979 gli articoli di «MondOperaio» operano una trasformazione dei valori della cultura socialista. Il liberalismo, come filosofia politica che pone l’individuo e i suoi diritti al centro della riflessione, viene riscoperto come valore fondamentale senza il quale il socialismo non può nulla. Peggio, esso rischia di trasformarsi in una pratica autoritaria e burocratica se non tiene conto che la lotta per l’incremento della giustizia sociale deve andare di pari passo con quella per l’estensione e la difesa delle libertà individuali. Qui il nume tutelare è Bobbio che, non a caso, in quegli anni scrive intensamente sulla rivista. Per gli intellettuali di «area socialista», Bobbio rappresenta il modello da seguire, con il suo «sapere impegnato», «più preoccupato di seminare dubbi che di raccogliere consensi».1
Dal canto suo il filosofo torinese riprende a riflettere su un tema a lui caro, quello del rapporto tra politica e cultura, e propone una «autonomia relativa della cultura rispetto alla politica» secondo cui «la cultura non può né deve essere ridotta integralmente alla sfera del politico».2 Altri, come Luciano Cafagna, invocano una «cultura del relativismo» contro una «cultura dell’assoluto» che contiene sempre un’«insidia totalitaria», per cui la sinistra dovrebbe smettere di ragionare per «sistemi»; al contrario, «una visione relativistica deve definire precisi connotati empirici agli obiettivi che si vogliono conseguire e una valutazione realistica dei rapporti mezzi-fini».3
Ne deriva l’accentuata polemica contro la «cultura comunista» che, forse, si è democratizzata, ma non in senso liberale. Si recuperano i lavori dei politologi e dei sociologi che, dal dopoguerra, hanno riflettuto sul tema del totalitarismo. I rischi per l’individuo sono però presenti anche nella cultura della socialdemocrazia, troppo ancorata allo statalismo e al mantenimento di un partito burocratizzato che, pur nel rispetto della legalità, tende sempre di più a invadere le sfere del sociale. Da qui anche la riflessione sulla crisi dei partiti politici e sul ruolo esercitato, nello specifico italiano, dalla «crisi della Repubblica». E ricerca di riforme istituzionali che possano condurre a uno Stato più efficiente e meno interventista nei confronti della società civile. Individuo e società civile sono i due concetti cardine di questo revisionismo socialista. Il terzo è quello di «modernizzazione», meno nuovo – la cultura socialista, anche nelle sue frange rivoluzionarie, si è definita come «modernizzatrice» – ma anche qui coniugato in un senso preciso. Ancora negli anni Sessanta gli scritti di Giolitti e di Guiducci parlavano di modernizzazione facendola coincidere con un fine chiamato «società socialista». Ora però il revisionismo socialista sospende il discorso sul fine. La «modernizzazione» va praticata e condotta non tanto per giungere a una società socialista, quanto per rendere più equa e giusta, ma anche più dinamica e «aperta», la società attuale, quella democratica. L’orizzonte della democrazia è inteso come insuperabile; compito dei socialisti è di introdurvi elementi di eguaglianza ma anche di libertà e, soprattutto, di regolare le incipienti trasformazioni della società e dell’economia.
Mai come prima di allora gli intellettuali socialisti assumono un ruolo di primo piano nel dettare l’agenda politica del partito, non tanto perché si trovano all’interno delle sfere dirigenti, ma perché ne scrivono il programma. Il punto massimo di questo incontro è costituito dal Congresso di Torino del 1978, con il trionfo del «programma socialista» steso da larga parte dell’equipe di «MondOperaio» ed elaborato dal Centro studi del PSI durante un seminario a Trevi nell’ottobre 1977. L’equipe di «MondOperaio» è costituita in parte da figure già avvicinatesi all’area socialista negli anni Sessanta, in parte da uomini di cultura che negli anni precedenti hanno abbandonato il Partito comunista, e in parte da intellettuali che hanno svolto le loro prime esperienze – anche ideologiche – all’interno della nuova o dell’estrema sinistra. Proprio perché il revisionismo socialista tocca i valori e la loro storia, gli intellettuali che intervengono nel dibattito aderiscono a un discorso di tipo umanistico. Sono filosofi della politica (Norberto Bobbio, Paolo Flores d’Arcais, Luciano Pellicani), storici (Luciano Cafagna, Ernesto Galli della Loggia, Massimo L. Salvadori, Furio Diaz), giuristi (Giuliano Amato, Federico Mancini, Gino Giugni), ma non mancano politologi e sociologi (Roberto Guiducci, Gianfranco Pasquino) ed economisti (Franco Momigliano, Antonio Pedone, Giorgio Ruffolo).
