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    Predefinito Intellettuali e consenso negli anni del fascismo (1987)

    di Pasquale Voza - «Rinascita», a. XLIV, n. 42, 31 ottobre 1987, pp. 15-16.

    Gli studi di Eugenio Garin riaccendono la polemica sul «nicodemismo» e sulle strutture culturali del «regime rivoluzionario di massa»

    Che il problema del rapporto intellettuali-fascismo sia tuttora estremamente complesso e, in certa misura, irrisolto della storia nazionale e della storia degli intellettuali italiani (nel senso proposto allora, solitariamente, da Gramsci) è dimostrato anche dalla ricorrente polemica ideologico-culturale a cui esso tende a dar luogo, anche in assenza di una ripresa, o di uno sviluppo, della ricerca e del dibattito storico-politico.
    Certo, alla ricca stagione di studi e di ricerche degli anni Settanta (incentrata su problematiche come quelle della egemonia e della organizzazione del consenso, della continuità e della rottura ecc.) è subentrata una fase in cui l’opinione culturale prevalente (attraverso mostre, convegni, un certo tipo di sondaggi) si è andata volgendo ad una forma di riscatto che si autodefinisce anti-ideologico, di recupero e di promozione culturale degli anni del regime, della «civiltà» degli anni Trenta, della sua laboriosa «modernità»: il che, per converso, ha suscitato non di rado una serie di reazioni variamente risentite sul piano del giudizio morale, ma per loro stessa natura prive di forza e di efficacia sul piano più propriamente conoscitivo.
    Le pagine premesse da Garin alla nuova edizione di Intellettuali italiani del XX secolo e le interviste rilasciate (a l’Unità e alla Repubblica) hanno senza dubbio il merito di riproporre con decisione la complessità di quel nodo: da un lato rilanciando e sviluppando, contro ogni tentazione semplificatrice di condanne moralistiche, la tesi cantimoriana del «nicodemismo» degli intellettuali di quegli anni, cioè di una loro convivenza ambigua e allusiva, sfuggente e dissimulatrice, col regime, dall’altro opponendo alla tesi «classica» (tenacemente ribadita da Bobbio) di un’antitesi radicale tra cultura e fascismo, di un’assoluta incontaminazione della cultura in quanto tale da parte del fascismo, la necessità di indagare e di cogliere «quello che caratterizza la cultura del tempo fascista», cioè «non già la chiara contrapposizione di orientamenti antitetici, ma il complesso intrecciarsi di temi». Tale necessità si fonda per Garin sulla considerazione secondo la quale, se è vero che «in qualche modo la presenza del fascismo coinvolge tutto e tutti, inchiodando su certe trincee», allora è anche vero che «la cultura lungo il ventennio fu, fatalmente, legata tutta alla situazione: un tessuto dall’ordine terribilmente composito». Forse non a caso, coerentemente con tale considerazione di fondo, Garin non usa mai, né nelle pagine introduttive, né nelle interviste l’espressione, pur così consueta, «intellettuali e fascismo», che contiene in sé, di fatto, a mio avviso, l’idea di un rapporto fatalmente astratto, ideologico, fra due entità tradizionalmente intese, cultura e politica, intellettuali e potere: idea costitutivamente interna alla tradizione culturale italiana, nell’insieme dei suoi versanti (certo, in misura tutta particolare nel versante di segno «radicale»).
    E tuttavia, anche a prescindere dalla esplicita affermazione dello studioso (nell’intervista pubblicata da Repubblica), secondo cui una delle ragioni che lo hanno spinto a scrivere la nuova introduzione è costituita dalla volontà di contrastare le tendenze più o meno recenti ad una eccessiva generalizzazione sulle colpe e sui coinvolgimenti politici della «cultura del tempo fascista» (Garin fa riferimento, in particolare, alla pubblicazione di elenchi di uomini di cultura e di riviste finanziati dal ministero della Cultura Popolare, e alle reazioni seguitene), si ha come l’impressione che l’esigenza sostanzialmente metodologica manifestata (il rifiuto di assoluzioni affrettate o di facili condanne a priori), tenda a tradursi nell’invito ad assumere una sorta di pietas conoscitiva nei confronti del lungo viaggio della cultura nel tempo storico del fascismo: nei confronti di un viaggio che, pur incerto e laborioso e irto di difficoltà e di problemi, ha consentito alla cultura, all’indomani della rottura «antifascista», di ritrovare se stessa, di reidentificarsi pienamente nell’ethos civile, nel fervore laico della sua libertà e della sua autonomia.
    Ora, non si tratta – io credo – di opporre alla pietas gariniana un più risentito giudizio morale che metta l’accento sui rapporti o sui commerci di molti intellettuali con istituzioni e enti del regime ovvero, più in generale, sulla loro colpevole scelta della «integrazione» in alternativa ad un destino di «emarginazione» (cfr. le lucide osservazioni di Luciano Canfora ne l’Unità). Integrati o emarginati che fossero, per capire davvero – diciamo così – a che cosa servirono, di quegli intellettuali occorre analizzare criticamente la produzione d’idee e di forme di coscienza, il senso e la funzione reale della varietà e complessità delle risposte fornite ai processi della moderna crisi di massa di quegli anni.
