Nelle cronache politiche degli ultimi anni, in Italia e
non solo, sembra essere popolare un tema ciclicamente ricorrente. Si parla infatti del limite da assegnare alla
libertà individuale con riguardo alla
libertà di espressione e di opinione. In effetti, non è un tema così recente.
Nell’era del trionfo apparente della democrazia liberale occidentale, nell’era preconizzata da Francis Fukuyama, forse un po’ avventatamente, come la “fine della storia” nella sua opera omonima, sembrava che la libertà di espressione non fosse realisticamente un problema operativo all’ordine del giorno. Nessun movimento di opinione concretamente rilevante metteva in discussione i canoni fondamentali dell’ordine politico in vigore. Al di là di occasionali intemperanze, come a Seattle, a Genova e a Napoli, perfino i contestatori della piega presa dalla globalizzazione si riconoscevano nei suoi principi di base.
Questo clima di attesa un po’ inquieta dell’ultimo uomo per come immaginato dallo stesso Fukuyama fu bruscamente interrotta l’11 Settembre 2001. Assieme alle Torri Gemelle crollò l’illusione che la frontiera della globalizzazione fosse una prerogativa riservata a qualche sperduta landa asiatica o africana. Per ragionare in termini politici, ci si accorse della presenza, perfino nel cuore del “mondo occidentale”, di elementi che non si conformavano alla tolleranza reciproca e che, della società aperta, non sapevano che farsene. Da allora, l’ambito di chi è stato giudicato come ostile alla società aperta si è sempre più ampliato, fino ad arrivare alle crisi politiche della fine del secondo decennio del XXI secolo. Tutto ciò non ha fatto altro che approfondire la divisione tra la “società aperta” e “i suoi nemici”. È quindi necessario inquadrare il concetto di “società aperta” da cui discenderanno le considerazioni in merito all’effettiva possibilità di ammettere una libertà di opinione, anche oltre le tesi fatte proprie da
aspiranti grandi burattinai. Il concetto di base di “società aperta” nasce, assieme alla sua antitetica società chiusa, con Henri Bergson nel 1932. Bergson ne “Le due fonti della morale e della religione” individua la società chiusa come il prodotto – predominante nella filosofia europea – del tentativo dell’uomo di razionalizzare e dominare la natura. Riprendendo l’interessante
analisi di Saverio Mariani, la società “chiusa” è collegata a un monoteismo che Bergson definisce “dogmatico”, ma soprattutto concluso in sé stesso, statico e con sogni di eternità. Questo tentativo è descritto da Bergson come connaturato alla natura dell’uomo, e non solo dell’uomo. Qualora invece l’uomo cerchi non di razionalizzare ma di accettare la natura, o meglio ciò che Bergson stesso definisce “
lo sforzo creatore”, allora tanto la religione si apre al misticismo quanto la società, per effetto dell’azione sacra del mistico, compie il salto di qualità «
dalla società chiusa alla società aperta, dalla città all’umanità», mutando radicalmente il suo focus. Dal gruppo, per quanto vasto, all’assenza di gruppi, o almeno di gruppi contrapposti tra di loro. Le conseguenze politiche sono immediate: le società chiuse, identificate nei sistemi apertamente totalitari, vengono configurate come nemiche naturali delle società aperte (o in via di apertura), vale a dire le società liberali. Viene quindi a porsi una inimicizia irriducibile.
È interessante notare che, se lo Stato è prodotto della distinzione tra amico e nemico, allora l’auspicio di Bergson è intrinsecamente anti-statuale, intendendo lo Stato come lo intende Carl Schmitt nel suo saggio “Il concetto di ‘politico’”, e cioè come una “
unità politica organizzata […] chiusa territorialmente e impenetrabile ai nemici». Questo elemento di anti-statualità è importante, rappresentando Schmitt l’alfiere, prima e dopo il 1932, di ciò che tanto Bergson quanto i suoi epigoni consideravano l’esecranda “società chiusa”. Nel 1945, Karl Popper ne “La Società Aperta e i suoi nemici” riprende la distinzione di Henri Bergson tra società chiusa e società aperta e, sulle macerie ancora fumanti di un’Europa in rovina, ne conduce una sostanziale innovazione. Mentre Popper sviluppa il concetto della società chiusa caratterizzandola come sostanzialmente dogmatica, ma traslando il dogmatismo in ogni contesto e in ogni versione ideologica, nel caratterizzare la società aperta conduce importanti variazioni delle tesi del filosofo parigino. Popper si discosta dalla carica mistica e religiosa che Bergson individua e anziché la purezza della verità pone a fondamento della società aperta la sostanziale inconoscibilità della medesima verità.