Il nuovo segretario, Craxi, non potrebbe chiedere di meglio. Rispetto al suo predecessore, De Martino, chiamato il «professore», non si ritiene né può essere considerato un intellettuale, anche se il suo interesse per la storia è genuino e sincero. Semmai Craxi difetta in filosofia e in ragionamento socio-politologico, quindi è d’accordo a farsi suggerire temi per attaccare anche su un piano teorico il comunismo e il marxismo. Ma gli intellettuali sono un’estrema risorsa per il PSI del nuovo corso, perché si trovano a dare una cornice e un’identità a una serie di proposte politiche che Craxi e la sua maggioranza, per il momento abbastanza composita tra autonomisti, ex demartiniani e lombardiani, sono costretti a elaborare empiricamente, giorno per giorno. Per l’obiettivo di Craxi in quel momento, quello di rompere il compromesso storico, le riflessioni degli intellettuali sono una continua fonte di legittimazione. Un’azione politica indispensabile alla sopravvivenza del PSI diventa un’opera culturale per la sua modernizzazione, e poi per il rinnovamento della sinistra tutta.

Craxi e gli intellettuali

L’idillio tra Craxi e gli intellettuali si spezza nel 1979. La crisi del compromesso storico non porta all’alternativa socialista, bensì al possibile ritorno del PSI nell’area di governo. Questa scelta rompe gli equilibri interni della maggioranza che regge Craxi.4 Il nuovo segretario socialista ha preso sul serio il discorso sulla modernizzazione degli intellettuali e gestisce il partito in maniera più verticistica che in passato. I primi rimproveri gli sono mossi da Giuliano Amato, per il quale Craxi non segue la linea programmatica, rifugge dalle analisi e interviene solo attraverso interviste non concordate, lasciando a tutti gli altri il ruolo di «corifei».5
Il partito che gli intellettuali di «MondOperaio» hanno chiesto di riformare al più presto resta invece più o meno lo stesso, con il correlato di clientelismo e di burocratismo, a cui si è aggiunta una «gestione personale e il settarismo di gruppo». È tutto questo e, soprattutto, il fatto di aver abbandonato il «progetto socialista» approvato a Torino, che gli intellettuali di «MondOperaio» rimproverano a Craxi. Essi scrivono un manifesto e lo pubblicano nel bel mezzo della battaglia interna al PSI per far cadere Craxi. Nel manifesto si indica come urgente una «riforma culturale » e «morale» per dare «vigore, competenza e moralità» al mondo politico. Poche settimane dopo seguirà un altro documento degli intellettuali, ancora più duro nella critica alla gestione del partito.6
Altrove Bobbio, uno dei più autorevoli tra i firmatari del manifesto, in un’intervista a Giorgio Bocca – che da lì a qualche settimana annuncerà la sua uscita dal PSI7 – critica Craxi per aver abbandonato il progetto e per averlo sostituito con «una politica del giorno per giorno». Per Bobbio però la questione è più vasta, e riguarda il rapporto tra intellettuali e politica. La difficoltà a intendersi tra intellettuali e politici è data dalla reciproca «deformazione professionale», sebbene Bobbio ritenga che nel Partito socialista essa possa essere corretta.8 Un altro firmatario del manifesto, Furio Diaz, spiega l’insofferenza di Craxi alle critiche perché provenienti da «forze e individui non del tutto coinvolti nel quadro politico ufficiale».9 Per Bobbio e soprattutto per Diaz, tutt’ora tra i principali intellettuali di area socialista, si tratta del consueto conflitto tra politica e cultura, ed è illusorio pensare che nel PSI questo si sia risolto a vantaggio degli intellettuali.
Interessa riportare la risposta di Craxi al primo manifesto, come esempio della rivendicazione del livello politico come suprema istanza decisionale rispetto al livello intellettuale e come ritorno del classico topos che vede il politico rimproverare gli intellettuali per astrattezza, ingenuità e assenza di spirito realistico. Semmai Craxi introduce una novità nel rapporto tra sfera politica socialista e intellettuali, poiché afferma che gli intellettuali sono come tutti gli altri militanti, non compongono un «ordine sacerdotale», «dotato del potere di condannare o di assolvere» e la loro parola non è portatrice di una valenza superiore a quella degli altri iscritti. Le idee possono e devono venire da tutti i militanti, e quindi anche dagli intellettuali, ma senza che «tale funzione sia delegata a un gruppo specifico».10 Per la verità, i firmatari del manifesto non avevano rivendicato tale supremazia e avevano chiarito che era ben lungi da loro l’idea – ancora assai presente in casa comunista – dell’intellettuale come portatore dell’universale. Come ricorderà Giorgio Ruffolo in un intervento nel breve dibattito che si aprirà sull’«Avanti!» nelle settimane successive, essi si sono sentiti legittimati a esprimersi in quanto elaboratori del programma socialista. Altri invece, come Luciano Pellicani, scriveranno che l’iniziativa del manifesto, pur ricca di buone intenzioni, è tuttavia fallimentare se ha dato l’idea di una rivolta degli intellettuali e di un loro tentativo di contribuire al cambio di segreteria: l’intellettuale socialista deve essere autonomo dai «politici di professione», non si lascia trasformare in «supporto ideologico» e però, proprio per questo, «non deve immischiarsi nella lotta per la leadership».11
Vi sono state tuttavia delle mosse in tal senso, e il secondo manifesto va in questa direzione, spiegando la presenza di alcune nuove firme e la defezione di altre. Lo scontro è perciò meno tra politica e cultura astrattamente intese quanto, tra larga parte degli intellettuali socialisti, riuniti in quanto tali in una sorta di improvvisa corrente,12 e la dirigenza politica.