    Quando Gramsci nella sua riflessione carceraria indicava nell’idealismo crociano il vero «partito ideologico della borghesia» e istituiva tra esso e il fascismo un rapporto di concordia discors, intendeva cogliere il potere egemonico dell’intrinseco moderatismo proprio della religione della libertà (nella sua moderna, assoluta rimozione della democrazia), dello statuto idealistico di separazione-distinzione della cultura-coscienza, e intendeva mostrare come tale moderatismo fornisse l’integrazione di un respiro «ideale» (organicamente antimaterialistico e antidemocratico) a quel dirigismo fascista, in cui, a differenza di quello di altri paesi, era costitutivamente assente una forza di tipo realmente espansivo, una prospettiva di «autoritarismo riformista», e dunque la reale possibilità di una propria organica cultura.
    Allora, collocata all’interno di un tale intreccio fra natura del regime reazionario di massa e processi molecolari di ridefinizione di nuove forme di identità e di funzioni egemoniche del lavoro intellettuale, la nozione di «nicodemismo» degli intellettuali si rivela sostanzialmente introduttiva, giacché non aiuta a cogliere la intrinseca necessità, non riducibile a mere ragioni di convivenza o sopravvivenza rispetto al regime, della particolare natura, moderata e ricompositiva, di tante forme di coscienza della crisi, che emergono tra anni Venti e Trenta nella vicenda culturale nazionale: nella quale è assente, non a caso, un confronto scienza-vita, cioè una dialettica tra teorie della razionalità delle forme, delle istituzioni degli specialismi (Weber e il weberismo) e filosofie della crisi della razionalità formale, del suo potere assoluto di mediazione (Heidegger e le filosofie dell’esistenza); e nella quale invece è presente diffusivamente la teoria idealistica di una mediazione-ricomposizione tutta spirituale dei conflitti, che si unifica nella moralità intrinseca e autonoma della cultura.
    E direi che l’anti-idealismo che caratterizzava le inquietudini e le tensioni «realiste» di larghi settori del mondo giovane-intellettuale, vicini o interni al regime fascista, non costituisce certo il segno (come pare al Garin) di una indubitabile distanza tra «idealismo e fascismo». Il «realismo» di quei giovani (si pensi al gruppo delle riviste romane «Il Saggiatore» e «Il Cantiere») segnalava una crescente insofferenza soprattutto nei confronti della mistica gentiliana dello Stato etico (ma anche nei confronti del magistero crociano, sia pure in modi e in termini tendenti spesso ad una distinzione tra le sue varie componenti, in primo luogo tra l’estetica e quello che era riguardato come il «liberalismo» politico-filosofico del pensatore abruzzese) e andava come reclamando, entro le maglie organizzative del totalitarismo fascista, forme più vive di iniziative e di protagonismo culturale, dotato – come essi dicevano – di respiro pragmatico e di potere costruttivo. Ma tali inquietudini e tensioni, mentre in varia misura alludevano di fatto ad un bisogno di identificazione politico-produttiva del lavoro intellettuale entro la nuova trama della società di massa italiana, nello stesso tempo, per i caratteri propri della «rivoluzione passiva» del fascismo, che era priva della necessità o della capacità di suscitare e favorire un reale impegno «riformatore» della cultura, erano destinate a prender forma in termini esasperatamente mitici e astratti (al punto da configurare letterariamente e – potremmo dire – idealisticamente il fascismo come un movimento empirico, vitale, anti-ideologico, e da identificarlo quasi nello stesso «movimento» interno alla complessità della vita moderna).
    Sicché la denuncia del divorzio tra cultura e vita, che aveva costituito il punto di partenza della battaglia «realista» dei giovani intellettuali, si andò progressivamente ridefinendo e rinominando come denuncia di un paradosso: il paradosso di una cultura, quella idealistico-liberale, che risultava dominante pur nella realtà nuova, miticamente intesa, del fascismo, a cui, a loro avviso, avrebbe dovuto risultare radicalmente estranea. Così, dal «Saggiatore» all’«Universale» al «Cantiere», costretta nell’alveo, economicistico e idealistico insieme, della propria ricerca generazionale di autonomia e di spazio, quella giovane cultura fino all’ultimo fu costretta a registrare il dominio di quella che essa chiamava la vecchia cultura: non sospettando che quel dominio, persistente pur dopo il declino del gentilianesimo, non era l’effetto di un mero asservimento economico né di una misteriosa resistenza o sopravvivenza all’interno delle istituzioni del regime, ma di una diffusa capacità egemonica: bisognosa, per essere davvero soppiantata, di quella profonda, organica lotta critica che Gramsci aveva compendiato nella metafora dell’Anti-Croce.
    Certo, tornando all’oggi, ci troviamo di fronte – come si accennava all’inizio – a circolanti interpretazioni di un fascismo quasi «neutro» o – per meglio dire – promosso entro i confini della categoria, quant’altre mai storicistica e ideologica, della civiltà: ma anche questo è un segno, tra gli altri, di una più generale tendenza alla rimozione della critica, che, tra ideologie conservative della «complessità» e abbandono estetizzante all’«eventualità dell’essere» proprio del pensiero debole, rischia di radicarsi fin quasi al senso comune, se non diviene, non già terreno di una pura denuncia o reazione morale, bensì un grande problema conoscitivo e politico.


