Intervista a Eric Hobsbawn

A cura di Fabio Mussi e Giuseppe Vacca - «Rinascita», a. XXXIV, n. 12, 25 marzo 1977, pp. 11-13.



Eric Hobsbawn (1917-2012)



Rinascita
Eurocomunismo: è una delle grandi novità di questi anni, nell’orizzonte europeo. Come lo vedi, e cosa ti pare che possa rappresentare?

Hobsbawn Mi pare che «eurocomunismo» possa rappresentare due cose, una più ristretta ed una più generale. La più ristretta – e la più superficiale – è che i paesi dell’Europa, che sono per esempio nella Comunità europea, hanno certi problemi in comune che una volta non avevano. La più generale si riferisce all’analisi di lungo periodo dei paesi che hanno una struttura borghese sviluppata: questa comporta una specifica elaborazione delle strategie politiche, economiche, sociali, culturali, istituzionali, ecc. Una delle caratteristiche di questi paesi – culturale e istituzionale al tempo stesso – è l’esistenza di una tradizione liberaldemocratica, certo: ma questo non è un dato generalissimo. Guardiamo al Giappone, dove le valutazioni dei comunisti si avvicinano all’eurocomunismo, senza però che ci sia una consistente tradizione culturale liberaldemocratica.
Non bisogna identificare il problema dell’eurocomunismo con l’accettazione e la difesa di un tipo di istituzioni. Certamente nella maggioranza dei paesi in questione questo è un problema centrale, connesso alla egemonia borghese: essa ha provocato una interiorizzazione del suo apparato di istituzioni, accettate dalla stragrande maggioranza del popolo e della classe operaia. E per motivi legittimi, perché non si tratta di «truffe». Ma non me la sentirei di identificare la discussione sull’eurocomunismo unicamente con quella sui diritti civili.

Rinascita In Italia, da parte di intellettuali più o meno connessi all’«area socialista», si tende spesso ad una identificazione di codesto carattere. L’obiezione-tipo è la seguente: eurocomunismo è una linea di avvento al governo del movimento operaio, in particolare dei comunisti. Questo richiede una compiuta teoria dello Stato, che però non c’è nella tradizione marxista. Dunque la teoria dev’essere desunta dalla tradizione liberaldemocratica.

Hobsbawn Questo equivale ad identificare una qualsiasi teoria della democrazia e dello Stato con la teoria liberaldemocratica: il che non è giustificato storicamente. Per la stessa ragione, io credo, l’argomento, usato anche dai socialisti, che un eurocomunismo conseguente implica l’accettazione totale, una integrazione del marxismo nella tradizione liberale, non è accettabile. La democrazia liberale come quadro generale, unico e inevitabile di qualsiasi politica democratica: questa è un’esagerazione. Noi dobbiamo accettarla, certo. In primo luogo perché una certa dimensione democratica, una certa dimensione politica, di organizzazione delle attività, dei cambi politici, è essenziale (ma non è detto che l’unica forma di questa attività e di questi cambi sia quella derivata dal liberalismo storico). In secondo luogo accettiamo la dimensione democratica «classica» perché, nella misura dei suoi limiti, c’è qualcosa che è servito e serve sempre al movimento operaio come movimento di massa (nei suoi limiti, dicevo: che sono i limiti di una egemonia borghese). In terzo luogo perché nei nostri paesi – guardiamo anche l’Inghilterra, gli Stati Uniti, la Francia soprattutto – essa è diventata parte della tradizione operaia. In Francia, per esempio, la difesa della Repubblica è stata integrata nell’identità del movimento operaio: l’unità di radicali, repubblicani, socialisti ecc. contro l’aristocrazia e il privilegio è un fatto storico da accettare come un principio generale (che noi, come marxisti, abbiamo trascurato). Ma si può dire che essa sia l’unica forma concreta, addirittura l’unica ideologia da accettare? Non mi pare si possa dire. Perché identificare la democrazia e la libertà con una ideologia liberaldemocratica? «Democrazia» e «democrazia liberale» non sono le stesse cose. C’è un’illusione ottica, nello scambiarle per equivalenti.
In questo senso io vedo l’eurocomunismo come un problema generale che non è legato ad una situazione concreta, sia economica sia politica, per esempio la crisi attuale o la situazione del partito comunista in Italia in quest’epoca. Questi sono momenti concreti. Mi pare che l’impostazione possa essere molto più generale. Essa intanto prende le mosse dal riconoscimento che l’esperienza storica della rivoluzione sovietica non si è applicata, e forse non era applicabile nel senso letterale, a una quantità abbastanza grande di paesi, soprattutto sviluppati. Era necessario un ripensamento, un’elaborazione delle situazioni concrete. E poi prende le mosse dallo sviluppo, forse dovremmo dire dalla generalizzazione dello sviluppo capitalistico, soprattutto nell’epoca del secondo dopoguerra, ad altri paesi, come, per esempio, l’Italia e, in misura minore, la Spagna. Per questo la problematica contenuta in quello che si chiama ormai pacificamente eurocomunismo non è marginale all’Europa, ma abbastanza generale per i paesi sviluppati di questo continente, ed anche certi altri.