Si è aperto comunque un vulnus tra Craxi e gli intellettuali, almeno con quella parte che si ritrova in «MondOperaio». Questo senza che le posizioni della rivista schiaccino le singole identità e senza che si prenda sempre una posizione pregiudiziale nei confronti del segretario, nonostante la durezza di alcuni articoli. Craxi reagisce alla mossa degli intellettuali di qualche mese prima esercitando le prerogative del politico, cioè minacciando di chiudere i fondi agli intellettuali critici nei suoi confronti e alla stessa rivista «MondOperaio». Nell’aprile 1980, dopo che il PSI è ritornato al governo, viene chiuso «per mancanza di fondi» il Centro culturale «MondOperaio», diretto da Paolo Flores d’Arcais, che accusa Craxi di intolleranza, per l’articolo che egli ha scritto «contro l’ingresso al governo del PSI».13 L’intellettuale «disorganico» che non deve smettere di esercitare il proprio «dissenso», come aveva scritto Claudio Martelli14 – che ha tuttavia definito «congiurati» i firmatari del secondo manifesto15 – ritrova qui il consueto dilemma tra appartenenza politica ed esercizio della critica.
Nei mesi successivi alcuni smetteranno di scrivere sulla stampa socialista, prendendo a criticare su altre colonne con maggiore libertà il PSI, mentre altri si avvicineranno al segretario. Il quadro è mutato, il PCI appare ora assai meno presentabile di prima, tra inviti all’occupazione della FIAT e manifestazioni pacifiste favorevoli al disarmo unilaterale, di fronte all’installazione di nuovi missili sovietici puntati sull’Europa occidentale. Proprio il panorama internazionale, di ripresa della guerra fredda, sembra ormai rendere necessario il ritorno del PSI al governo di coalizione.
Gli intellettuali ora si chiedono quale debba essere il ruolo del PSI in una tale fase. Da qui lo spunto per una riflessione programmatica che debba dare al PSI una veste di partito non più per l’alternativa ma concorrenziale alla Democrazia Cristiana, al governo ma non schiacciato in difesa dello status quo. Un partito capace di riformare il sistema, emendandolo dal carattere partitocratrico, dal clientelismo, dal consociativismo, dalla presa dello Stato sulla società. L’occasione per il rilancio degli intellettuali è dato dalla conferenza di Rimini del 1982, che costituisce il trait d’union tra la riflessione valoriale degli anni 1976-1979 e il suo tentativo di messa in opera. Qui i sociologi, i politologi e gli economisti hanno il proscenio, poiché si tratta di scoprire i caratteri nuovi della società italiana. Nelle relazioni di Federico Coen e di Giorgio Ruffolo, di giuristi come Federico Mancini, Enzo Cheli, Gino Giugni, Massimo Severo Giannini, di sociologi come Alberto Martinelli, Francesco Alberoni, Luciano Gallino, Luciano Benedusi, Giovanni Bechelloni, «post industriale» è lo slogan più diffuso: il PSI deve farsi partito rappresentativo di nuovi soggetti sociali, dai piccoli imprenditori ai professionisti, quel mondo «produttivo senza voce» a cui i socialisti intendono fornire visibilità.16
Soprattutto nelle relazioni di Alberoni e di Martelli (che qui lancia lo slogan dell’«alleanza dei meriti e dei bisogni») l’accento è posto sulla società degli individui, la cultura politica socialista riformista deve rispondere alle richieste dei singoli in una prospettiva di regolazione che non soffochi le diverse spinte che vengono dalla società. Rispetto al programma del 1978 troviamo una interazione tra intellettuali e politici, con interventi alternati degli uni e degli altri, mentre il legame con la tradizione è assicurato dalle relazioni degli storici, Arfè e Tamburrano.17

La cultura socialista praticata

Nonostante le franche, e a tratti ruvide, parole di Craxi all’indirizzo degli intellettuali, il PSI dal 1978 in poi è interessato a riforme che tocchino il mondo delle culture. L’attenzione è portata in primo piano verso le culture di massa e i mass media in particolare.18 Nel novembre 1978 il responsabile Cultura e informazione del partito, Claudio Martelli, organizza un convegno su «Informazione e potere». Martelli rivendica un pluralismo culturale a cui si può giungere, tanto nel giornalismo quanto nella televisione, attraverso l’apertura al mercato e la formazione di un sistema a «economia mista».19 Al convegno intervengono anche Franco Bassanini, Massimo Pini e Giuliano Amato. Vengono da quest’ultimo le critiche più sferzanti all’occupazione partitica della RAI. «La RAI – dice Amato – deve smettere di essere un governatorato politico-romano della cultura, ma ha bisogno di un incisivo riassetto». La commissione parlamentare deve essere solo «un organo di controllo», mentre il consiglio di amministrazione «i programmi li lasci fare ai dirigenti, salvo poi licenziarli, e cerchi di dare all’azienda una gestione finanziaria più solida».20