    Intellettuali e consenso negli anni del fascismo (1987) – Musica e Storia
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Intellettuali e consenso negli anni del fascismo (1987)

    Il regime senza qualità (1987)

    di Massimo Boffa - «Rinascita», a. XLIV, n. 44, 14 novembre 1987, pp. 20-22.

    Ci fu una vera e propria “cultura del fascismo”? Intellettuali e potere negli anni della dittatura mussoliniana in una conversazione con Eugenio Garin

    Con lo scorrere del tempo e il progredire della ricerca, gli studi e le interpretazioni del fascismo italiano sono diventati più maturi, meno passionali, e hanno finito per mettere a fuoco il problema di fondo, che è quello del posto occupato dal fascismo nella storia dell’Italia moderna. Si è così gradualmente venuta affermando la consapevolezza che il ventennio mussoliniano non è stato una semplice «parentesi», bensì una creatura lungamente incubata dalla cultura e dalla storia italiana. Un contributo importante a questa riflessione viene ora dalla riedizione di un libro di Eugenio Garin del 1974 (Intellettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti), al quale l’autore ha aggiunto alcune dense pagine introduttive, che hanno già suscitato una vivace discussione. Questo testo ripropone, infatti, il problema cruciale delle responsabilità della cultura nella genesi e nel consolidamento del regime fascista: non però nel senso moralistico di un giudizio di condanna o di assoluzione, ma nel senso che il problema delle responsabilità è parte integrante di una più approfondita comprensione storica. Quello del rapporto tra fascismo e intellettuali è inoltre un tema complicato, di cui andrebbero distinti almeno tre aspetti: il rapporto vero e proprio durante gli anni del regime; ma poi anche il prefascismo e il postfascismo, periodi entrambi che aiutano a valutare meglio alcuni elementi di continuità nella storia della cultura italiana.

