di Leonardo Paggi - «Rinascita», a. XXXV, n. 30, 28 luglio 1978, pp. 23-25.
Sembra giungere ad un grado di definizione pressoché conclusivo, con questo volume di Amendola, tutto un indirizzo di studi sulla storia del Partito comunista italiano che si è caratterizzato per una precisa scelta politica: liberalizzare la conoscenza del nostro passato, portando in essa quella considerazione realistica dei rapporti di forza, quella visione laica del fare politica, libera da impacciate incrostazioni ideologiche, che è da tempo un tratto essenziale del nostro modo di essere.
Si è soliti richiamarsi, come ad un inizio, alla pubblicazione del carteggio sulla formazione del gruppo dirigente, fatta da Togliatti nel 1961. Ma bisogna forse aggiungere che assieme all’intenzione di fare «più luce» su di un passato ancora costretto, era viva in quella riedizione di testo, a torto o a ragione, anche la precisa intenzione di ridisegnare una fisionomia teorica del partito, fortemente autonomizzata rispetto alla tradizione terzinternazionalista, e che aveva il suo epicentro in una riconsiderazione nuova del pensiero e dell’opera di Gramsci. Credo si possa dire che questa seconda componente è venuta via via tacendo. La riflessione sulle matrici teoriche della nostra politica è certo proseguita in più forme, ma con punti di intersezione sempre più rari con lo studio della storia del partito. Se ciò ha comportato forme di «teoreticismo» sovrapposte ai processi reali, come si è talvolta polemicamente sottolineato, è pur vero che anche la ricognizione sulla storia del partito ha teso a configurarsi, sempre di più, come un delimitato settore di indagini, tendenzialmente un po’ chiuso in se stesso, che dopo aver suscitato forme diffuse di curiosità, rischia ora di scontare una certa posizione marginale rispetto ai temi dominanti il dibattito politico e culturale.
Amendola, che forse più di ogni altro ha insistito sul significato politico di una riconsiderazione disincantata della nuda realtà dei fatti, introduce tuttavia con questo suo volume una seconda marcata caratterizzazione. La storia del partito diviene, per sua esplicita dichiarazione, essenzialmente «la storia dell’azione effettivamente svolta nel paese», ossia la storia di un soggetto operante, all’interno della quale non può non assumere un significato dirimente, sia nella ricostruzione che nella valutazione storica, il volume dell’iniziativa e della presenza che si riesce a sprigionare nel susseguirsi delle situazioni. Si tratta di una scelta, connessa ad una esperienza di dirigente politico – ma forse anche ad una concezione stessa della politica – che, come ogni scelta, comporta, evidentemente, oltre che dei vantaggi, anche dei prezzi. Soprattutto quando si distenda lungo un percorso storico così ampio, la vita di un partito, oltre che come soggettività operante che compie scelte, ora giuste, ora errate, non può non apparire anche come la forma attraverso cui una parte di società cerca di organizzarsi per trovare una sua espressività storica, il luogo entro cui confluiscono spinte sociali e forme di coscienza tra di loro anche assai eterogenee, che pur trovando volta a volta una risultante nella determinazione della linea politica, con questa difficilmente finiscono per identificarsi senza residui. Cercherò di spiegarmi meglio tentando una discussione di alcuni dei molti spunti di riflessione e di dibattito offerti dal volume.
La trama interpretativa sottesa al lavoro era già stata anticipata, in gran parte, da Amendola nei suoi numerosi interventi di questi ultimi anni. «Mi urta una rappresentazione della storia italiana – si legge nella Intervista sull’antifascismo di due anni orsono – come storia di un paese che sarebbe sempre pronto, nella sua classe operaia, e non soltanto in essa, a fare la rivoluzione, nel ’19-’20, oppure nel ’24, oppure del ’43-’44, e che non la fa mai perché c’è sempre qualcuno, nel ’19-’20 il partito socialista, nel ’24 l’Aventino, nel ’43-’44 il partito comunista, che glielo impedisce». In effetti sono proprio questi alcuni dei principali nodi storici su cui si esercita maggiormente lo spirito e la tendenza «revisionistica» di Amendola, nello sforzo di giungere ad un ripensamento complessivo della tradizione comunista e dei suoi rapporti con la storia d’Italia: confrontarsi e valutare il senso di questa non facile e impegnativa operazione culturale significa anche tornare in modo specifico nella considerazione di questi problemi.