Rinascita Tu dici giustamente che l’eurocomunismo nasce dalla considerazione sulla «non applicabilità del modello» sovietico ai paesi sviluppati. Ma anche dal giudizio critico sui risultati della rivoluzione in oriente.

Hobsbawn Questo è un altro argomento, sempre presente nella nostra mente. Io personalmente non resto convinto da quanti dicono – in un paese come il mio – che il partito comunista non ha avuto successo perché si è troppo identificato con l’Unione Sovietica. È vero che la maggioranza del popolo inglese, come di altri popoli, si è resa conto degli aspetti negativi dell’Urss molto prima di noi. Ma perché il Partito comunista inglese è un piccolo partito? In fondo in Italia, anche quando l’opinione pubblica fuori del partito era molto più cosciente dei crimini dello stalinismo, il Pci era un partito di massa. Il problema è molto più serio. Secondo me non si tratta di considerazioni tattiche. Siamo noi e renderci conto che un certo sviluppo dell’Urss è stato negativo, che non vogliamo noi un socialismo che sia stalinismo e non solo perché non è accettabile all’opinione pubblica: non si tratta della tattica elettorale di cui a volte gli altri ci accusano. Soprattutto dopo il XX Congresso, e anche negli ultimi vent’anni, si sono rivelate le debolezze all’interno di questo socialismo, che si è sviluppato come un fatto storico capitale, ma in condizioni specifiche, e molto negative. È per questo che la tematica della relazione democrazia-socialismo è entrata nelle nostre discussioni, è presente nell’eurocomunismo. È un errore dire che vi è entrata perché i socialisti o i democristiani non votano per noi, se siamo stalinisti. Abbiamo smesso di essere stalinisti per altri motivi, più profondi e più seri, che riguardano l’avanzata alla società nuova, e alla sua forma.

Rinascita Questo è molto vero. Proviamo però a sottolineare anche altri due fatti: 1) dopo il ’68 questa ricerca, differenziata, di costruzione democratica e socialista, che già una serie di partiti comunisti occidentali avevano avviato per proprio conto, con maggiore o minore coscienza della diversità del modello, oltre che del processo, di società da costruire, si è trasformata nella necessità politica di prendere una iniziativa su questo terreno; 2) se è vero che questa elaborazione differenziata si è svolta per un lungo periodo intorno al problema del rapporto fra democrazia e socialismo – nel caso del partito italiano addirittura già dal ’45, dalla Costituente, ci si impadronisce dell’idea del pluralismo politico -, i partiti italiano, francese, spagnolo, vanno accettando via via più compiutamente il concetto del pluralismo politico come necessaria articolazione, su un terreno diverso dalla liberaldemocrazia, e della società di transizione e della società socialista. Secondo te, come si può storicamente differenziare i quarant’anni che ci separano dal VII Congresso dell’Internazionale comunista, e quali sono le ragioni storiche di questi due fatti? Tenendo presente che, se il ’56, la politica di coesistenza pacifica, ecc., parvero indicare che l’iniziativa sovietica poteva costituire un terreno di riunificazione del movimento operaio socialista, comunista e socialdemocratico, e di riconnessione tra classe operaia dei paesi sottosviluppati e popoli oppressi, il 1968, in particolare l’intervento in Cecoslovacchia, indica che l’iniziativa di questo sviluppo non può più prevalentemente procedere dall’Urss perché in realtà nei paesi socialisti ci sono contraddizioni profonde.