    - Professor Garin, per procedere con ordine, cominciamo con il problema della definizione del fascismo. Lei scrive che «solo lentamente si è venuta conquistando la consapevolezza del fascismo come momento assai complesso della storia italiana». Ma una delle intuizioni precoci di questa complessità non è forse la formula di Togliatti, che lo definì «regime reazionario di massa»?

    «Quella di Togliatti è una definizione nei confronti della quale più volte ho espresso la mia simpatia: è la prima affermazione molto precisa che il fascismo è stato un fenomeno di massa, aspetto che fino allora era stato lasciato nell’ombra oppure presentato in modo retorico dai portavoce del regime. Le lezioni di Togliatti furono importanti, poiché mettevano in evidenza l’aspirazione, che il fascismo effettivamente ebbe, a costituirsi come fenomeno di massa».

    - C’è anche una definizione di Bottai («uno Stato di destra, con una struttura economica e sociale di sinistra») che suggerisce una non scontata identità. Ma questa aspirazione che, come lei dice, nel fascismo ci fu, a costruire uno «Stato sociale», in quale misura effettivamente si realizzò?

    «Credo che per rispondere in modo soddisfacente a una domanda di questo genere sia necessario periodizzare, anche all’interno di un periodo così breve, poiché non si può mettere sullo stesso piano quel che avvenne nel 1922 e quel che avvenne nel 1935. Voglio dire che effettivamente, ad un certo punto, utilizzando forme di organizzazione e di propaganda che erano state proprie anche dei movimenti di sinistra, il fascismo riuscì ad ottenere, in determinate zone, un largo consenso. Tutta una serie di manifestazioni a carattere popolare, fino al tentativo, in gran parte riuscito, di integrare i giovani nelle organizzazioni del regime, ebbero successo proprio in quanto si muovevano in un senso “sociale”, “di massa”.

    - Si può parlare, a suo avviso, di una «cultura fascista», oppure ci si deve limitare a registrare le componenti eterogenee che coesistettero in quegli anni all’interno di un medesimo clima culturale?

    «Io non parlerei di “cultura fascista”: sarebbe come riconoscere che certe posizioni di carattere reazionario (alla Evola, per intenderci) riuscirono a raggiungere, sotto il fascismo, espressioni originali “fasciste”. E questo a me non sembra proprio. Oppure prendiamo l’esempio di Giuseppe Rensi, che in un certo momento era stato un tipico esponente del pensiero di destra e si era molto avvicinato a Mussolini: però non direi mai che lì si esprimesse un pensiero caratteristicamente fascista. A me non sembra, insomma, che queste ed altre posizioni di pensiero abbiano raggiunto sotto il fascismo una tale dignità, da poterci fare dire che il fascismo ha elaborato una propria cultura reazionaria. Tanto più che l’intreccio fra tematiche caratteristiche del fascismo e tematiche che col fascismo erano in contrasto fu spesso inestricabile».

    - Non è dunque possibile rintracciare un denominatore comune?

    «Bisogna dire che alcuni aspetti, per esempio il tentativo di elaborare una dottrina corporativa, furono effettivamente caratteristici di quel regime. Però, anche a questo proposito, mi domando in che misura, alle formulazioni dell’economia corporativa, abbiano in definitiva concorso alcune tematiche proprie del pensiero cattolico. Nell’insieme, l’impressione dominante che resta di fronte a questi sforzi, è quella della loro inanità: non riuscirono mai a raggiungere le dimensioni volute».

    - Ma, ad esempio, una certa idea del «superamento» del socialismo, il mito di una via italiana, una «terza via» fra socialismo e capitalismo, una certa commistione di tematiche di destra e di sinistra, tutto questo, secondo lei, non viene a comporre un quadro, non dico coerente, ma profondamente tipico della cultura fascista di quegli anni?

    «Direi che tutti questi elementi che lei suggerisce furono fatti propri dal fascismo di quegli anni; avrei invece molti dubbi sul fatto che essi fossero “tipici”, vale a dire che fossero il frutto di una elaborazione originale della dottrina fascista, della quale portassero, per così dire, il sigillo. Dove invece trovo una certa caratteristica originale del fascismo è nella sfera pratica: nell’organizzazione del partito, nella trasformazione dello stesso concetto di partito, nel tentativo di assorbire alcune delle esigenze cui era stato sensibile il movimento socialista. Le vere novità, insomma, le vedo sul piano pratico, non su quello teorico, a parte certi sviluppi del corporativismo, che però misero in allarme il regime, che li bloccò».

