di Pasquale Voza - «Rinascita», a. XLIV, n. 42, 31 ottobre 1987, pp. 15-16.
Gli studi di Eugenio Garin riaccendono la polemica sul «nicodemismo» e sulle strutture culturali del «regime rivoluzionario di massa»
Che il problema del rapporto intellettuali-fascismo sia tuttora estremamente complesso e, in certa misura, irrisolto della storia nazionale e della storia degli intellettuali italiani (nel senso proposto allora, solitariamente, da Gramsci) è dimostrato anche dalla ricorrente polemica ideologico-culturale a cui esso tende a dar luogo, anche in assenza di una ripresa, o di uno sviluppo, della ricerca e del dibattito storico-politico.
Certo, alla ricca stagione di studi e di ricerche degli anni Settanta (incentrata su problematiche come quelle della egemonia e della organizzazione del consenso, della continuità e della rottura ecc.) è subentrata una fase in cui l’opinione culturale prevalente (attraverso mostre, convegni, un certo tipo di sondaggi) si è andata volgendo ad una forma di riscatto che si autodefinisce anti-ideologico, di recupero e di promozione culturale degli anni del regime, della «civiltà» degli anni Trenta, della sua laboriosa «modernità»: il che, per converso, ha suscitato non di rado una serie di reazioni variamente risentite sul piano del giudizio morale, ma per loro stessa natura prive di forza e di efficacia sul piano più propriamente conoscitivo.
Le pagine premesse da Garin alla nuova edizione di Intellettuali italiani del XX secolo e le interviste rilasciate (a l’Unità e alla Repubblica) hanno senza dubbio il merito di riproporre con decisione la complessità di quel nodo: da un lato rilanciando e sviluppando, contro ogni tentazione semplificatrice di condanne moralistiche, la tesi cantimoriana del «nicodemismo» degli intellettuali di quegli anni, cioè di una loro convivenza ambigua e allusiva, sfuggente e dissimulatrice, col regime, dall’altro opponendo alla tesi «classica» (tenacemente ribadita da Bobbio) di un’antitesi radicale tra cultura e fascismo, di un’assoluta incontaminazione della cultura in quanto tale da parte del fascismo, la necessità di indagare e di cogliere «quello che caratterizza la cultura del tempo fascista», cioè «non già la chiara contrapposizione di orientamenti antitetici, ma il complesso intrecciarsi di temi». Tale necessità si fonda per Garin sulla considerazione secondo la quale, se è vero che «in qualche modo la presenza del fascismo coinvolge tutto e tutti, inchiodando su certe trincee», allora è anche vero che «la cultura lungo il ventennio fu, fatalmente, legata tutta alla situazione: un tessuto dall’ordine terribilmente composito». Forse non a caso, coerentemente con tale considerazione di fondo, Garin non usa mai, né nelle pagine introduttive, né nelle interviste l’espressione, pur così consueta, «intellettuali e fascismo», che contiene in sé, di fatto, a mio avviso, l’idea di un rapporto fatalmente astratto, ideologico, fra due entità tradizionalmente intese, cultura e politica, intellettuali e potere: idea costitutivamente interna alla tradizione culturale italiana, nell’insieme dei suoi versanti (certo, in misura tutta particolare nel versante di segno «radicale»).
E tuttavia, anche a prescindere dalla esplicita affermazione dello studioso (nell’intervista pubblicata da Repubblica), secondo cui una delle ragioni che lo hanno spinto a scrivere la nuova introduzione è costituita dalla volontà di contrastare le tendenze più o meno recenti ad una eccessiva generalizzazione sulle colpe e sui coinvolgimenti politici della «cultura del tempo fascista» (Garin fa riferimento, in particolare, alla pubblicazione di elenchi di uomini di cultura e di riviste finanziati dal ministero della Cultura Popolare, e alle reazioni seguitene), si ha come l’impressione che l’esigenza sostanzialmente metodologica manifestata (il rifiuto di assoluzioni affrettate o di facili condanne a priori), tenda a tradursi nell’invito ad assumere una sorta di pietas conoscitiva nei confronti del lungo viaggio della cultura nel tempo storico del fascismo: nei confronti di un viaggio che, pur incerto e laborioso e irto di difficoltà e di problemi, ha consentito alla cultura, all’indomani della rottura «antifascista», di ritrovare se stessa, di reidentificarsi pienamente nell’ethos civile, nel fervore laico della sua libertà e della sua autonomia.
Ora, non si tratta – io credo – di opporre alla pietas gariniana un più risentito giudizio morale che metta l’accento sui rapporti o sui commerci di molti intellettuali con istituzioni e enti del regime ovvero, più in generale, sulla loro colpevole scelta della «integrazione» in alternativa ad un destino di «emarginazione» (cfr. le lucide osservazioni di Luciano Canfora ne l’Unità). Integrati o emarginati che fossero, per capire davvero – diciamo così – a che cosa servirono, di quegli intellettuali occorre analizzare criticamente la produzione d’idee e di forme di coscienza, il senso e la funzione reale della varietà e complessità delle risposte fornite ai processi della moderna crisi di massa di quegli anni.
