di Nicola Tranfaglia - «Il Contemporaneo», in «Rinascita», a. XXXVI, n. 28, 20 luglio 1979, p. 14.

C’è una tradizione radicale nella stampa italiana del secondo dopoguerra? E si può dire che una simile tradizione eserciti un’influenza notevole e non episodica tra i militanti della sinistra, non soltanto tra i tecnici e gli intellettuali che fanno capo al partito socialista ma anche tra i comunisti?
L’interrogativo è legittimo, io credo, alla luce degli ultimi avvenimenti, elettorali e non, che hanno caratterizzato l’ultimo quinquennio. Lasciamo perdere le origini storiche di quella tradizione e atteniamoci alla situazione che si determina nel secondo dopoguerra quando la guerra fredda e la contrapposizione frontale tra la Democrazia cristiana e il partito comunista spiazzano strati sociali e gruppi intellettuali che prendono posizione contro il modello comunista staliniano ma nello stesso tempo rifiutano di allinearsi in tutto e per tutto alla crociata cattolica o alla repressione antioperaia che caratterizzano la fine degli anni quaranta e gli anni cinquanta. Paolo Bonetti, uno studioso che ha dedicato qualche anno fa un saggio all’esperienza del Mondo di Pannunzio, il giornale che ha rappresentato senza alcun dubbio l’esempio centrale di quello stato d’animo parla di «ragione e illusione borghese».
Chi ricorda, per essere stato lettore assiduo e magari collaboratore, il giornale di Pannunzio sa che una formula come quella citata non esaurisce il significato e l’importanza del Mondo. Settimanale di minoranza numericamente limitata (prima un’ala progressista del partito liberale, poi il minuscolo Partito radicale di quegli anni), contrassegnato nella sua storia da mini-scissioni, caratterizzate da un moralismo e da un atteggiamento illuministico che a volte risaltava con singolare evidenza (chi non ricorda il titolo dell’editoriale successivo alle elezioni del ’58: «Paese immaturo»?), quel giornale esercitò un’influenza assai più larga delle cifre rappresentate dalla sua tiratura – sia perché impersonò un filone autenticamente liberale, e per certi aspetti libertario, della cultura laica italiana, quella più autenticamente antifascista e meno provinciale sia perché, pur nel suo elitismo e aristocraticismo innegabili, promosse un’analisi della società italiana assai più realistica e critica di quella offerta dai grandi giornali di partito e dalla stessa pubblicistica della sinistra. Se pure ci furono – e non mi sembra il caso di negarlo o di nasconderlo – cadute di tono legate alla difesa dell’atlantismo o a un anticomunismo che in alcuni scrittori appariva pregiudiziale e non giustificato, occorre dire che quelle punte non furono la caratteristica essenziale del settimanale.
Al contrario, prevalse una curiosità storica e politica – se così si può definire – tale da ospitare inchieste, prese di posizione, interventi che non sempre si conciliavano tra loro, che provenivano da matrici ideologiche non del tutto omogenee ma che favorivano una visione antiretorica e antidogmatica della realtà circostante. Fu questa, mi pare, la ragione fondamentale dell’influenza esercitata, del prestigio conquistato. E fu un paradosso nel senso che proprio da una tradizione in fondo elitaria e aristocratica venne, almeno a livello giornalistico, una lezione di realismo e di indagine critica del passato e del presente. A un’esperienza come quella del Mondo si legano, a ben guardare, riviste assai diverse come Nord e Sud o Tempo presente che conducono in quegli anni, con altra periodicità e per lettori solo in parte differenti, una ricerca politica, letteraria e sociologica sensibile alle prospettive del riformismo democratico.
Quel che appare assai significativo in quella tradizione è l’illusione della terza forza, in un primo tempo, del centro-sinistra in seguito. La fine del Mondo diretto da Pannunzio, nel 1966, non fu solo provocata da difficoltà economiche o da stanchezza dei suoi promotori quanto dalla constatazione inevitabile del fallimento di quel progetto politico generale che era alla base del settimanale. Ma dire questo non può voler dire, almeno a mio avviso, che il metodo critico che caratterizzò la vita del giornale fosse da rigettare. Al contrario, quel metodo fu così fecondo e vitale da rispuntare, senza soluzione di continuità e con modalità diverse, nella vicenda dell’Espresso.
Se si mette da parte, infatti, come è necessario all’interno del nostro discorso, la profonda differenza che separa l’una dall’altra testata e la logica diversa che, per diverse circostanze e necessità le caratterizza, si può affermare che la tradizione radicale trova nel settimanale prima di Benedetti, poi di Scalfari, di Corbi, di Zanetti, un’incarnazione nuova; meno aristocratica, più incline a certe sollecitazioni della «cultura di massa», più flessibile (e a volte oscillante) sul piano politico, attenta al «sensazionale» in una maniera inimmaginabile per il Mondo ma in fondo tendente a riproporre tematiche, interpretazioni, battaglie che erano già state di Pannunzio e dei suoi collaboratori.
In un’Italia modificata a fondo dal tramonto del centro-sinistra, dalla crescita massiccia dei comunisti, l’Espresso ha mostrato la capacità di aggregare strati sociali e intellettuali non trascurabili e di influire non poco sull’opinione della sinistra. Le ragioni di tutto ciò? Non mi pare che si possa dare una risposta basata soltanto o prevalentemente sul mestiere giornalistico dei suoi redattori o su fatti tecnici che pure hanno la loro importanza. In realtà, mi pare che si tratti, anche in questo caso, di un bisogno culturale profondo nei militanti della sinistra che è quello di un dibattito critico costantemente aperto sulla società italiana e internazionale, spregiudicato e antiretorico, perfino per certi aspetti dissacrante rispetto alle istituzioni e ai miti della sinistra. Certo, si può aggiungere che nel frattempo il mito della terza forza o del centro-sinistra si è dissolto e che anche l’Espresso ne ha preso atto. Ma al di là della linea politica precisa che la stampa radicale sostiene nell’uno o nell’altro momento, mi pare che conti di più l’impegno culturale che essa pone nell’analisi di una realtà complessa e contraddittoria come quella attuale, ribelle di fronte ad ogni mito come ad ogni trionfalismo.

Nicola Tranfaglia