Fin da subito il PSI rivendica spazio per le televisioni private, mentre si dichiara insoddisfatto della recente riforma della RAI, che dovrebbe essere resa il più possibile autonoma dalla sfera politica adottando criteri manageriali. Tra tutti, Walter Pedullà, italianista, critico letterario nonché consigliere d’amministrazione RAI, scrive che la riforma è insufficiente perché non si è posta l’obiettivo più grande, quello di offrire un quadro di «regolazione» che garantisca ai cittadini il pluralismo culturale e che perciò prenda in considerazione anche le radio e le televisioni private.21 Posizioni del genere saranno avanzate l’anno successivo in un convegno sui rapporti tra cinema e televisione, «Quella parte di cinema chiamata televisione», sempre organizzato da Martelli. Riprendendo leconsiderazioni di Amato, Martelli propone una riforma RAI in cui «il potere politico deve intervenire con autorità una sola volta, ogni cinque anni, dopo le elezioni e poi lasciare che l’azienda venga amministrata concriteri manageriali e imprenditoriali».22 Un interesse si riscontra poi nei confronti della legge per il teatro.23
Sempre in tema di pluralismo dell’informazione, l’anno precedente al club Turati di Milano si è organizzata una «Lega per la libertà dell’informazione » a cui hanno aderito i principali intellettuali e giornalisti di area socialista. Essa richiede di «limitare l’espansione burocratica del monopolio pubblico e i processi di concentrazione degli oligopoli privati », per giungere a un vero «pluralismo tra pubblico e privato».24 Sono battaglie compiute in particolare da Walter Tobagi all’interno della Federazione nazionale giornalisti italiani, che portano a rotture prima di tutto con la componente comunista e che espongono l’inviato del «Corriere della Sera» a una visibilità che contribuirà a costargli la vita.25
Nello stesso tempo la nuova segreteria cerca di sostituire, all’interno della RAI, dirigenti e giornalisti accreditati nell’era De Martino. In tal senso vanno le critiche al presidente della RAI, Paolo Grassi che, a sua volta, lamenta un’interferenza crescente del potere politico sull’azienda.26 Al TG2 il direttore Andrea Barbato e il suo vice, Giuseppe Fiori, sono spesso criticati dall’«Avanti!» per le loro posizioni non in linea con la nuova segreteria socialista, soprattutto in tema di compromesso storico e di linea della fermezza.27 Da lì a poco Barbato sarà sostituito daUgo Zatterin. Anche qui, come in quasi tutti gli altri settori, il PSI vive la discrasia tra la propria visione strategica – in cui la modernizzazione dell’Italia passa attraverso la diminuzione del potere partitico e una maggiore libertà lasciata alla società civile e al mercato come generatore di pluralismo – e la pratica quotidiana che lo costringe, in nome della governabilità, ad accettare costumi pure denunciati pubblicamente. Una contraddizione segnalata da quasi tutti gli intellettuali di «MondOperaio», molti dei quali, poi, non tollerano il leaderismo di Craxi, il suo stile tribunizio, il suo parlare franco e, all’epoca, giudicato «antipolitico» e un po’ populistico, così come non amano l’attenzione sempre più marcata del partito verso la televisione e la presenza alla corte del segretario di figure sempre più equivoche, da un punto di vista culturale «alto».28
Il mancato balzo del PSI alle elezioni del 1983 fa nascere numerose perplessità presso gli intellettuali, ma non impedisce a Craxi di guidare un governo nel quale saranno introdotte alcune riforme che toccheranno il mondo della cultura, da una nuova legge sull’editoria a una riforma delle leggi sullo spettacolo. La legge Corona viene superata da un nuovo pacchetto di leggi (il ministro del turismo e dello spettacolo è Lelio Lagorio), che prevedono l’aumento degli stanziamenti statali nella produzione e nella distribuzione degli spettacoli, una riorganizzazione del mercato culturale attraverso la creazione di un Fondo unico per lo spettacolo, l’apertura al finanziamento dei privati, soprattutto nell’allestimento di opere teatrali e musicali.29