Del significato e dell’utilità della scissione di Livorno da tempo si è tornati a discutere da parte socialista. Risale più precisamente agli inizi degli anni sessanta (con la ripubblicazione, tra l’altro, del vecchio scritto di Pietro Nenni, del 1926, sul «diciannovismo») la prima contestazione del carattere «rivoluzionario» della situazione sociale e politica del primo dopoguerra in Italia, che riabilitava, di contro alla tradizione leninista, il significato e l’importanza di proposte di tipo democratico, allora proprie di alcuni settori del socialismo italiano. Oggi Pietro Melograni si è fatto sostenitore (Mondoperaio, maggio 1978) di una tesi ulteriore, del resto già largamente discussa da Paolo Spriano: alla rivoluzione mondiale, in realtà, non crede nemmeno Lenin: l’impulso dato alla formazione dei partiti comunisti risponde alla volontà di creare nei diversi paesi strumenti docili delle direttive del nuovo gruppo dirigente sovietico.
È evidente che nessuna forma vetusta di patriottismo deve essere di ostacolo al ripensamento critico più radicale di tutto un passato; ma è altrettanto importante che la retrodatazione di alcuni schemi di polemica politica non pregiudichi la comprensione delle linee di fondo di un processo storico, che del resto travalica di gran lunga – questo mi sembra essenziale – i confini stessi del movimento operaio. Anche nell’analisi di Amendola – che peraltro nega l’esistenza di maggiori elementi di lucidità nell’area della destra riformista – emerge una ricostruzione dello stato del paese, per molti aspetti convincente e incontrovertibile, che contraddice e smentisce il giudizio posto a base della scissione. E tuttavia sorgono a questo proposito alcuni interrogativi. Viene anzitutto da domandarsi se sia giusto, ai fini di una più riflettuta prospettiva storica, giungere ad una conclusione opposta a quella cui pervenne l’ala più intransigente del movimento operaio italiano, pur continuando, tuttavia, a utilizzare gli stessi termini del dibattito di allora.
Non credo occorra molto per convenire sul fatto che l’ipotesi di una situazione «oggettivamente» rivoluzionaria, corrispondeva ad uno schema di controversia e di lotta politica. Una «rivoluzione» - qualunque sia il senso che si voglia attribuire a questo termine – è per definizione un processo caratterizzato dalla coscienza e dalla volontà di grandi masse, unificate su obiettivi riconosciuti universalmente validi. In questo senso l’unica prova possibile circa il carattere rivoluzionario di una situazione, è la sua pratica traduzione, il suo concreto sbocco politico. Detto questo rimangono da valutare alcune caratteristiche strutturali della situazione europea al termine del confitto mondiale. Ebbene, sotto questo profilo, mi pare indubbio che la formazione dei partiti comunisti è la presa d’atto, parziale, distorta, ideologizzante quanto si vuole, di una svolta di eccezionale importanza nella storia del capitalismo europeo, che rivoluziona (in questo credo la parola possa essere usata tranquillamente) tutte le precedenti forme di coesistenza tra diversi e opposti interessi di classe.
L’analisi della vicenda europea, eccezionalmente ricca e articolata, nella narrazione di Amendola, per gli anni trenta, è invece assai parca per il decennio precedente. Eppure tralasciare la delineazione di alcuni tratti fondamentali delle società capitalistiche di allora mi sembra comporti un qualche pericolo di attardarsi entro un’antica diatriba, tutta interna al movimento operaio, e lascia nell’ombra la complessiva direzione di marcia di questi ultimi sessant’anni di storia, non certo solo italiana. Si lascino da parte le tesi e le risoluzioni dei congressi dell’Internazionale comunista, si prenda in mano un libro come Le conseguenze economiche della pace di J.M. Keynes: la tesi centrale, tutta svolta sul versante della conservazione, è che il sistema economico quale ha dominato l’Europa fino al 1914 è irreversibilmente tramontato. Che cosa è venuto meno? I presupposti sociali di un meccanismo di accumulazione fondato sulle forme di coercizione e di sfruttamento selvaggio dell’epoca vittoriana. «Mi preme solo di notare che il principio dell’accumulazione basato sulla ineguaglianza della distribuzione, era parte vitale dell’ordine sociale di avanti guerra e del progresso come noi lo intendevamo, e di fare osservare che tale principio dipendeva da condizioni psicologiche instabili, che non si potrebbero riprodurre». Si è dissolta la legittimazione di un tipo di sviluppo, che aveva come «prerequisito» l’accettazione della necessità del sottoconsumo e della virtù insostituibile del risparmio. Contemporaneamente la società europea conosce (per la prima volta dai tempi delle guerre napoleoniche) un’inflazione che travolge tutto il preesistente sistema dei contratti, e provoca un terremoto profondo nella stratificazione sociale. Sono questi i termini iniziali di una successiva ricerca sulle modificazioni di base da introdurre nel sistema privato dell’accumulazione, che non si perita di guardare, talvolta con aperta curiosità intellettuale, all’esperimento sovietico.
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