di Giovanni Spadolini - «La Voce Repubblicana», 18-19 maggio 1981

16 gennaio 1870. Esce ad Ancona, per merito di due reduci garibaldini, Carlo Morellet e Virginio Felicioli, il primo numero di un settimanale di schietta ispirazione repubblicana, e non senza un’impronta caratterizzante di anticlericalismo carducciano, quasi estrema eco dell’Inno a Satana: il «Lucifero». Non mancano nel fondo del numero di apertura venature di ottimismo rousseauiano e vibrazioni dell’utilitarismo inglese della scuola di Bentham, quando si proclamava «dovere di ognuno il procurare che i propri simili raggiungano il massimo grado di benessere»; e il concetto di benessere si lega intimamente a quello di progresso e il progresso non può prescindere dalla massima libertà, così come la fratellanza (un termine squisitamente mazziniano) non può esistere senza l’eguaglianza. «Siamo repubblicani. Lo scopo per cui combattiamo è […] il benessere del popolo e per noi la repubblica è il mezzo unico e necessario a conseguirlo».
Il momento della rivoluzione appare dunque superato. Di lì a pochi mesi, alla vigilia di Porta Pia, la «profanazione» dell’ideale repubblicano di liberazione di Roma tramite il patto nazionale e la Costituente con Mazzini prigioniero dell’Italia regia, si rifletterà nell’ultima delusione, nell’ultimo fallimento della sua vita di agitatore. Sarà il momento in cui il piano del genovese si correggerà, ed alle intransigenze, ormai smentite o impossibili, della lotta ad oltranza al «regime» monarchico subentrerà il nuovo programma, la disperata speranza di un rinnovato proselitismo repubblicano ed operaio, sfruttante gli strumenti della legalità formale, la libertà di riunione, di associazione, di stampa. Sarà il germe delle Consociazioni repubblicane nate dai Patti di fratellanza; sarà il germe del vero e proprio partito repubblicano dopo Porta Pia.
Il «Lucifero», per molti aspetti, precorre i tempi, anticipa le posizioni: il suo programma segna già un chiaro passaggio dall’insurrezione all’azione sociale. In un raro opuscolo apparso in Ancona nel gennaio 1915, in occasione del 45° anniversario della fondazione del periodico marchigiano, un testimone e protagonista di allora, Collemerlato (pseudonimo di Carlo Morellet), rievocava il clima in cui l’iniziativa era sorta. È il gruppo di reduci garibaldini animati da Domenico Barilari che si riuniscono al Caffè Cittadino, in quella che si chiamava allora Piazza dei Cavalli, divenuta poi Piazza Garibaldi; sono i democratici dell’Unione democratica e della Società dei Reduci che dibattono quotidianamente problemi di interesse pubblico, le maggiori e più brucianti questioni politiche. Un ambiente dove «la parola dell’Esule genovese, portata da Domenico Barilari e dai suoi amici, era ascoltata religiosamente, e le sue massime sante, che i dirigenti di allora reputavano perniciose, venivano […] propagate».
In quegli ambienti, e in quegli anni, fra Mentana e Porta Pia, si incontravano negli uffici di redazione di un periodico umoristico, «Il Somaro delle Marche», e di un foglio radicale, «La Tribuna», i due giovani che avrebbero promosso e animato l’iniziativa del «Lucifero», la cui guida avrebbero presto ceduto al «compagno di fede» Domenico Barilari, uno dei massimi esponenti dell’«Alleanza repubblicana universale». Un periodico repubblicano, nelle Marche, che veniva ad affiancarsi, sul piano nazionale, a «L’Unità italiana» di Milano, fondata dallo stesso Mazzini e diretta da Quadrio, e al «Dovere» di Genova, affidato alla direzione di Brusco Onnis. Un periodico che avrebbe condotto un’irriducibile battaglia contro la corruzione e la degenerazione della classe politica adagiata all’ombra protettrice della monarchia, rigido nell’intransigenza repubblicana, fermo nella «guerra a viso aperto all’Internazionale associazione straniera al pensiero italiano».
Una militanza politica e civile antica e coerente, quella del «Lucifero», che dagli albori del 1870 arriva fino a noi; una lunga gloriosa battaglia per gli ideali repubblicani, che rivive in queste pagine, curate con «intelletto d’amore» da Giancarlo Castagnari e Nora Lipparoni: pagine che rievocano, attraverso singoli contributi, momenti, fatti e figure più significative dei centodieci anni di storia.
