di Luciano Capuccelli - «Rinascita», a. XXXV, n. 42, 27 ottobre 1978, pp. 25-26.
Aldo Capitini (Perugia, 1899-1968)
Un convegno a Perugia a 10 anni dalla morte
La Fondazione «Aldo Capitini» ha organizzato a Perugia nei giorni scorsi un convegno sul tema della violenza o non violenza nella lotta per il socialismo. Il dibattito ha avuto al centro il nodo politico della ricerca di una «terza via» nella strategia del movimento operaio italiano. Riportiamo ampie parti della relazione svolta da Luciano Capucelli su «Aldo Capitini e la “terza via”».
Trent’anni or sono, la «terza via», cioè una sintesi di libertà scissa dal privilegio, e di socialismo sottratto a chiusure burocratiche e statuali, per Aldo Capitini poteva essere costruita dal Fronte democratico popolare. Scriveva, polemizzando con certi suoi amici più moderati, più realisti, più legati alle posizioni liberal-repubblicane: «Una terza via, intesa nel senso di un contemperamento manovrato e lasciando il più possibile intatti tutti i pilastri dell’attuale civiltà, produrrà poco più che il tirare a campare». «In Italia è così vivo il passato e perfino il Medioevo, che solo una potente tensione all’avvenire lo vince. Quegli elementi che sono essenziali, libertà, cultura, religiosità non vivono in tutto il loro sviluppo nuovo se non si associano alla tensione sociale. Si pensi al Mezzogiorno. Perciò la terza via passa per il Fronte o “può passare” se il Fronte non devia» (in Italia socialista, 5 febbraio 1948).
Capitini vedeva nel Fronte la possibilità di radicare nella società civile un grande processo di articolazione democratica e di mobilitazione di energie di base che, attraverso nuove espressioni istituzionali, come i consigli di gestione, i comitati della terra, le consulte popolari, i comuni e infine sindacati e partiti, trasformasse il volto dell’Italia promuovendo l’accesso delle moltitudini alla cultura e al potere, costruisse quella «nuova socialità» che egli riteneva come sua vera patria. Ed è questo della democrazia di tipo nuovo, se ben si guarda, il terreno di incontro di Capitini con il movimento operaio e, indirettamente, col marxismo. Sia per Capitini sia per quelle correnti marxiste che più consapevolmente hanno affrontato il tema della democrazia, questa è di per sé insufficiente quando non venga innervata da una diversa realtà. Questa realtà più profonda che giustifichi la democrazia è per Capitini l’ispirazione religiosa che trasforma la democrazia in socialità e coralità del lavoro, impedendole di chiudersi e appesantirsi in «amministrativismo». Per il marxismo la democrazia deve essere innervata da una guida che processualmente ne trasformi la base economica, la renda ad essa omogena e impedisca che la democrazia si corrompa e si disgreghi nel corporativismo. La democrazia del resto, anzi quella che noi oggi chiamiamo democrazia di massa, è l’unico possibile e fecondo terreno di incontro tra due realtà apparentemente antitetiche e poco paragonabili come il marxismo e la non violenza: proprio perché la rivoluzione deve ormai investire, se si vuole che resti un futuro degno per l’umanità, i «punti più alti» del sistema, cioè i paesi europei, essa deve procedere, per raggiungere la sua pienezza, sul terreno della democrazia.
Tra la democrazia oligarchica dei paesi capitalistici e la democrazia cesariana del primo paese socialista, la «via del popolo italiano» (è il titolo di un suo articolo sul Nuovo Corriere, 15 maggio ’48), proposta da Capitini, richiamava indirettamente nella figura utopica della democratica, non violenta, rivoluzionaria permanente partecipazione delle assemblee popolari, il grande tema del socialismo in occidente. Egli indicava come esigenza preminente la trasformazione sociale, la «tramutazione», che era possibile realizzare solo restando legati alle «moltitudini». Era trascorso meno di un mese dalla sconfitta del Fronte, un anno dalla rottura del tripartito, due dal nefasto discorso di Churchill a Fulton, il processo di spaccatura dell’Europa in due blocchi era ormai praticamente irreversibile, ma Capitini difendeva la sua difficile scelta a fianco del Fronte e riproponeva l’ormai impossibile speranza di una «terza via» per l’Italia e l’Europa. «L’affermazione del Fronte, abbiamo pensato, era necessaria, per l’equilibrio interno italiano, per difendere la libertà della controriforma e le istituzioni democratiche popolari in sviluppo dalla posizione centralistica del cosiddetto “alto”. Era anche necessaria nell’orizzonte mondiale, perché… la via del popolo italiano è di andare oltre le forme dell’Occidente e dell’Oriente, in una sintesi e in un superamento in nome di una civiltà modernissima e di esigenze superiori». La tenacia di Capitini nell’aderire a questa prospettiva e nel farne la ragione del suo impegno più profondo si spiega – a mio parere – con il fatto che solo ad essa egli poteva affidare la pratica e l’attuazione della sua religione della compresenza, cioè di quella invincibile e infinita alleanza dei vivi e dei morti, dei sani e dei forti con gli emarginati, i malati, gli sfiniti, gli esclusi. Tale religiosità infatti, definitasi in opposizione al clima di monarchizzazione della figura di Gesù Cristo del cattolicesimo concordatario, aveva bruciato fino in fondo ogni residuo di antropologia signorile e postulava dunque la presenza piena di tutti nella scena della storia. Esso si veniva insomma a configurare come la faccia interna della «ragione storica».
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