La legge sarà criticata dal PCI per l’accentramento in mano al governo di decisioni prima lasciate agli enti regionali e per la supposta «privatizzazione » della cultura. Essa tuttavia segnerà negli anni successivi un incremento degli investimenti pubblici soprattutto nel settore cinematografico e di prosa. Anche in questa legge si può cogliere quella discrasia notata in precedenza: essa è infatti un composto di accentramento e di apertura al mercato, offre al governo maggiori occasioni per controllare il settore dello spettacolo, ma al tempo stesso si configura come un’opportunità per lasciare agli operatori di quel mondo una maggiore autonomia. Tale ambiguità sarà denunciata da uno dei successori di Lagorio allo stesso dicastero, il socialista Franco Carraro, critico del funzionamento del Fondo che, da «strumento di stimolo e promozione ha finito, a volte, per trasformarsi in fonte di reddito, in un intreccio spesso inestricabile tra sovvenzioni statali regionali e comunali».30

La fine del governo Craxi e l’addio di una parte del mondo intellettuale

Un’ulteriore, più netta, rottura tra il PSI e i «suoi» intellettuali è riconducibile al 1987, data che corrisponde all’incirca con la fine del governo a guida socialista. Dalle colonne de «La Stampa», Norberto Bobbio, già nume tutelare degli intellettuali socialisti, rampogna Craxi per una supposta vacuità del documento programmatico da portare al Congresso di Rimini,31 così come Ernesto Galli della Loggia, che critica il partito per essersi adagiato sulla conservazione dell’esistente in materia di riforma istituzionale.32
Craxi, sia pure con risposte un po’ brutali, non nega il dialogo con Bobbio, scrive una lettera al giornale e invita, come aveva fatto nella polemica del 1979, gli «uomini di cultura» non pregiudizialmente ostili ai socialisti a collaborare nella stesura del programma.33 A sua volta il filosofo torinese, dopo aver ribadito di voler continuare a scrivere sulla stampa socialista, lamenta che le sue idee non siano più prese in considerazione, benché siano le stesse di dieci anni prima.34
A offrire interventi e prospettive sulle pagine del quotidiano socialista sono ora, rispetto agli anni precedenti, figure come Gianni Baget Bozzo, Vittorio Strada, Lucio Colletti, oltre al nuovo direttore di «MondOperaio», Pellicani. A rivendicare però, all’indomani della caduta del governo Craxi e a ridosso del convegno di Rimini, l’importanza dell’operare socialista nel campo della cultura è Walter Pedullà. Illustrando i meriti della legge sull’editoria proposta dal governo Craxi, in direzione di apertura al mercato, Pedullà rivendica alla «cultura socialista» di essere sempre stata «un’avanguardia di cui hanno beneficiato anche i comunisti, ai quali hanno indicato le strade di una marcia cui essi hanno più tardi partecipato col grosso del loro esercito». Non solo, il governo Craxi ha dimostrato di essere anche nel modo di governare una «novità culturale» proponendo, a dire di Pedullà, una sorta di «governo d’opposizione», un governo «conflittuale per non farsi intrappolare dentro una logica che alla ripetizione fa sempre seguire la conservazione».35 Parole forse poco profetiche, se è vero che Craxi, dopo aver guidato uno dei governi nelle intenzioni, se non nei risultati, più dinamici dell’Italia repubblicana, proprio negli anni successivi entrerà politicamente in una fase di stasi da cui non uscirà più.36
Il riconoscimento dei meriti della cultura socialista non cela il fatto che si è scavato un fossato tra il PSI e il mondo intellettuale assai più grave che negli anni precedenti. Gli intellettuali un tempo socialisti sono in larga parte entrati o ritornati nel PCI, come Pasquino o Salvadori, cercando di suggerire a Botteghe Oscure quelle stesse idee e proposte che anni prima hanno cercato di introdurre nel PSI e lamentando che, a fronte di «documenti significativi e analisi raffinate» degli intellettuali socialisti, il PSI ha «seguito un’altra strada».37 Sarebbe tuttavia fuorviante trovare cause generali che hanno portato alla diaspora il gruppo di «MondOperaio», dato che le prese di distanza e gli allontanamenti sono avvenuti in tempi, in modi e forme diversi. Sta di fatto però che, alle elezioni del 1987, figure importanti dell’intellettualità socialista sono candidate nelle liste della sinistra indipendente, e fra queste Antonio Giolitti, Gaetano Arfé, Federico Coen, Giorgio Strehler,38 gli ultimi due ancora pochi mesi prima presenti nell’Assemblea nazionale socialista.

