In Luigi Salvatorelli, “Spiriti e figure del Risorgimento”, Le Monnier, Firenze 1962, pp. 202-206.

In questi ultimi anni vari studiosi di storia politico-ideologica moderna hanno messo in primo piano la figura di Filippo Buonarroti (1761-1837), il pisano discendente di collaterali di Michelangelo divenuto prima dei trent’anni côrso-francese, e quindi per tutto il resto della sua vita agitatore e cospiratore rivoluzionario europeo. Da Parigi, Ginevra, Bruxelles, e ancora da Parigi, egli intessé i suoi fili propagandistici e organizzativi, pur non comparendo mai – se se ne eccettui il processo per la congiura di Babeuf – nella luce della grande pubblicità politica.
Questo rigoglio odierno di studi buonarrotiani è dovuto principalmente a due italiani, Alessandro Galante Garrone e Armando Saitta.[1] Il libro di quest’ultimo Filippo Buonarroti (Roma, Edizioni di «Storia e Letteratura») è fondamentale, per raccolta e sfruttamento di largo e importante materiale, per esattezza di interpretazione e organico ordinamento dei risultati. Il più recente libro del Galante Garrone, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (Einaudi, Torino) – con appendice di parecchi brevi testi inediti del Buonarroti – rappresenta un commento e un completamento del libro del Saitta, che segue talora passo passo. Il completamento consiste soprattutto nell’illustrazione di una quantità di figure rivoluzionarie minori, francesi, italiane, belghe, inglesi, con cui Buonarroti è stato in rapporto e sul cui pensiero e la cui azione ha avuto influenza.
Non dissimulerò che nel Galante Garrone spunta una certa tendenza (naturale, del resto, in chiunque lavori con passione su un dato argomento) al «panbuonarrotismo». Specialmente la parte, assai ampia, dedicata a Buonarroti e alla rivoluzione belga del 1830, apprezzabile per contributi particolari, mi sembra peccare di questo difetto. Insomma, l’azione (se si può chiamare così) di Buonarroti rispetto a quella rivoluzione risulta, dalla stessa esposizione del G. G., marginale e inefficace. A differenza della rivoluzione francese del ’30 quella belga non presentò nessuna possibilità concreta di sbocco democratico-repubblicano: la tesi repubblicana del Buonarroti, e di qualche belga che ebbe parte attiva nell’insurrezione, rimase allo stato di velleità. Anche le velleità possono aver menzione nella storia, ma purché vengano trattate come tali. Se Buonarroti in ogni tempo e luogo non avesse esercitato maggiore influenza che nel caso citato, sarebbe presso a poco inutile occuparsi di lui.
Invece ben diversa si presenta la fisionomia dell’attività sua per quanto riguarda i moti rivoluzionari francesi e italiani, sia durante la prima rivoluzione francese, sia avanti e dopo la seconda (quella del 1830). Basterebbero le sue relazioni con Babeuf nel primo periodo, con Mazzini nel secondo a conferirgli importanza. Ma egli non è un riflesso di Babeuf, né un battistrada o un ausiliare di Mazzini: è una figura autonoma, una personalità spiccata, un fattore fondamentale per il passaggio e il collegamento dal rivoluzionarismo settecentesco a quello dell’Ottocento. Rimane pur sempre il quesito, ottimamente formulato dal Saitta in una nota (meglio sarebbe stato porlo nel testo), circa «la efficienza o meno dell’organizzazione buonarrotiana e dei risultati positivi da essa raggiunti».
Adesso si tende da taluni a fare di Buonarroti un precursore del marxismo. Il Saitta invece ha segnato nettamente le differenze capitali fra il comunismo di Buonarroti e quello di Marx; e noi non possiamo che confermare, e se mai rafforzare, la sua diagnosi differenziale. Il comunismo di Buonarroti fa capo a Rousseau, a un Rousseau passato attraverso Robespierre e Babeuf: esso si fonda sul principio naturale umano dell’uguaglianza, non sul giuoco dialettico materialistico delle classi sociali e dei sistemi di produzione. Basta scorrere la sua Conspiration pour l’Egalité (tradotta recentemente, sotto il titolo Congiura per l’eguaglianza, da G. Manacorda presso Einaudi) per accorgersi che il suo pensiero è tutto fondato sul diritto naturale, tutto impregnato di giustizia umanitaria: proprio ciò che Marx detestava, anche se poi la passione fermentante in lui trovasse la sua via attraverso la dialettica hegeliana (di sinistra) e il materialismo storico. La stessa dittatura rivoluzionaria vagheggiata da Buonarroti per l’attuazione della sua società ugualitaria è cosa del tutto diversa – anche questo ha avvertito benissimo il Saitta – dalla marxistica dittatura del proletariato.