Le linee di fondo della testata sono ricostruite da Alessandro Mordenti, autore anche dei preziosi dati statistici relativi a titoli e sottotitoli della testata, supplementi e numeri unici, caratteristiche grafiche, ecc… L’elenco cronologico dei direttori ci ripropone, dopo il lungo periodo iniziale di Barilari (1870-1904), i nomi di Pietro Nenni (dicembre 1913-1915: con un breve intervallo di Mario Ferrara) e di Attilio Reale, in quello stesso anno che vedeva l’entrata in guerra dell’Italia, di Oliviero Zuccarini (facente parte del comitato di redazione, fra il ’19 e il ’20) e di Amilcare Sternini (1920-1921), e – nel dopoguerra – di Randolfo Pacciardi (1946-’47, col «Lucifero» supplemento della «Voce Repubblicana») e via via di Mario Campagnoli, di Alfredo Morea, di Claudio Salmoni, fino all’amico Guido Monina che dal ’58 regge la guida della testata. Nomi cari alla più alta tradizione repubblicana figurano anche tra i gerenti, i redattori, i collaboratori, gli articolisti ospitati. Da Eugenio Chiesa a Salvatore Barzilai, da G. Battista Bosdari a Felice Cavallotti, da Amilcare Cipriani a Giovanni Conti, da Aurelio Saffi a Attilio e a Oronzo Reale. Repubblicani di ieri e di oggi, in una continuità ideale compresa e mirabilmente espressa da Ugo La Malfa, cui va il memore ricordo dei repubblicani non solo delle Marche ma dell’intera penisola.
Nella sua rapida sintesi, Mordenti offre un quadro d’insieme del giornale, ne riassume lo spirito dell’azione, segnala con taglio critico, da studioso, pregi e difetti. La fase iniziale, il primo quarantennio «ci appare […] come un grande coraggio, persino sproporzionato tentativo di sprovincializzare dell’ambiente in cui il “Lucifero” opera»: lo sguardo va al di là del piano regionale, si sforza di recepire, nonostante la povertà di mezzi, il dibattito ideologico, la lotta politica, il processo di organizzazione in corso nell’intero paese, Repubblicano, radicale, anticlericale (del tutto insensibile e disinteressato alle varie fasi attraversate sull’altra sponda dal movimento cattolico), il «Lucifero» vuole essere un giornale politico popolare, povero e mai domo, alieno dal sentimentalismo e dalla retorica, lontano da ogni lusinga e da ogni sollecitazione del potere, comunque costituito. Fedele anche in questa orgogliosa povertà, alla più nobile tradizione mazziniana, fondata sulle continue sottoscrizioni, sull’entusiasmo e sul sacrificio dei credenti nella grande fede della ragione.
Nel periodo della Destra al governo (analizzato nel volume da Nora Lipparoni), il «Lucifero» è critico verso l’eccessivo fiscalismo dello Stato, combatte la battaglia ideologica contro gli anarchici, gli internazionalisti, la Comune, persegue riforme graduali del contesto sociale tali da assicurare l’effettiva emancipazione della classe operaia. Saluta con soddisfazione la caduta del governo Minghetti, nel marzo 1876 (governo definito «disonesto, immorale, conculcatore all’interno di ogni diritto, violatore di ogni pubblica libertà… scialacquatore del pubblico denaro con carrozzini e carrozzoni onde impinguare le sue creature…»), ma non crede nella «rivoluzione parlamentare», nelle attese suscitate dal programma di Stradella, «ridiculus mus della partoriente montagna ministeriale».
«Gli anni de Depretis e Cairoli (1876-1887)»: è il titolo della parte affidata a Lorenzo Paganucci, inerente un periodo nel quale si accentua l’atteggiamento critico del «Lucifero» verso la Sinistra al potere: all’opposizione di una serie di governi che poteva apparire – per l’origine garibaldina di molti dei suoi componenti – apportatrice di rinnovamento, di riforme, di maggiori libertà individuali, di una più concreta giustizia sociale. «Giammai nazione fu tanto concorde nel manifestare la sua esecrazione e ribrezzo per un governo disonesto, immorale, conculcatore all’interno di ogni diritto», si legge a proposito della leadership di Agostino Depretis; e quanto a Cairoli, che si alterna in quegli anni alla presidenza del Consiglio, nessuno mette in dubbio la sua generosa, profonda onestà; ma è il sistema che travolge le più nobili intenzioni, tutte solcate da rimembranze o da vibrazioni garibaldine: «è un altro dei buoni, anzi dei migliori che va a fracassarsi negli ingranaggi stridenti della macchina costituzionale».
Il movimento repubblicano deve proseguire per la sua strada, approfittando dei larghi spazi creati nell’opinione pubblica dal governo della Sinistra costituzionale. Il limite maggiore al proselitismo e alla penetrazione è costituito dalle dispute interne, dai dissidi paralizzanti: «L’importante e il desiderabile si è, invece di perdere tempo a bisticciarci fra noi, lavorare tutti nel proprio campo, intransigenti sempre, intolleranti mai»: è il monito che si leva dalle colonne della testata marchigiana.
In quegli anni ottanta, proprio al momento del passaggio delle «consegne» fra Depretis e Crispi, nel 1887, esce una serie di dispense di un’opera in versi, a Roma, dal titolo significativo: Lucifero. Non è la prima, ma in breve volger di tempo la quarta edizione. Autore Mario Rapisardi, il grande antagonista di Carducci, che contrappone il suo Lucifero al carducciano Satana, nel clima dominato e ritmato dai Giambi ed epodi, che certo non aveva mancato di influire, anche nella scelta della testata, sul periodico di Ancona.