Cultura socialista e politica spettacolo

Le parole di Giolitti, invocanti la costruzione di una cultura socialista capace di elaborare un «programma» da offrire poi alla classe politica, sembrano di un candore estremo. Che Craxi concepisca a modo suo il rapporto tra politica e cultura, in una direzione tuttavia lontanissima da quella proposta da Giolitti, è chiaro da moltissimi segni. Quella pensata e praticata da Craxi e dal PSI è una cultura politica attenta più ai codici e ai ritmi rapidi della trasmissione visiva che non alle forme tradizionali della comunicazione politica scritta, secondo tendenze però caratteristiche anche in altri paesi, che coinvolgono sia governi di destra, come quelli Reagan e Thatcher, sia di sinistra come quelli Mitterrand e Gonzales. La decisione, presa al Congresso di Verona, di sostituire il vecchio comitato centrale con l’Assemblea nazionale, aperta alla società civile, e quindi anche agli intellettuali, agli uomini di cultura è, perciò, del tutto coerente con la nuova cultura socialista, in cui l’intellettuale è uno fra i tanti soggetti della società civile che devono potere dire la loro sul partito e offrire idee e proposte. In un convegno sulle nuove professioni, tenuto nel 1984, si è già individuato un ruolo importante alla intellighenzia nella società moderna, purché essa sia intesa alla stregua di professionisti che vivono e operano nel mercato.39
Su questa linea è Martelli a insistere sul tramonto della figura tradizionale dell’«intellettuale», «custode dei valori e dei principi» mentre è in espansione una nuova figura di intellettuale fatta da «professionisti, operatori, tecnici» legati alla «società dell’informazione». Il braccio destro di Craxi si spinge a proporre un ministero della cultura che possa, tra le altre cose, fornire un «canale istituzionale adeguato» all’«immenso mondo delle istituzioni culturali, dell’arte, della scrittura della ricerca, dell’informazione stampata e televisiva», un dicastero che operi da propulsore e da stimolo per lo sviluppo culturale.40
A scorrere la lista degli appartenenti all’Assemblea nazionale socialista nel 1987, gli intellettuali in senso tradizionale (soprattutto sociologi, storici e giuristi) hanno tuttavia la prevalenza quantitativa, la presenza di Vittorio Gasmann e di Maurizio Scaparro non sorprende, semmai la vera novità è rappresentata da uno stilista come Trussardi.41 Vi sono poi numerosi uomini di spettacolo, a cui la stampa socialista dedica spazi speciali («tutti i garofani del mondo dello spettacolo»),42 anche se, come si è visto, non comincia negli anni Ottanta il flirt tra il PSI e il mondo dello spettacolo. Ora, tuttavia, è più accentuata la sua rilevanza perché l’intreccio tra il mondo della politica e quello dello spettacolo è considerato dalla dirigenza socialista come uno dei vari, e non necessariamente discutibili, imperativi della società post-industriale e della «modernità».
A rappresentare la «cultura socialista» vengono in primo piano figure legate alle sfere delle arti dello spettacolo (con una notevole caduta di interesse da parte di registi e di attori), a quella delle arti plastiche, come architetti e critici d’arte (Paolo Portoghesi, Achille Bonito Oliva), mentre gli intellettuali legati alle scienze sociali tengono un ruolo di secondo piano e di scarsa visibilità. Nella «cultura socialista» ora l’elemento visivo e spettacolare ha la priorità su quello discorsivo. Da un punto di vista di antropologia della politica, vanno considerati un momento di cultura anche le coreografie, i gadget, le immagini di Bettino diffuse a piene mani nei convegni, la cui apoteosi è raggiunta nei due convegni di Rimini del 1987 e di Milano Ansaldo nel 1989. Una serie di manifestazioni che rimandano più alla kermesse e alla convention dei partiti statunitensi, come già si è fatto notare in occasione del meno rutilante Congresso di Palermo del 1981,43 ma che svolgono per ciò stesso una funzione propagandistica, capace di attrarre i mass media e l’attenzione generale per vari giorni. La forma in cui sono organizzati è il messaggio, poiché essa rimanda all’immagine di potenza, di sicurezza, di modernità e al tempo stesso di legame con la tradizione.
Dalla seconda metà degli anni Ottanta, con un curioso paradosso della modernizzazione, a creare e a diffondere con maggior efficacia l’immagine del socialista mascalzone, trafficone e vacuo, riflesso politico di una certa leggerezza di questo decennio, sono proprio quelle sfere di cultura di massa a cui il PSI ha fin dagli anni Sessanta prestato attenzione. A ledere l’immagine del PSI sono assai meno le critiche di Bobbio, o gli interventi di Natta o di Occhetto, quanto la satira, sia quella dell’inserto dell’«Unità», «Tango», sia quella televisiva. Come nel film «Il portaborse» di Daniele Luchetti (1991) con Nanni Moretti e Silvio Orlando, dove del ministro mascalzone (Moretti) non si dice mai l’appartenenza socialista, ma tutti i segni rimandano allo spettatore il legame dell’eroe negativo a quel partito. Il conflitto tra l’eroe negativo e quello positivo è quello tra il politico – cinico e realista – e l’intellettuale – in questo caso il professore di liceo di sinistra (collabora all’«Unità») – che per molte ragioni decide di lavorare con il politico per scriverne i discorsi, in un ruolo che non potrebbe essere più subalterno.


