di Paolo Spriano - «Rinascita», a. XXXV, n. 2, 13 gennaio 1978, pp. 25-26.

La biografia del fondatore del Partito popolare scritta da De Rosa

La figura di Sturzo resta una delle più singolari della storia contemporanea italiana, delle più controverse. L’unico vero grande uomo politico (pontefici a parte, beninteso) che la Chiesa abbia dato (prestato, ma anche tolto, si potrebbe aggiungere) all’Italia. Gramsci lo paragonò, a torto, a Kerenskij, Gobetti vide in lui «il messianico del riformismo»; e lo era, ma fu anche, di volta in volta, tante altre cose: intransigente antifascista e aspro anticomunista, prete in tutta la più ortodossa accezione del termine e sincero fautore di una dimensione laica, autonoma, della politica, fondatore del primo partito dei cattolici italiani senza lo sprone della gerarchia.
È dunque vero che narrare la vita e la storia di don Sturzo è affrontare le sue antinomie, come è vero per tutti quei grandi uomini politici che hanno legato il loro nome a un vera e propria «formazione storica» e l’hanno «rappresentata», espressa, simboleggiata per lunghi decenni tra i più tormentati e complicati della nostra epoca: basti fare i nomi di un Nenni e di un Togliatti, ma il discorso vale anche per un Turati o per un Léon Blum, per un Nehru o per un Roosevelt. La biografia di De Rosa (Sturzo, Utet, 1977, pagg. 515, L. 18.000) ci conferma, però, in una convinzione già acquisita: che le migliori biografie sono quelle in cui l’autore ha una particolare sensibilità per le vicende dell’uomo oltreché del dirigente e del teorico, lo investe di una simpatia critica, lo guarda dal di dentro del suo mondo spirituale e politico. È legittimo odiare il proprio personaggio e si può anche trarne opera storiograficamente valida, o dedicargli un pamphlet sollecitante: si pensi al Mussolini di Dorso e persino al Salvemini di De Caro: più difficile la penetrazione quando l’oggetto della propria ricerca ci resta estraneo e sospetto: è un limite, ad esempio, della biografia di Togliatti stesa da Giorgio Bocca mentre un altro famoso giornalista, Jean Lacouture, ci ha ora dato un Blum vivissimo perché si vede – a volte fin troppo – che l’autore ha colto in lui una Francia della cultura e della democrazia che è la sua stessa Francia.
Il caso dello Sturzo di De Rosa è da segnalare per altre due caratteristiche determinanti: che il racconto biografico è tanto più agile e intenso in quanto più si sente che De Rosa vi arriva avendo dissodato, zolla per zolla, il terreno, l’humus storico del popolarismo, del movimento politico e sociale cattolico, e che risultati e problemi della sua lunga ricerca va qui commisurando ad un generale dibattito storiografico nel quale non si cancellano punti di partenza diversi, opzioni ideologiche contrastanti, ma il dialogo è ormai fitto. Lo stesso De Rosa vi partecipa, dai temi tipicamente gramsciani della questione meridionale o del mondo contadino alle querelles storiche più precise; i rapporti tra socialisti e cattolici nel primo dopoguerra, ad esempio, oppure il ruolo, la funzione, la dialettica dell’antifascismo italiano nei due decenni dell’emigrazione. Non inutile è aggiungere che il biografo ha avuto anche una particolare dimestichezza con il vecchio Sturzo nei suoi ultimi anni italiani, dopo il rientro dall’America (1946), e che la biografia è anche, e spesso soprattutto, la ricerca sulla vita di un uomo di fede. La fede religiosa permea don Sturzo, nella sua cultura giovanile, nel suo costante abito morale e pone, per ciò stesso, nella luce più cruda quei contrasti, o quelle rinunce e quei silenzi, a cui il suo essere sacerdote ubbidiente lo sottopose, quando – ma non fu il solo caso – dovette andarsene, nel 1924, in esilio perché ingombrava troppo la strada alla conciliazione tra fascismo e Chiesa, e il Vaticano seppe accettare e utilizzare Mussolini assai meglio di quanto non avesse accettato e utilizzato il fondatore del Partito popolare.