Quando Gramsci nella sua riflessione carceraria indicava nell’idealismo crociano il vero «partito ideologico della borghesia» e istituiva tra esso e il fascismo un rapporto di concordia discors, intendeva cogliere il potere egemonico dell’intrinseco moderatismo proprio della religione della libertà (nella sua moderna, assoluta rimozione della democrazia), dello statuto idealistico di separazione-distinzione della cultura-coscienza, e intendeva mostrare come tale moderatismo fornisse l’integrazione di un respiro «ideale» (organicamente antimaterialistico e antidemocratico) a quel dirigismo fascista, in cui, a differenza di quello di altri paesi, era costitutivamente assente una forza di tipo realmente espansivo, una prospettiva di «autoritarismo riformista», e dunque la reale possibilità di una propria organica cultura.
Allora, collocata all’interno di un tale intreccio fra natura del regime reazionario di massa e processi molecolari di ridefinizione di nuove forme di identità e di funzioni egemoniche del lavoro intellettuale, la nozione di «nicodemismo» degli intellettuali si rivela sostanzialmente introduttiva, giacché non aiuta a cogliere la intrinseca necessità, non riducibile a mere ragioni di convivenza o sopravvivenza rispetto al regime, della particolare natura, moderata e ricompositiva, di tante forme di coscienza della crisi, che emergono tra anni Venti e Trenta nella vicenda culturale nazionale: nella quale è assente, non a caso, un confronto scienza-vita, cioè una dialettica tra teorie della razionalità delle forme, delle istituzioni degli specialismi (Weber e il weberismo) e filosofie della crisi della razionalità formale, del suo potere assoluto di mediazione (Heidegger e le filosofie dell’esistenza); e nella quale invece è presente diffusivamente la teoria idealistica di una mediazione-ricomposizione tutta spirituale dei conflitti, che si unifica nella moralità intrinseca e autonoma della cultura.
E direi che l’anti-idealismo che caratterizzava le inquietudini e le tensioni «realiste» di larghi settori del mondo giovane-intellettuale, vicini o interni al regime fascista, non costituisce certo il segno (come pare al Garin) di una indubitabile distanza tra «idealismo e fascismo». Il «realismo» di quei giovani (si pensi al gruppo delle riviste romane «Il Saggiatore» e «Il Cantiere») segnalava una crescente insofferenza soprattutto nei confronti della mistica gentiliana dello Stato etico (ma anche nei confronti del magistero crociano, sia pure in modi e in termini tendenti spesso ad una distinzione tra le sue varie componenti, in primo luogo tra l’estetica e quello che era riguardato come il «liberalismo» politico-filosofico del pensatore abruzzese) e andava come reclamando, entro le maglie organizzative del totalitarismo fascista, forme più vive di iniziative e di protagonismo culturale, dotato – come essi dicevano – di respiro pragmatico e di potere costruttivo. Ma tali inquietudini e tensioni, mentre in varia misura alludevano di fatto ad un bisogno di identificazione politico-produttiva del lavoro intellettuale entro la nuova trama della società di massa italiana, nello stesso tempo, per i caratteri propri della «rivoluzione passiva» del fascismo, che era priva della necessità o della capacità di suscitare e favorire un reale impegno «riformatore» della cultura, erano destinate a prender forma in termini esasperatamente mitici e astratti (al punto da configurare letterariamente e – potremmo dire – idealisticamente il fascismo come un movimento empirico, vitale, anti-ideologico, e da identificarlo quasi nello stesso «movimento» interno alla complessità della vita moderna).
Sicché la denuncia del divorzio tra cultura e vita, che aveva costituito il punto di partenza della battaglia «realista» dei giovani intellettuali, si andò progressivamente ridefinendo e rinominando come denuncia di un paradosso: il paradosso di una cultura, quella idealistico-liberale, che risultava dominante pur nella realtà nuova, miticamente intesa, del fascismo, a cui, a loro avviso, avrebbe dovuto risultare radicalmente estranea. Così, dal «Saggiatore» all’«Universale» al «Cantiere», costretta nell’alveo, economicistico e idealistico insieme, della propria ricerca generazionale di autonomia e di spazio, quella giovane cultura fino all’ultimo fu costretta a registrare il dominio di quella che essa chiamava la vecchia cultura: non sospettando che quel dominio, persistente pur dopo il declino del gentilianesimo, non era l’effetto di un mero asservimento economico né di una misteriosa resistenza o sopravvivenza all’interno delle istituzioni del regime, ma di una diffusa capacità egemonica: bisognosa, per essere davvero soppiantata, di quella profonda, organica lotta critica che Gramsci aveva compendiato nella metafora dell’Anti-Croce.
Certo, tornando all’oggi, ci troviamo di fronte – come si accennava all’inizio – a circolanti interpretazioni di un fascismo quasi «neutro» o – per meglio dire – promosso entro i confini della categoria, quant’altre mai storicistica e ideologica, della civiltà: ma anche questo è un segno, tra gli altri, di una più generale tendenza alla rimozione della critica, che, tra ideologie conservative della «complessità» e abbandono estetizzante all’«eventualità dell’essere» proprio del pensiero debole, rischia di radicarsi fin quasi al senso comune, se non diviene, non già terreno di una pura denuncia o reazione morale, bensì un grande problema conoscitivo e politico.
Intellettuali e consenso negli anni del fascismo (1987) – Musica e Storia