Bibliografia

1 G. Bedeschi, Tra cultura e politica, in «Avanti!», 14 novembre 1979.
2 N. Bobbio, Gli intellettuali e il potere, in «MondOperaio», 11/1977.
3 L. Cafagna, È la cultura dell’assoluto che porta al totalitarismo, in «Avanti!», 14 settembre 1978.
4 S. Colarizi, Storia dei partiti nell’età repubblicana, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 598-606.
5 G. Amato, Le prediche di Craxi, in «La Repubblica», 3 ottobre 1979.
6 Cfr. Un documento di intellettuali socialisti, in «Avanti!», 21 ottobre 1979. I firmatari sono Giuliano Amato, Norberto Bobbio, Luciano Cafagna, Giuseppe Carbone, Federico Coen, Paolo Flores d’Arcais, Ernesto Galli della Loggia, Gino Giugni, Roberto Guiducci, Lucio Izzo, Federico Mancini, Guido Martinotti, Franco Momigliano, Antonio Pedone, Luciano Pellicani, Giorgio Ruffolo, M.L. Salvadori, Luciano Vasconi. Il secondo documento in Guzzanti, Compagni, ecco quello che non ci va, in «La Repubblica», 18 dicembre 1979. I firmatari del secondo manifesto sono gli stessi del primo, con l’eccezione di Pellicani e di Vasconi i cui nomi non compaiono più, a cui si aggiungono però Franco Bassanini, Giovanni Carabba, Furio Diaz, Pio Marconi, Gianpiero Mughini, Giovanni Pasquino, Paolo Sylos Labini e Villetti. Bisogna dire che il secondo manifesto è probabilmente finalizzato a intervenire direttamente nella caduta di Craxi e nella sua sostituzione.
7 Cfr. in «La Repubblica», 18 marzo 1980.
8 G. Bocca, in «La Repubblica», 12 gennaio 1980. Bobbio è talmente sentito come uno dei maitre à penser del PSI, che l’«Avanti!» gli dedica una lunghissima intervista (In Europa l’alternativa o è socialistao non è, in «Avanti!», 4 novembre 1979) cui seguiranno numerosi interventi di intellettuali ma anche di politici sulla figura e l’importanza del ruolo di Bobbio.
9 F. Diaz, Tra Craxi e gli intellettuali, in «La Repubblica», 19 dicembre 1979.
10 Craxi, Ecco come si supera la crisi delle istituzioni, in «Avanti!», 28-29 ottobre 1979.
11 G. Ruffolo, Intellettuali del Progetto, in «Avanti!», 31 ottobre 1979; L. Pellicani, Gli intellettuali hanno il dovere della chiarezza, in «Avanti!», 3 novembre 1979.
12 Si tratta dell’Associazione per il progetto socialista. Cfr. P. Guzzanti, Con un appello Craxi vuolecontare chi è ancora con lui , in «La Repubblica», 16-17 dicembre 1979.
13 Guzzanti, Il PSI è sul punto di chiudere “MondOperaio” rivista scomoda, in «La Repubblica», 11 aprile 1980.
14 In un convegno del PSI al Club Turati su «I partiti e la cultura», cfr. C. Martelli, Partiti e cultura, in «MondOperaio», 12/1977.
15 Guzzanti, Compagni ecco quello che non ci va cit.
16 Quasi contemporaneamente a Bologna è organizzato un convegno del PSI sulla piccola impresa, cfr. G. Acquaviva, Una proposta socialista per i ceti economici e dirigenti, in «Avanti!», 13 aprile 1982.
17 G. Arfé, Recuperare la tradizione socialista; G. Tamburrano, Un partito che ha la storia più lunga e più ricca, in Conferenza programmatica del PSI, Rimini 31 marzo-4 aprile 1982, Quaderni de «Il Compagno», Roma 1983.
18 Sul ruolo assegnato alla televisione nella formazione della leadership craxiana cfr. Colarizi, La trasformazione della leadership. Il PSI di Craxi (1976-1981), in Gli anni Ottanta come storia, Rubettino, Soveria Mannelli 2004.
19 Martelli, Autonomia e riforma dei mass media, in «Avanti!», 6 novembre 1979.
20 D. Gh, Vasta convergenza sulle Tesi del PSI, in «Avanti!», 16 novembre 1978.
21W. Pedullà, Un nodo che non concerne solo la RAI ma l’intero sistema dell’informazione, in «Avanti!», 14 novembre 1978.