Popper sposta il focus dalla natura e dal rapporto dell’uomo con essa alla tutela dell’individuo. Non essendo concretamente conoscibile la verità, è da evitare che il dogma proclamato schiacci l’individuo e che costituisca motivo di oppressione. Lontano da preoccupazioni strettamente democratiche, la priorità per Popper è assicurare il ricambio delle élite al di fuori di metodi violenti o di rottura.
Questa società “aperta”, fondata però sull’assenza di dogmi e di misticismi, conserva degli importanti elementi di chiusura: Popper, riprendendo Bergson, identifica un gruppo sociale “escluso” o quantomeno inibito nel porsi nel dibattito che si vuole razionale. In altri termini, la società aperta, sia pure per autodifesa, esclude i critici radicali di essa, definiti come “intolleranti”. La ragione è semplice: riprendendo Bergson, Popper vede le “società chiuse”, fondate sulla dogmatica, come più affini alla natura umana. Pertanto, se non vigilate accuratamente, le società aperte cadranno preda degli apologeti della “chiusura”. A questo proposito, più che alle argute infografiche che circolano su Instagram e Facebook, è utile rifarsi a John Rawls, che nel suo “
Teoria della giustizia” del 1971 si riallaccia alla inconoscibilità pratica della verità. Nel suo scritto, il filosofo di Baltimora nega il diritto alla “lamentela” (ma il termine inglese “complain” utilizzato nel testo rimanda a un procedimento giurisdizionale) da parte di un gruppo esplicitamente intollerante, sulla base del fatto che l’intollerante non dovrebbe essere titolato ad eccepire l’utilizzo dei suoi stessi metodi. In questo ragionamento, Rawls caratterizza l’intollerante per la sua metodologia, e assume che il metodo dell’intolleranza assunto dall’intollerante sia esso stesso il fine o quantomeno parte di esso.
Rawls ammette la possibilità di censura degli intolleranti per difesa dei tolleranti. Questa possibilità deve essere attuata «quando essi sinceramente e con ragione credano che l’intolleranza [nei confronti dell’intolleranza] sia necessaria per la loro stessa sicurezza». Queste accortezze sono comunque rimesse alla valutazione organica dei “tolleranti”. In altri termini, è chi si riconosce nella “tolleranza” a decidere sulla possibilità di “intolleranza”. Il termine decisione ha una valenza precisa: esso non può non rimandare al Carl Schmitt quale teorico principale della “decisione” politica, che è appunto quella sull’esclusione e sullo stato di messa fuori dalla legge, di bando, di uno o più individui identificati come nemici. Questa “decisione di intolleranza” è una decisione di sospendere le regole della tolleranza nei confronti del “nemico”. Questa sospensione delle regole della tolleranza è un momento di rottura nella società: momento di rottura che riguarda sia la Giustizia come ente superiore, sia l’ordine giuridico. È quindi a tutti gli effetti una decisione sovrana, per riprendere la primissima definizione di cos’è la “Sovranità” di Carl Schmitt nella sua “
Definizione della Sovranità”. Se John Rawls non parla esplicitamente di esclusione, di messa al bando, degli intolleranti, Michael Rosenfeld, professore originario di New York, nel suo “
Extremist Speech and the Paradox of Tolerance” compie appieno il passo successivo e mancante, auspicando apertamente la censura di determinate opinioni politiche e l’esclusione di chi se ne fa portatore dalla «
community of speakers». Vale a dire, auspicando un adeguamento dell’
ordinamento statunitense alle legislazioni più restrittive proprie dell’Europa Occidentale.