Ricco di illustrazione, dove all’immagine di Lucifero si accompagna libertà che trionfa («Libertà allor sul grande trono si assise / vittoriosa, e nelle immense braccia / Ad un patto d’amore le genti accolse», si legge sotto un’illustrazione nella settima dispensa), fino alla liberazione di Roma, alla breccia di Porta Pia, dove l’«eroe» Lucifero giunge per coronare l’unificazione dell’Italia.
Il periodo crispino (curato nel volume da Alfiero Perugini) vede il graduale passaggio del giornale dalla linea di intransigenza astensionistica assoluta a una pur sofferta e meditata accettazione della partecipazione elettorale, dopo la nascita, nel 1895, del partito repubblicano, che organizza e recepisce i fermenti del movimento. Rimane dura, in quegli anni, la critica al regime monarchico-liberale; l’interesse per i problemi del mondo operaio avvicina il «Lucifero» a certe frange del movimento socialista.
L’età giolittiana (affidata a Raffaele Molinelli, uno studioso cui deve non poco la collocazione «nazionale» delle Marche nel paesaggio complessivo e unitario della storiografia italiana) coincide con la traiettoria di uno dei momenti più importanti e più difficili dell’intera vita del periodico. Il «Lucifero» non è più l’organo di informazione di un partito politico, munito di organizzazione di vertice e periferica: portavoce ufficiale, appunto, della «Consociazione repubblicana delle Marche».
Quanto alla particolare difficoltà che il giornale incontra, essa non è diversa da quella che lo stesso partito deve affrontare: si tratta di difficoltà di definizione e collocazione, per un movimento sospeso fra l’egalitarismo e impulsi rivoluzionari, in una fase di evidente processo di «democratizzazione» dello Stato, sul terreno della «prosa» giolittiana livellatrice e semplificatrice.
A tematiche specifiche sono essenzialmente rivolti gli studi di Lorenzo Paganucci, Gilberto Piccinini e Werther Angelini. Il primo si occupa in profondità della «questione marchigiana» in tutti i suoi molteplici e variegati aspetti, cioè dei vincoli e dei rapporti del giornale con i grandi temi e problemi della regione. Piccinini rievoca invece, attraverso la lettura attenta, giorno per giorno, delle pagine del «Lucifero», l’intero svolgersi della vicenda operaia, dagli anni settanta alla «svolta liberale» del nuovo secolo.
Le polemiche, in certi periodi particolarmente violente ed esasperate, nei confronti della chiesa e dei cattolici, sono ricordate con ricchezza di toni, di chiaro-scuri, di sfumature, nel saggio di Werther Angelini. Convinti, i redattori del periodico marchigiano, che il Papato «fosse allo stremo» e che nessuna rinuncia potesse e dovesse essere fatta dallo Stato liberale.
Ritorna il criterio cronologico negli ultimi due contributi compresi nel volume. Michele Millozzi, che studia gli anni fra guerra e dopoguerra, ripercorre la campagna interventista del «Lucifero», la sua opposizione tenace ai calcoli giolittiani del «parecchio», il graduale passaggio, nel periodo successivo al conflitto, a un tono più moderato e più acuto, dopo il «momento barricadiero», che aveva avvicinato il foglio repubblicano, prima della guerra, alla vis polemica e aggressiva di socialisti e anarchici: anche per l’apporto determinante, alla direzione di Pietro Nenni.
«Dalla monarchia alla Repubblica»: è il titolo del saggio conclusivo, affidato a Giancarlo Castagnari, uno spaccato della lotta politica nell’immediato dopoguerra, dalla liberazione alla costituente, dominata inizialmente dalla scelta repubblicana, dal rifiuto di ogni compromesso col CLN, in una linea di antica, assoluta, intrepida purezza mazziniana.
L’ultimo sogno che aveva consolato il malinconico tramonto del «Mosè dell’Unità» esule in patria era stata la saldatura fra classe operaia e democrazia mazziniana: una saldatura che non si sarebbe in realtà realizzata se non in piccola parte, cioè nella parte delle plaghe artigiane ed operaie che sarebbero rimaste tenacemente fedeli alle pregiudiziali del mazzinianesimo nella Romagna e nelle Marche, fino ai giorni nostri. E in questa «fedeltà marchigiana» ritmata da una più che secolare battaglia, il «Lucifero» ha svolto un ruolo peculiare e determinante.
L’eredità del mazzinianesimo, come messaggio di rinnovamento sociale nella fedeltà agli ideali di autodeterminazione dei popoli e di autogoverno repubblicano, avrebbe rappresentato, al di là dei confini regionali, un filone vitale ed operante nella storia d’Italia, in dialettico e fecondo contrasto con le posizioni del mondo moderato e dell’oligarchia liberale dominante, dalla Destra a Giolitti. Momento essenziale della storia d’Italia di ieri non meno che di domani.

Giovanni Spadolini


Il <<Lucifero>>, oggi come ieri un giornale per la democrazia repubblicana (1981) – Musica e Storia