Non capita certamente di essere sempre d’accordo con i singoli giudizi, con ogni pagina del libro: qua e là, avremmo voluto saperne di più (magari anche sulla famigerata «operazione Sturzo» elettorale romana del 1952), qua e là le citazioni d’autore sono un po’ ridondanti (ma la colpa è di più del biografato che del biografo: la cultura politica, cattolica italiana, a differenza di quella francese, è sempre un po’ plumbea e noiosa, anche se Sturzo conosceva la lingua assai meglio di De Gasperi, e si faceva capire senza bisogno di un’ermeneutica speciale come necessita un discorso di Moro). Nella sostanza, pare che siano numerose le questioni che il libro chiarisce, e prezioso l’aiuto che arreca a un’individuazione del significato storico complessivo della figura del grande uomo politico di Caltagirone. In primo luogo sull’ambiente originario e sulla «vocazione politica» del giovane prete siciliano, in un processo di accumulazione di esperienze abbastanza rapido ma fondamentale. È il tirocinio di chi suscita e appoggia un associazionismo contadino che diverrà la vera base del futuro movimento di massa cattolico. «Casse rurali – scrive De Rosa – affittanze collettive sino all’adozione dello sciopero, non erano cose da poco da far digerire a un ambiente clericale, che per secoli aveva dormito tranquillo dentro la intricata rete delle decime, dei luoghi pii, delle cappelle di giuspatronato, in un continuo e snervante rapporto di subalternità al potere politico. Sostituire alla rassegnazione sociale, all’anemico provvidenzialismo del più diffuso conservatorismo clericale, una concezione dinamica della vita sociale; fare accettare al clero intrigante e per lo più ignorante dell’isola l’idea che occorreva accettare il mondo moderno e che la lotta sul terreno economico non era un’invenzione socialista, fu l’impresa certamente più importante e gravosa per Sturzo, non a caso riempito di denunce anonime presso il proprio vescovo e il Sant’Ufficio».
Si è all’inizio del secolo, e in quell’impegno teorico e pratico di don Sturzo si intravedono anche altri motivi delle sue più tipiche convinzioni economico-sociali e politiche: la necessità di incrementare e favorire la piccola e media proprietà per uno sviluppo più moderno dell’economia agraria, e non solo per ragioni di progresso sociale e di migliore utilizzazione di risorse naturali, bensì anche per contrapporsi così più validamente, come mondo cattolico o cristiano, al sovversivismo socialista, per frenare una proletarizzazione che avrebbe messo in crisi famiglia e tradizioni. In ogni modo, c’è nel primo Sturzo democratico cristiano un accento antiborghese che va ben al di là di una generica predicazione populistica: c’è l’intuizione di un divenire sociale che appartiene al «popolo organizzato». Si veda quanto egli scrive nel 1901: «Le forze sociali non sono isolate e personali, sono invece organiche; e benché questo compito superi l’ambito degli interessi professionali, riguardati come tali, pure appartiene alla classe operaia organizzata, la quale però assurge alla funzione universale della società nelle appartenenze e negli ordinamenti essenziali di questa».
De Rosa valorizza la novità di questo discorso politico, pur facendo il nome più intuibile della parentela ideologica, quello di Toniolo. Qui però ci interessa un elemento più generale: lo Sturzo che lavora in quegli anni a una lenta ma sicura incubazione del partito dei cattolici rappresenta una novità rispetto al quadro del moderatismo clericale, e delle alleanze tra cattolici e liberali all’insegna del giolittismo; sia nel senso dell’autonomia dall’autorità ecclesiastica sia in un programma regionalistico e contadino che getta le sue radici in strati più popolari. Si vuole attivare queste forze, dice Sturzo, «come rappresentanti di una tendenza “popolare-nazionale” nello sviluppo del vivere civile». La cosa presenta un interesse storico particolare se commisurata all’eco che suscita nel movimento operaio organizzato di ispirazione e convinzioni socialiste la nascita nel 1919 del Partito popolare. Non è dubbio che, ancorché questa nascita non sia da ascrivere a una direttiva delle gerarchie (e De Rosa porta anche un documento probante in proposito, una lettera del cardinal Gasparri), il cemento religioso, la spinta di strati intermedi a vedere nella Chiesa, in un momento di grande crisi sociale, un riparo e una guida, la stessa forte polemica antisocialista di Sturzo (contro il collettivismo e una rivoluzione «materialistica»), faranno del Partito popolare un elemento di contraddizione profonda per una avanzata socialista delle classi lavoratrici nel primo dopoguerra. Senonché, ci si può chiedere se, nel famoso giudizio di Gramsci sul Partito popolare come partito che, togliendo dalla passività importanti gruppi di «semiproletari» delle campagne, avrebbe in sostanza lavorato per il socialismo, successiva tappa di coscienza e di emancipazione di queste masse (giudizio certo schematico e contraddetto dalla dinamica reale del dopoguerra) non ci fosse però un elemento, più profondo, di verità. In un senso, intanto: che al suo stesso sorgere il partito comunista, a differenza del partito socialista, intende la novità del fenomeno del «popolarismo» e non si lascia confondere dall’avversione anticlericale per buttare queste masse, e i loro esponenti politici, nel mucchio e nelle braccia dei nemici. È noto come Terracini, sfidando vere e proprie invettive dei massimalisti, al congresso socialista di Livorno, del 1921, esprime appunto questa convinzione della frazione comunista: che i popolari, il «Pipì», non vanno respinti alla luce di un pregiudiziale e miope anticlericalismo.