Hobsbawn È vero che nel movimento internazionale le contraddizioni si sono rivelate molto forti anche prima del 1968: dal ’60-’62 in poi. Allo stesso tempo la coesistenza pacifica, la tendenza della politica sovietica in generale, ha fatto dell’Urss una potenza che ha sempre una positiva iniziativa internazionale, ma che considera le prospettive della lotta per il socialismo prevalentemente nella chiave dei suoi interessi di nazione e di Stato. Io sono molto triste che non esista più un foro unico per le discussioni fra comunisti internazionali, che è reso pressoché impossibile, per il momento, dalla scissione tra russi e cinesi. In questa situazione mi pare logico che gruppi regionali si mettano d’accordo sui problemi in comune, senza voler imporre la loro impostazione e farne una ortodossia per gli altri. Sul problema del pluralismo non ho idee molto chiare. È certo che noi ci siamo resi conto che una delle grandi debolezze del socialismo è proprio la mancanza dei meccanismi per la discussione pubblica, e anche per la discussione fra politiche alternative. Io credo che nei socialismi futuri tali meccanismi, formali o informali, bisogna costruirli.

Rinascita Naturalmente è una questione interna anche alla classe operaia, e non solo relativa al rapporto tra la classe operaia e le altre classi.

Hobsbawn Soprattutto all’interno della classe operaia. È certo che la prospettiva di un «pluralismo» senza qualificazione implica cambiamenti abbastanza profondi e importanti nella prospettiva di una transizione al socialismo. Nella misura in cui un tale pluralismo contiene partiti operai, socialisti, comunisti e anche altri, anti-operai e capitalisti, certi riflussi storici, sconfitte dei governi progressisti sono logicamente nel conto. Questo dovrebbe condurre alla possibilità teorica di una transizione a lunga scadenza, di un’epoca di transizione verso il socialismo, piuttosto che rapida, drammatica, risolta nel momento della presa del potere, della «grande svolta»…

Rinascita … «l’occasione storica».

Hobsbawn Esatto. Finora non abbiamo abbastanza esperienze storiche per consentire un giudizio sulle possibilità realistiche di quella lunga epoca di transizione, e questo mi pare un problema non risolto.

Rinascita Però abbiamo le esperienze storiche della borghesia, e altri esempi di transizione (non da trasferire meccanicamente) che possono consentirci di fissare due punti sul pluralismo. Primo: la democrazia borghese – come tu dicevi – ci dà il modello storicamente più avanzato di egemonia proprio perché ha una dimensione pluralistica della politica.

Hobsbawn Su questo siamo totalmente d’accordo. Anch’io lo sottolineerei, molto.

Rinascita Questo vale anche per la classe operaia: sia per quanto riguarda i produttori diretti, sia per quanto riguarda tutti gli altri ceti, una dimensione pluralistica della politica rende trasparente la dislocazione di ciascuno in un confronto che ha al centro la questione della direzione generale.

Hobsbawn Certo, ma il gran problema è quello per cui in generale nell’epoca della rivoluzione borghese il pluralismo è stato piuttosto la conseguenza di una grande svolta. Forse ci sono precedenti storici – nell’Europa centrale, in Inghilterra – di una transizione verso il potere borghese, nel ‘700, nell’800, attraverso una pluralità di forze, di un’agitazione all’interno, di un lungo periodo nel quale la lotta di classe fra borghesia e aristocrazia si svolgeva nel quadro di una stabilità. Ma prima che ciò fosse possibile, c’era stata la rivoluzione del ‘600: assolutismo e rivoluzione contro l’assolutismo.

Rinascita Cromwell

Hobsbawn Cromwell. Nel ‘600 ancora la borghesia non riuscì vincitrice: ma c’era una rivoluzione che consentiva la costruzione di un quadro in cui questo pluralismo poteva operare.

Rinascita Il punto due sul pluralismo è questo: l’altra esperienza su cui possiamo elaborare qualcosa di preciso è che, se il proletariato non ha alle spalle «il ‘600», però ha l’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre, dello Stato sovietico, della rivoluzione cinese, per non parlare di altre esperienze. Molte esperienze diverse che costituiscono i punti di partenza per una riflessione. E bisogna tener presente che quelle rivoluzioni (forse a parte quella cinese) sono avvenute raccorciando al massimo i tempi della transizione e, al tempo stesso, abolendo una pluralità di espressioni politiche.