    - Un recente studio di Zeev Sternhell sull’ideologia fascista in Francia (Ni droite, ni gauche, Seuil, 1983) mette in evidenza proprio l’eterogeneità dei motivi culturali da cui traeva origine il mito, comune anche al fascismo italiano, di una rivoluzione antimarxista, anticapitalista e antiliberale…

    «Il fascismo non riuscì mai a unificare le diverse spinte che coesistevano al suo interno, così come non riuscì mai a realizzare una sintesi dei molti motivi che avevano presieduto alla sua nascita. Certo, “né destra né sinistra”, poiché effettivamente vi è stato qualcosa dell’una e dell’altra; e ciò che è impressionante sono proprio i continui sbandamenti a cui il regime fu sottoposto; a causa della mancanza di un orientamento che unificasse la varietà delle tendenze. In fondo, una delle osservazioni giuste di De Felice, che egli ricavava da Cantimori, con cui tante volte avevamo discusso, è che il fascismo di Bottai non è paragonabile con il fascismo di Farinacci».

    - Veniamo ora ai rapporti del fascismo con gli intellettuali. Lei si mostra piuttosto comprensivo verso le manifestazioni del cosiddetto «nicodemismo», vale a dire verso la situazione di ambiguità in cui vennero a trovarsi i numerosi intellettuali che vollero continuare a lavorare sotto il regime…

    «Guardi, la vera discriminante è questa: quelli che se ne sono andati e quelli che sono rimasti (e, ovviamente, non erano in galera come Gramsci). Quelli che sono rimasti, nella grande maggioranza dei casi, nella migliore ipotesi hanno taciuto. E proprio perché vi fu questa generale cappa di conformismo, non voglio ergermi a giudice di nessuno, né mettermi a dire che questo va salvato e quell’altro condannato, tanto più che sarei sicuro di commettere degli errori».

    - Ma oltre al caso di quegli intellettuali che possono avere subito il fascismo in modo più o meno passivo, vi è il problema di quella parte della cultura (e non la meno importante) che il fascismo lo ha attivamente promosso, o almeno sostenuto, poiché vedeva in quel movimento una risposta alla crisi generale della cultura maturata fra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900. Lei, se non sbaglio, attribuisce un rilievo importante alla confluenza nel fascismo delle tematiche della «crisi»…

    «C’è stata una tendenza a considerare il movimento delle avanguardie dell’inizio del secolo, che in Italia ha avuto manifestazioni molto particolari, come una positiva esplosione di vitalità. In realtà, a mio parere, è proprio in quegli anni, segnati dalla crisi irrazionalistica che mandò in frantumi le sicurezze, i valori e le istituzioni dell’800, che vennero maturando gli eventi da cui poi sarebbe nato il fascismo: cioè, la prima guerra mondiale, e ancora prima la guerra italo-turca, la conquista della Libia. È dentro questa generale crisi delle posizioni che la cultura ottocentesca credeva di avere raggiunto, che va collocato, secondo me, il processo che condusse al fascismo. Il discorso, come vede, è assai complesso, difficile da riassumere in poche battute, poiché investe il modo stesso di valutare il rapporto tra Ottocento e Novecento. Un personaggio chiave, a questo riguardo, è Pirandello: nella sua opera è resa molto bene questa profonda crisi che colpisce tutti i campi del sapere; ed è estremamente significativo il fatto che Pirandello aderirà al fascismo, e in fondo, sul piano politico, non se ne staccherà mai».

    - È stato più volte sollevato il problema delle responsabilità dell’idealismo italiano nell’affermazione del fascismo…

    «Io penso che l’idealismo vada assolto da questa responsabilità. Voglio dire che il nesso, da alcuni stabilito, fra idealismo e fascismo non può essere sostenuto né per quanto riguarda la teoria generale né per quanto riguarda i casi specifici. Fino a qualche tempo fa (ora sempre meno) Benedetto Croce veniva considerato senz’altro un esponente dell’idealismo; ora, se c’è stata una figura di intellettuale che, soprattutto dal 1925 in poi, ha rappresentato un punto di riferimento per l’antifascismo militante, questo è stato Croce. Quel nesso fra fascismo e idealismo mi sembra, dunque, tutto da dimostrare».