A margine, è interessante notare la scelta di parole di Rosenfeld. Egli passa, in un dibattito sulla tolleranza, dal caratterizzare coloro da escludere come “intolleranti” al caratterizzarli come “estremisti”, compiendo un’operazione semantica non indifferente. Michael Walzer, nel suo “
Sulla Tolleranza” va oltre: mentre l’esclusione politica (la dichiarazione di essere “hors-la-loi”) tradizionale, quella auspicata senza tanti infingimenti da Michael Rosenfeld, si limita ad agire, la società aperta pretende una modifica intrinseca del nemico. La società aperta è disponibile a tollerare gli intolleranti qualora essi abbandonino la loro intolleranza e accettino di essere un’opinione tra le opinioni. Per riprendere il saggio di Rosenfeld, agli intolleranti verrebbe richiesto di esercitare una tolleranza derivante dal dubbio e dalla scarsa convinzione nella difesa dei propri ideali, più che un’astensione in nome del calcolo degli interessi (cioè di non essere perseguiti). E qui casca l’asino. Perché il presupposto per la società aperta è l’eliminazione della divisione tra amici e nemici pubblici, vale a dire l’eliminazione del concetto proprio del “politico” condotto alla sua radice prima. Ma per “non tollerare gli intolleranti” la distinzione torna prepotentemente fuori. Tuttavia, questa esclusione non è realizzata attraverso un’identificazione chiara del nemico ma attraverso una intolleranza nel nome della tolleranza. Sarebbe cioè un’esclusione non da un gruppo, perché di gruppo non si può parlare in una società aperta, ma dall’umanità stessa. Un’esclusione di questo tipo condurrebbe quindi ad una disumanizzazione del nemico tramite la sua messa al bando dall’umanità. Si potrebbe aspramente osservare, con le parole di Proudhon, che «
chi parla di umanità, vuol trarvi in inganno».
Ora, la società occidentale è strutturata in modo tale per cui il rapporto tra “tolleranza”, cardine del vivere associato, e l’intolleranza, qualsiasi veste debba di volta in volta assumere, sia essa il razzismo, il jihadismo islamico, l’integralismo religioso o un’altra opinione che riesca insopportabile ai tolleranti, può assumere due sbocchi.
Questi esiti, pur nella presenza di sfumature, corrispondono agli antipodi tipizzati da Rosenfeld nel suo saggio: o si reprimono i reati eventualmente derivanti dall’espressione di “idee intolleranti” (che però in Rosenfeld diventano “estremiste”) o si esclude dalla “comunità dei parlanti” chi porta avanti l’intolleranza (o l’estremismo). Non solo con mezzi sociali come
auspicato da Lee Bollinger, ma anche con mezzi legali e giuridici, tramite la sospensione rawlsiana della tolleranza contro gli intolleranti. Tramite lo stato d’eccezione.
Nel momento però in cui si sceglie il secondo percorso, schedando e licenziando dipendenti pubblici sulla base di affiliazioni politiche classificate come “estremiste”, costellando la società di sentinelle in servizio permanente effettivo contro “idee pericolose”, emanando leggi che restringono sempre di più i canoni di ciò che è permesso pensare, infarcendo una scuola in decadenza di beceri ideologismi, tutto l’apparato teorico della Chiesa di Giovanni, mistica, pura, tesa all’umanità nel suo ardente compito divino, semplicemente decade, e alla Chiesa di Pietro, dogmatica, dura, giurisdizionale e gerarchica nella sua ansia di eternità se ne sostituisce un’altra, che continua a chiamarsi Chiesa di Giovanni ma che di giovanneo non ha più nulla. In altri termini, la decantata società aperta, portatrice di istanze morali quali l’individualismo e l’egualitarismo, fondata sui commerci e sull’astrattezza, impregnata di un frazionamento che non arriva a farsi separazione, per mezzo dell’esclusione ridiventa un ordine politico come gli altri.
E siamo sicuri che tra un ordine politico che si ammanta di libertà solo fino a quando la sua supremazia non è in pericolo e un altro ordine politico che fa a meno di questi infingimenti, ma che al contempo non esige di escludere in nome di una fumosa “umanità”, la scelta sarà sempre a favore del primo?