Hobsbawn Dall’altra parte mi pare che piuttosto il problema sia quello gramsciano dell’egemonia. In una situazione, sia o no rivoluzionaria, nella quale esiste una egemonia della classe operaia, dei suoi partiti e movimenti, è pensabile una transizione a lunga scadenza, attraverso un lungo periodo anche con flussi e riflussi, come in un certo modo avveniva nel corso dello sviluppo del capitalismo. Il gran problema è se è possibile stabilire una posizione egemonica di questi movimenti anche prima. Nella situazione della crisi attuale chi esercita l’egemonia? Può esercitarla la classe operaia, e così trasferire su di sé e i suoi alleati l’iniziativa storica? È il problema principale.
Dall’altra parte gli argomenti formalisti, che dicono che bisogna frammentare l’apparecchio dello Stato, ecc., mi paiono superficiali. Tutto sommato questo è l’aspetto secondario dell’altra questione, ben più grande, dell’iniziativa storica: a chi, a lunga scadenza, sarà utile una tale politica?

Rinascita Ma in questa chiave, come vedi tu il problema di un rapporto nuovo tra comunisti, socialisti e socialdemocratici, in Europa? La crisi di cui tu parli con tanta insistenza non è solo di strutture economiche, ma anche di regimi politici: in Rft la socialdemocrazia governa con un voto di maggioranza, in Svezia ha perso la maggioranza dopo quasi mezzo secolo, in Inghilterra non c’è certo stabilità. C’è, per questo, la possibilità di un rapporto nuovo dentro – ma non solo dentro – il movimento operaio?

Hobsbawn Dipende dalle concrete situazioni dei singoli paesi. Abbiamo, nei paesi dell’Europa del sud, una situazione nella quale in generale la socialdemocrazia è abbastanza debole, e invece i partiti comunisti sono partiti di massa; invece nei paesi dell’Europa del nord la situazione è opposta: i partiti comunisti, con certe eccezioni, sono marginali – anche se esercitano una funzione importante in certi aspetti della vita sindacale (o anche politica, come in Svezia) – e non c’è dubbio che qui il problema fondamentale è quello della trasformazione della funzione dei grandi partiti socialdemocratici di massa, perché sarebbe per lo meno utopico pensare ad un trasferimento massivo, della classe operaia dalla socialdemocrazia ad un partito più rivoluzionario. Quindi, ci sono differenze specifiche, storiche, enormi, perché la tradizione, e anche la teoria dei partiti comunisti, è tutt’altra che la tradizione e l’analisi dei partiti socialdemocratici. I comunisti di tutti i paesi – almeno speriamo! – hanno sempre il senso nella necessità di una trasformazione socialista come cosa urgente. Invece – con tutti i loro meriti, che sono tutt’altro che trascurabili – i socialdemocratici, magari da due o tre generazioni, come in Svezia, pensano a migliorazioni non direttamente connesse alla costruzione del socialismo.

Rinascita Però queste politiche, oggi, sono in una crisi.

Hobsbawn Queste politiche sono in una crisi. Il carattere di questa crisi è da analizzare. Ci sono due fenomeni paralleli: 1) la crisi generale del capitalismo. È cominciata nei primi anni ’70, ma dal ’68 in poi si è potuto vedere che la «grande congiuntura», l’età dell’oro del capitalismo degli anni ’50-’60, è entrata in un declino. Adesso siamo in una crisi. Non è come quella degli anni ’30, che era quasi la catastrofe, ma piuttosto una crisi paragonabile alla cosiddetta «grande depressione» di fine ‘800, quando dopo un’epoca di grande sviluppo, ci furono circa 25 anni di marasma: persisteva l’enorme accrescimento quantitativo della produzione, però il meccanismo dell’accumulazione non sembrava funzionare come prima. Anche la crisi di questi anni ’70 non è una breve interruzione del ciclo, ma l’inizio di un abbastanza largo periodo di questo tipo di marasma, che non impedisce l’aumento globale dell’economia; 2) la contraddizione interna del trasferimento dal capitalismo liberale al capitalismo monopolistico statale burocratico. È stato il risultato proprio della crisi degli anni ’30, che consentì un risveglio, a certi grandi prezzi però. Prezzi strutturali, come la burocratizzazione della vita. Cioè, quel complesso di rapporti che dal punto di vista soggettivo spiegano una disillusione, una crisi ideale, ecc., cioè, quel genere di sentimenti che furono propri del movimento dei giovani del ’68, ed anche della classe operaia, la consapevolezza che qualcosa non funzionava di questo nuovo capitalismo, economicamente ricco, ma tendente a ridurre l’uomo in situazioni parassitarie. Non è un aspetto facilmente reversibile.