    - E il caso di Gentile?

    «Gentile è il caso più drammatico. Le confesso che sono rimasto un po’ meravigliato di un recente articolo di Gianni Vattimo sulla Stampa, in cui si diceva che, mentre il pensiero di Heidegger non ha niente a che vedere con il nazismo, il pensiero di Gentile sarebbe organicamente legato al fascismo. Mi sembra una affermazione da discutere. Io personalmente non credo che quella particolare forma di fichtismo che è, ad un certo momento, l’attualismo gentiliano sia la dottrina del fascismo; anche se poi Gentile ha effettivamente contribuito a scrivere la dottrina del fascismo. Il problema, insomma, mi sembra assai complesso. In fondo, Gentile è un liberale, e tale rimane fino al 1922-’23; è uno che interpreta la guerra mondiale come l’ultima guerra del Risorgimento; e vedrà in Mussolini l’incarnazione di questo complesso di ideali. Non fu certo l’unico a vederlo, se pensiamo che fino al 1925 si avvicinarono al fascismo personaggi eminentissimi, che poi saranno esponenti dell’antifascismo, i quali credettero anch’essi di scorgere questi aspetti di continuità con gli ideali della guerra. Tutto ciò pesa molto nell’adesione di Gentile. Dopo… dopo io vedo soprattutto il dramma di un uomo, che vuole rimanere fedele alla propria presa di posizione, e che però cerca anche di tenere aperto il dialogo con gli oppositori del regime, aiutandoli: un terribile groviglio di contraddizioni, insomma. Quello che non credo assolutamente è che il caso di Gentile si possa risolvere con troppa disinvoltura, soprattutto in sede teorica, attribuendo all’attualismo responsabilità che non ha. Consideri, tanto per fare un esempio, il pensiero di Calogero, che è stato esponente di una delle posizioni caratteristiche più vitali dell’antifascismo: è vero che si allontana dall’attualismo del suo maestro, ma è anche vero che sviluppa le proprie posizioni da quelle gentiliane.
    «Il discorso su Heidegger, poi, è ancora diverso. Non ho ancora letto il libro di Farias che tanta impressione ha destato in Francia, però ho qui il libro dello Schneeberger, pubblicato in Svizzera nel 1962, parzialmente ripreso negli Usa dal Runes, che raccoglie numerosissimi documenti del nazismo di Heidegger. Come mai se ne sono accorti soltanto ora? Detto questo, non mi sognerei mai di dire che il nazismo è venuto fuori da Heidegger: io credo che alcune delle tensioni, degli elementi che hanno avuto espressione politica nel nazismo si trovassero nell’autore di Sein und Zeit; ma Sein und Zeit non è un libro nazista. Vede, i problemi storici sono più complicati di certe facili connessioni».

    - Nel suo libro lei sottolinea numerosi elementi di continuità fra il periodo del fascismo e quello immediatamente successivo, legati al fatto che una parte dei giovani che poi entreranno nelle file della Resistenza e saranno protagonisti della stagione culturale del dopoguerra, maturarono il loro antifascismo, non già a contatto con l’antifascismo liberale e borghese…

    «… che anzi rifiutano decisamente…».

    - … bensì sviluppando tematiche che il fascismo aveva valorizzato. Non le sembra che lo stesso concetto di un «impegno» della cultura, come ideale di una cultura che aderisca totalmente alla vita della società, che poi caratterizzerà un’intera stagione del dopoguerra, avesse già avuto uno sviluppo molto significativo negli anni del fascismo?