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Mazzini rimane distante da Marx quanto e più di Buonarroti. Questi, nonostante la sua fede nel diritto naturale e il suo moralismo umanitario, rimane assai lontano dallo spiritualismo mazziniano. La concezione filosofica così diversa dovette avere la sua parte nel dissenso fra Buonarroti e Mazzini, che pure furono in stretto contatto nei primi anni dell’esilio mazziniano. Saitta e Garrone ci disegnano tutto il percorso delle relazioni fra i due, e fra le rispettive organizzazioni rivoluzionarie, i Veri Italiani e la Giovane Italia. Era una storia nota nei grandi tratti, ma a cui essi aggiungono vivezza e precisione. Inoltre, il Saitta ha impiantato una ricerca interessante sulla influenza, sempre in quei primi anni, del pensiero buonarrotiano su Mazzini e sulla pubblicistica della Giovane Italia. Occorrerebbe collegare la ricerca a una analisi accurata del pensiero di Mazzini anteriormente all’esilio, pensiero che mostra un orientamento diverso da quello posteriore. Ho posto la questione nel mio Pensiero politico italiano, che pare sia rimasto sconosciuto al Saitta. Se l’avesse consultato, si sarebbe fatto un’idea più precisa del pensiero sociale di Mazzini, più importante, duraturo ed autonomo che a lui (e ad altri) non paia.
A parte la fondamentale differenza del «Credo» fra i due grandi cospiratori, il Mazzini aveva due punti fondamentali di dissenso col Buonarroti, fin dall’inizio. Prima di tutto, la dittatura rivoluzionaria, che Mazzini accettava, anzi esigeva, soltanto per il tempo dell’insurrezione e della guerra, e non (come Buonarroti) per l’impianto del nuovo regime. Ottenuta la vittoria sul nemico interno ed estero, toccava al popolo costruirsi il proprio edificio politico. Non già che Mazzini fosse disposto a riconoscere la legittimità e bontà di qualsiasi regime politico purché votato da una Costituente: aveva, anzi, precise esigenze politico-morali per un simile riconoscimento. Ma queste esigenze dovevano farsi valere attraverso le vie della persuasione, della propaganda: il loro adempimento doveva essere il frutto del consenso popolare. Perciò nel 1860-61 Mazzini era pronto ad accettare per l’Italia la monarchia unitaria dei Savoia, se il popolo, attraverso una Costituente, l’avesse scelta. Soltanto, per suo conto, se ne sarebbe tornato via, in esilio perpetuo.
Il secondo motivo di dissenso assorbe in sé il primo. Mazzini si rimetteva al responso del popolo perché al popolo (al popolo-nazione) attribuiva personalità autonoma, costitutiva. Dio si manifesta attraverso l’umanità; ma non attraverso una umanità indifferenziata, un pulviscolo di individui, ma organizzata per nazioni: ciascuna con una sua fisionomia, una storia, una missione. Per Buonarroti, Francia, Italia, Germania, Belgio, facevano tutt’uno: ognuno di questi paesi poteva formare la base per la rivoluzione in un altro Paese, e tutti insieme – o meglio tutti i cittadini singoli di ogni Paese – potevano e dovevano concorrere alla rivoluzione internazionale, universale.
Anche Mazzini sognava la rivoluzione universale; ma non doveva essere internazionale, bensì il risultato e il collegamento delle singole rivoluzioni nazionali. I popoli, liberati e autocostituitisi, si sarebbero senz’altro federati fra loro, realizzando l’Umanità solidale. Per quel che concerne l’impostazione del fattore «nazione» come fondamentale per la prossima storia d’Europa, Mazzini era «aggiornato», e Buonarroti antiquato. Mazzini, poi, aveva tutte le ragioni contro Buonarroti nel ritenere che per le vie battute da questo una coscienza nazionale italiana non si sarebbe affermata mai: in teoria, ci sarebbe stato naufragio dell’italianità in un amorfo internazionalismo, in pratica asservimento dell’Italia alla Francia.
Quello, però, che Mazzini allora non vedeva, era il pericolo di degenerazione della nazionalità in nazionalismo, contro quell’Umanità solidale da lui vagheggiata. Del pericolo ebbe poi ad accorgersi, con l’esperienza del ’48 e altre successive, ma senza trarne tutte le conseguenze. A tirarle avrebbe potuto aiutarlo un pizzico di spirito buonarrotiano.

Luigi Salvatorelli (1951)


Buonarroti e Mazzini (1951) – Musica e Storia


[1] Prima di questi sono tuttavia da ricordare Pia Onnis e D. Cantimori (il secondo in Utopisti e riformatori italiani); e dopo loro, adesso, Salvo Mastellone, Mazzini e la «Giovine Italia» («Domus mazziniana», Pisa, 1960, 2 voll.), la cui opera è fondamentale per i rapporti fra M. e B., e più in generale per i primi anni della G. I. Da ricordare anche gli studi di C. Francovich [1960].