Rinascita Tu pensi al pericolo di un esito catastrofico di questo lungo periodo di depressione.

Hobsbawn Anche. Catastrofico soprattutto nei paesi più deboli e marginali: l’Italia e l’Inghilterra, per esempio. La loro crisi ci parla oggi proprio delle debolezze della loro «alta congiuntura», dell’«età dell’oro» di 15-20 anni fa.

Rinascita In che senso tu dici che questo sviluppo del capitalismo organizzato, come «pattern» principale della ristrutturazione autoritaria dell’economia e del governo delle masse che comincia in maniera più diffusa a partire dagli anni ’30, determina «una situazione irreversibile»?

Hobsbawn Direi che esso contiene certi elementi di una socializzazione, di una presa di responsabilità diretta da parte della comunità: la pianificazione, il management, ma anche tutto l’apparecchio della sicurezza sociale. Però senza elementi di socialismo: prevale una rivoluzione passiva. Questa è la contraddizione principale, a lunga scadenza. Uno dei risultati della rivoluzione passiva è che alla fine, in fondo, la gente non è soddisfatta. La situazione, per lo sviluppo ulteriore delle forze produttive e del movimento operaio, è molto più complessa.

Rinascita Tu non hai l’impressione che, quando da molte parti si parla di «crisi del marxismo» si vuol dire appunto della sua inadeguatezza rispetto all’enorme espansione e diffusione dell’etico-politico nella rivoluzione passiva, avvenuta attraverso l’organizzazione e il controllo delle masse dall’alto – anche se le masse, su scala europea, non sono solo passive, ma reagiscono anche attraverso la nascita, dal cuore di questa rivoluzione passiva, di movimenti o che esprimono già compiutamente contenuti nuovi o che alludono a contenuti nuovi?

Hobsbawn Non direi che le masse sono passive, in questa situazione. Reagiscono, a volte anche in modo subculturale, non politico. Ci sono bisogni umani, degli esseri umani contro i grandi apparecchi, le macchine umane. Non dimentichiamo che l’epoca della grande depressione, di cui si parlava, è l’epoca del grande balzo in avanti dei movimenti operai e socialisti europei. E così, nella situazione di oggi, io non vedo solo pericoli.
Certo, la crisi del marxismo è un riflesso di una situazione, della mancanza di un’analisi. Per un lungo periodo la nostra analisi è stata a posteriori. Qualche anno dopo i fatti, spesso ci siamo detti: ci eravamo sbagliati. Il «crollo finale» aspettato nel dopoguerra non si è realizzato, abbiamo visto in ritardo i lineamenti reali dell’«alta congiuntura». Io credo però che la «crisi del marxismo» sia un sintomo del cattivo marxismo. Il punto è che una buona analisi del mondo oggettivo dovrebbe consentire una buona previsione. E invece abbiamo previsto poco. Le cose che vedevamo non erano tanto accettabili per noi, non ci piacevano. E invece, il vecchio principio di Gramsci, «pessimismo dell’intelligenza»… bisogna anche saper riconoscere ciò che non piace, nel mondo.

Rinascita Ma quali conclusioni ne trai, di un tramonto del «marxismo come scienza», della sua capacità di interpretazione e di previsione, o della necessità di un sviluppo? Perché in verità una discussione accanita si svolge su questo, e si può andare in due direzioni diametralmente opposte.

Hobsbawn Io credo che il marxismo, in questo momento, stia diventando più capace di analizzare la realtà, perché si è liberato dalle ortodossie, esterne ed interne. Adesso, in una situazione di crisi, c’è una grande spinta a capire. Mi pare che il grande ostacolo, in questi anni, è stata la deviazione del marxismo verso le astrazioni più rarefatte.

Rinascita Un «servizio filosofico», forte? Pensi ad Althusser?