    «Sì, effettivamente ha avuto, proprio in quegli anni, uno sviluppo molto significativo. Uno dei processi più interessanti da studiare è quello per cui i giovani, costretti dal fascismo a ‘partecipare’, a impegnarsi in una vita collettiva, cominciano ad un certo punto ad adottare un orientamento autonomo, che li condurrà al conflitto con il regime. Le generazioni che furono attive nel dopoguerra avevano costruito faticosamente il loro antifascismo maturando temi a cui erano state obbligate dallo stesso fascismo: a riflettere sulla struttura dello Stato, sulla lotta politica, sui problemi della vita collettiva. Tenga conto, inoltre, che fra i giovani del fascismo vi fu una grande ammirazione per l’Unione Sovietica: l’idea che anche il fascismo avesse fatto una sua rivoluzione esercitava un fascino notevolissimo; per molti si trattava allora di realizzarla veramente quella rivoluzione, fino in fondo…
    «Io sono convinto che la continuità ci fu dappertutto. Anche gran parte delle stesse correnti filosofiche che si vennero sviluppando nell’immediato dopoguerra si erano formate nel periodo precedente: prenda, ad esempio, l’esistenzialismo, che era stato uno delle grandi mode gli anni 1939-’40. Le cito un altro caso, piuttosto divertente: uno dei numeri di Politecnico contiene un articolo su Cattaneo di Giansiro Ferrata che è, in pratica, la ripresa di un articolo che lo stesso autore aveva pubblicato su Primato. Il fatto è che se lei prende tutta la collezione di Primato – e guardi che è una lettura interessantissima – ci troverà parte dello stato maggiore della casa editrice Einaudi, parte degli giovani intellettuali di Milano legati alle correnti più significative e più vivaci del tempo. In altri termini, una rottura netta fra fascismo e postfascismo, per quanto riguarda la storia culturale, non c’è stata. Secondo me, periodizzante non è il 1945, è il 1968: pensi solo, per fare un esempio, al destino di un’istituzione così decisiva nella vita di una società, qual è la scuola, il cui modello è entrato in crisi non nel 1945 ma alla fine degli anni sessanta».

    - Esiste un’interpretazione di «destra» del fascismo come continuazione del Risorgimento italiano: entrambe sarebbero «rivoluzioni conservatrici», individuerebbero cioè una costante nella storia dell’Italia moderna, una sorta di «ideologia italiana», destinata a emergere in tutte le grandi fasi critiche…

    «Mentre io vedo nel fascismo l’emersione di aspetti caratteristici della storia italiana, anche di una antica storia italiana, in modo particolare della storia italiana dal ‘500 in poi, resto invece molto poco convinto di fronte a interpretazioni come quelle cui lei accenna. Più in generale, io sono meno portato a connotare il fascismo con nettezza, cioè credo che la fisionomia del fascismo sia estremamente sfuggente: in fondo, il vero elemento di unificazione, fino ad un certo momento, è stato soprattutto il mussolinismo, la devozione alla figura del Duce».

    - Torniamo al problema dal quale eravamo partiti: mi sembra che le sue riflessioni non contraddicano la definizione togliattiana del «regime reazionario di massa». Dobbiamo concluderne che, dopo tanti anni di ponderose ricerche e di accanite discussioni, ci muoviamo ancora, sostanzialmente, nel solco di quella precoce intuizione, oppure siamo giunti a possedere un concetto più esatto del fascismo?

    «Secondo me non siamo arrivati a dare una definizione più precisa. Ciò di cui sempre meglio ci rendiamo conto, semmai, è l’estrema varietà degli elementi che nel fascismo sono confluiti e che, in un certo momento, apparentemente, hanno trovato una loro sintesi».

    - Lei dice spesso «complessità», per sintetizzare così un giudizio storico. Ma non è anche, questa, una maniera di eludere un più impegnativo giudizio di valore sul periodo fascista?

    «Sotto il fascismo in Italia si sono fatte tante cose; ma non sono state fatte grazie al fascismo, bensì piuttosto grazie al fatto che, ad esempio, la burocrazia era la vecchia burocrazia liberale, nella scuola continuavano a insegnare professori che fascisti non erano, e così via. In questo senso quel periodo non fu solo negativo. A mio avviso, il fascismo ha rappresentato il sopravvento, che non è poi durato moltissimo, di gruppi e correnti politiche che riunivano insieme alcuni dei tradizionali aspetti negativi della società italiana. Questo naturalmente non ha impedito che la società italiana, nonostante tutto, continuasse a lavorare e a produrre molte cose importanti».


    Il regime senza qualita (1987) – Musica e Storia
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