E qui, per seguire una digressione che poi non è tale, vale anche la pena di chiederci quanto di quel giudizio del 1920 restasse nel Togliatti del ’44, quando, nel quadro di una proposta aperta di alleanza politica alla Democrazia cristiana, il capo del partito comunista arrivò anche più in là: affermando che la borghesia italiana aveva combattuto nel primo dopoguerra coscientemente le due vere forze rinnovatrici della società italiana e le aveva abbattute, con l’aiuto del fascismo, proprio perché tali. E questa forze erano, precisamente, il movimento operaio socialista e comunista e il Partito popolare. C’era, in Togliatti, la persistenza di uno schema di giudizio sul partito della Dc come partito essenzialmente contadino, e non si coglieva in esso la potenzialità di nuovo veicolo di unificazione politica di grande e piccola borghesia che sarebbe stata presto la Dc di De Gasperi? Quel giudizio storico era troppo piegato all’esigenza di rafforzare la proposta politica di alleanza? Sono quesiti aperti per la storiografia contemporanea e, beninteso, vanno posti correttamente, sapendo che la Dc nel 1944-1945 non è ancora quella di due anni dopo e che la sua base contadina continuerà a contare e a pesare, anche come forza di rottura del precedente blocco agrario.
In ogni caso, per tornare a don Sturzo, allo Sturzo che così bene segue De Rosa nel suo libro, par lecito cavarne anche un raffronto tra l’ispirazione politico-sociale del fondatore del Ppi e quella dell’uomo che, dopo essere stato il suo maggiore collaboratore, e successore all’epoca del primo dopoguerra, in specie nel 1923-1926, Alcide De Gasperi, divenne il vero fondatore della Democrazia cristiana. I paralleli sono sempre rischiosi; certo si è che in don Sturzo, nonostante alcune forzature di utopismo sociale apparentabile a quella che Marx ed Engels chiamavano «socialismo clericale», le origini e convinzioni saldamente democratiche determinarono un impulso all’intransigenza antifascista, repubblicana, che risalta in tutto il lungo periodo dell’esilio, più di vent’anni: un antifascismo assai più forte, prima e durante la seconda guerra mondiale, di quello che sia dato rintracciare in De Gasperi. Basti pensare al fermo giudizio sturziano sul fascismo come reazione borghese, proprietaria, al fatto che don Sturzo si guardò bene dall’appoggiare la «crociata» antibolscevica dei franchisti spagnoli, fu sensibilissimo al processo di unità antifascista dell’emigrazione italiana all’epoca dei fronti popolari, e, per converso, richiamare le note degasperiane di «Spectator» oppure la sciagurata lettera in cui si manifestava (nel 1941!) rammarico perché i nazisti non avevano ancora occupato Mosca. Né nel primo si colgono – pur nella sempre ribadita avversione al comunismo – accenti, e posizioni conservatori come nel secondo. De Gasperi fu però un politico più fermo e anche più equilibrato, più cosciente del quadro in cui si doveva muovere il partito dei cattolici nel secondo dopoguerra. Prova ne sia tutta la vicenda della situazione politica italiana e dell’operazione Sturzo nella primavera del 1952, e più in generale la capacità di De Gasperi di mantenersi dentro un centrismo che non privava la Dc dei suoi alleati più sicuri, in un disegno di restaurazione che voleva evitare i pericoli di uno slittamento a destra troppo accentuato, foriero di involuzioni clerico-fasciste.
De Rosa è propenso a vedere la polemica dell’ultimo Sturzo anzitutto come polemica contro le «degenerazioni di un costume politico e di una prassi di sottogoverno, che più tardi, tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70, aumentarono al punto da mettere in crisi la credibilità dello stesso Stato democratico». Quella polemica c’era, ed era sacrosanta. Ma la contraddizione più grossa che l’ultima stagione del vecchio prete di Caltagirone rivela ci riporta al dramma ricorrente della sua biografia politica: la resa, nel 1952 con Pio XII, come nel 1923 con il suo predecessore, a pressioni reazionarie del Vaticano. Portato dagli eventi a una parte di protagonista nella vita politica italiana e dagli eventi travolto, il suo amore alla libertà e il suo attaccamento alla democrazia furono, nondimeno, la costante dalla sua figura. Certo, una linea molto sottile separava, nel 1952, il processo da lui intentato ai partiti politici da un attacco di tipo reazionario. De Rosa ha cercato, con ottime pezze di appoggio, di dimostrare che egli non valicò mai quella linea. La biografia che gli ha dedicato è un contributo di prim’ordine a una investigazione sulla vicenda storica dei movimenti politici e sociali cristiani, concepita e inquadrata nella storia più generale d’Italia.

Paolo Spriano

La vocazione di don Sturzo (1978) – Musica e Storia