Hobsbawn No, no, non penso solo ad Althusser. Un vizio filosofico, forse. Si è dimenticato che per Marx l’anatomia della società civile era proprio l’economia politica. E invece ci si è prevalentemente rivolti all’epistemologia e alla filosofia. Che hanno avuto tra l’altro la funzione politica di consentire qualsiasi strategia e tattica, indipendentemente dalla base materiale. Mi pare che bisogna ricondurre l’analisi marxista alla realtà concreta dell’economia e delle tendenze della società. Non nel senso superficiale dell’andamento quantitativo, ma proprio delle grandi tendenze dello sviluppo capitalistico, che sono molto più differenziate, in questo momento.

Rinascita E nei paesi socialisti?

Hobsbawn Di marxismi ce ne sono tanti, e anche una tale ossificazione scolastica, una teologizzazione tale, che in molti casi non può servire molto all’analisi concreta. È in crisi proprio il dogma di un «marxismo internazionale», anzi, esso non esiste proprio più.

Rinascita Questa non sarebbe una grande perdita. A condizione che…

Hobsbawn «A condizione che», esatto. Nei paesi socialisti, per esempio, si trovano analisi marxiste importanti, però il marxismo come «manifesto ufficiale», produce ormai più poco. Anche in certi paesi, come la Francia, e l’Italia, c’è un certo rischio di pensare i problemi della politica attuale solo in termini di voti, di alleanze, diciamo in termini «trasformisti». È un pericolo.

Rinascita Nella tua relazione al convegno del Politecnico, tu hai presentato l’opera di Gramsci come un grande tentativo di elaborazione teorica, dopo la Seconda e Terza Internazionale, di una ricchissima esperienza organizzativa, politica, sindacale, del movimento operaio, giunta ormai a livello dello Stato senza possedere gli strumenti per inaugurarne una nuova direzione. Diresti che il problema oggi si ripresenta negli stessi termini?

Hobsbawn Certo che si presenta la necessità di un grande sforzo teorico, se è vero che siamo entrati in una nuova fase. Anche per l’eurocomunismo è necessario non presentarsi come una «ideologia» regionale. Per esempio: nei rapporti tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati, proprio in questa ultima epoca si vanno creando nuove tendenze e nuove possibilità che devono essere integrate da una analisi allo stesso tempo strutturale e politica. C’è una certa tentazione di trascurare il quadro generale, di concentrare l’attenzione sui paesi industriali sviluppati. E dunque poi di incappare nel pericolo di farsi catturare in una «rivoluzione passiva» di portata mondiale. Badate che è facile, soggettivamente, alla fine pensare: insomma, questi indiani sono sempre stati affamati; non è un problema nuovo quello che li riguarda. E invece sì. Su scala mondiale il loro peso oggi è effettivamente ben diverso dal passato. Il capitalismo tende a trasferire molte sue operazioni a queste masse affamate e che costano poco: con conseguenze dirette, per noi. La questione dell’internazionalismo si ripropone in termini forse più concreti ancora, non solo politico-morali, e su scala planetaria.

Rinascita Nelle attuali formulazioni della politica internazionale del nostro partito, quello che ora dici è forse l’elemento centrale.

Hobsbawn Pienamente giustificato. Ed è per questo che insisto sul fatto che l’eurocomunismo non può essere l’ideologia ristretta di un movimento da paesi sviluppati. Il terzo mondo è già dentro il «primo» e il «secondo»: non c’è più frontiera tra metropoli e colonia.

Rinascita Allora, c’è un rapporto tra tutto questo e la nostra discussione su Gramsci, si può parlare di una «attualità di Gramsci» su scala europea, e in che limiti se ne può parlare?

Hobsbawn Avete visto la discussione qui a Londra. Il fatto che molte centinaia di giovani si riuniscano qui per discutere Gramsci, è la prova che il pensiero gramsciano è considerato qualcosa di rilevante anche fuori d’Italia. Ed è stata una discussione intelligente, nel senso che ha effettivamente tentato il collegamento tra queste idee, altre esperienze, e i problemi concreti di un paese che Gramsci quasi non ha conosciuto. Non c’è bisogno del giudizio mio: l’esperienza concreta pare dimostrare il fatto che le idee di Gramsci hanno una attualità, almeno in questo paese. Ma penso che in altri paesi e in altre situazioni si potrebbero organizzare convegni paragonabili. La rivalutazione dell’elemento della politica, nella lotta per l’egemonia e nella costruzione del socialismo, è una cosa della cui importanza oggi siamo tutti più coscienti.