22 Sassano, Un progetto imprenditoriale, in «Avanti!», 1-2 luglio 1979.
23 P. Guadagnolo, La legge per il teatro: regole e tentativi, in «Avanti!», 19 giugno 1979.
24 Il Comitato costituente è formato, tra gli altri, da Francesco Alberoni, Giuliano Amato, Gianni Baget Bozzo, Giorgio Bocca, Angelo del Boca, Enrico Decleva, Furio Diaz, Vittorio Emiliani, Massimo Fichera (direttore di RAI2), Paolo Flores d’Arcais, Massimo Fini, Francesco Forte, Roberto Guiducci, Ugo Intini, Luciano Pellicani, Arrigo Petacco, Italo Pietra, Mario Pirani, Alessandro Pizzorno, Ruggero Orlando, Franco Momigliano, Mario Pirani, Massimo Salvadori, Walter Tobagi, Brunello Vigezzi. Cfr. Per un reale pluralismo dei mezzi di informazione, in «Avanti!», 12-13 novembre 1978.
25 Queste vicende interne al mondo giornalistico sono rievocate, da punti di vista un po’ diversi, da Ugo Intini (I socialisti, Milano, 2000) e da Vittorio Emiliani (Benedetti maledetti socialisti, Milano, Baldini e Castoldi, 2001).
26 In «Panorama», 2 luglio 1979.
27 Si veda ad esempio un’intervista di Tognoli a «L’Espresso», 13 agosto 1978.
28 La campagna per le elezioni, legislative ed europee assieme, del 1979 vede il coinvolgimento di numerosi artisti del mondo dello spettacolo. Il PSI candida a Strasburgo Strehler e Ottavia Piccolo, e nella manifestazione di sostegno a questi artisti, partecipano, ripresi dalle telecamere, Vittorio Gassmann, Claudio Villa, Gino Bramieri, Adriano Celentano, Nanni Svampa, Caterina Caselli, mentre a Torino, Ornella Vanoni si esibisce di fronte a Craxi e a Willy Brandt (cfr. Novelli, Dalla TV di partito cit., p. 197).
29 AP, Camera, Legislatura, Disegno di legge n. 2222 (Lagorio) 30 ottobre 1984, Nuova disciplina degli interventi di Stato a favore dello Spettacolo, Relazione.
30 AP, Camera, X Legislatura, Relazione sull’utilizzazione del fondo unico per lo spettacolo sull’andamento dello spettacolo, (anno 1987) (Carraro) doc. LXXXII, n. 1, p. 10.
31 In «La Stampa», 8 febbraio 1987.
32 In «La Stampa», 15 marzo 1987.
33 In «Avanti!», 11 febbraio 1987.
34 In «Avanti!», 13 febbraio 1987.
35 Pedullà, Perché il libro non sia più un lusso, in «Avanti!», 15 novembre 1987.
36 Cfr. in questo stesso numero di «Italianieuropei» G. Sabbatucci, Il PSI negli anni Ottanta.
L’esperienza del governo.
37 G. Pasquino, Ma questo garofano non ha radici, in «Rinascita», 11 maggio 1984.
38 Bocca, Il ritorno delle “anime belle”, in «La Repubblica», 10 maggio 1987.
39 P. Barbini, Una proposta socialista ai ceti professionali, in PSI, Vecchie e nuove professioni, Roma 1984.
40 Martelli, La cultura e lo Stato, intervista a cura di M. Accolti Gil, in «MondOperaio», 2/1982.
41 Nell’Assemblea, accanto alle figure appartenenti alla classe politica e imprenditoriale, troviamostorici (Arduino Agnelli, Paolo Bagnoli, Valerio Castronovo, Gaetano Cingari, Enrico Decleva, Giorgio Spini), letterari e critici (Renato Barilli, Carlo Fontana, Armanda Guiducci, Walter Pedullà, Federico Zeri), sociologi (Alberoni, Giovanni Bechelloni, Luciano Benedusi, Alberto Martinelli, Guido Martinotti, Luciano Pellicani, Gianni Statera), artisti plastici (Andrea Cascella), architetti (Paolo Portoghesi), giuristi (Enzo Cheli, Massimo Severo Giannini), economisti (Claudio Dematté, Mario Talamona, Giulio Tremonti), medici (Umberto Veronesi).
42 In «Avanti!», 5-6 aprile 1987. Si tratta di attori, registi e stilisti che hanno preso parte al convegno di Rimini (Piera Degli Espositi, Lea Massari, Adriana Asti, Claudia Cardinale, Pasquale Squitieri, Vittorio Gasmann, Ottavia Piccolo, Lina Wertmuller, Francesco Rosi e Krizia).
43 M. Mafai, Addio cari vecchi socialisti. Questo PSI è targato Milano, in «La Repubblica», 23 aprile 1981.




https://www.italianieuropei.it/it/la...llettuali.html