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    Predefinito Comunismo e capitalismo? Due facce della stessa medaglia: il globalitarismo!

    Per cinquant’anni il modello capitalista e quello comunista si sono confrontati e contrapposti nei due blocchi occidentale statunitense e orientale sovietico.

    Dopo il crollo dell’impero sovietico abbiamo pensato che il comunismo come modello economico e sociale si fosse dissolto e analogamente in questi ultimi anni con la crisi globale del mondo finanziario siamo indotti a pensare che anche il capitalismo stia esaurendo la sua funzione storica.

    Ma è veramente così? La tesi che vorrei esporre in questo breve contributo è che i due modelli apparentemente in totale antitesi tra di loro in realtà fossero due facce della stessa malefica medaglia e che adesso dopo aver fatto credere di essere entrambi tramontati si stiano definitivamente fondendo in un unico modello dispotico ed autoritario globale. Quello che potremmo chiamare Globalitarismo.

    Come dicevo la dissoluzione del blocco sovietico ci ha fatto pensare che il comunismo come modello economico e sociale fosse scomparso, che l’unico modello “giusto” fosse il capitalismo e che lo si dovesse sviluppare a pieno eliminando qualsiasi limite o regolamentazione alle sue dinamiche “naturali” (la “deregulation” neoliberista americana), facendo un atto di cieca fiducia in quella che veniva chiamata la “capacità di autoregolamentazione del mercato”.

    Le uniche auto-regole che in realtà il mercato libero ha dimostrato di avere sono state la cupidigia e l’avidità.

    Da quel momento infatti sono cominciate una serie impressionanti di “bolle speculative” prima sui titoli internet alla fine degli anni novanta, poi sull’immobiliare nei primi anni zero del nuovo secolo, poi la crisi del credito sub prime nel 2008 e oggi la crisi dei debiti sovrani. La logica è sempre la stessa: i primi fanno enormi guadagni rivalendosi sui nuovi arrivati che entrano nel gioco finanziario, e la cosa si autoalimenta intanto che la base di chi partecipa si amplia sempre di più. Ma la cosa non potendo andare avanti all’infinito ad un certo punto finisce e gli ultimi arrivati pagano il conto per tutti restando col cerino in mano. Si chiama “catena di Sant’antonio”. Alla fine nella “finanza per la finanza” tutto si riduce sempre a questo. Ad un’enorme truffa, ad una sottrazione di ricchezza ai danni di chi lavora, perché il denaro è sempre “lavoro lavorato” da qualche individuo. Un terribile “gioco delle tre carte” dove chi vince è sempre il più furfante di tutti anche se vestito in giacca e cravatta e al comando di una grande multinazionale della finanza.

    Quello che a questo punto risulta evidente dopo quasi tre secoli di capitalismo e di crisi finanziarie assolutamente non previste se non a posteriori, è che il capitalismo non funziona. Ma cosa c’è che non funziona nel capitalismo? E’ opinione comune che molti se non tutti i mali del capitalismo provengono dalla concentrazione eccessiva della proprietà e dei relativi profitti e dalle storture che l’eccessivo potere concentrato nelle mani di pochi causa al mercato e soprattutto alla concorrenza. La tendenza insita del capitalismo è la progressiva concentrazione in sempre meno soggetti della proprietà, la conseguente formazione di gruppi economici sempre più grandi dove il numero dei proprietari diminuisce sempre di più rispetto al numero dei salariati che invece aumenta a dismisura.

    Ma se la proprietà e quindi i profitti si concentrano sempre di più, una parte sempre più larga della popolazione diventa salariata e quindi esclusa dalla divisione dei guadagni. Le grandi aziende tentano di ridurre i costi e massimizzare i profitti proprio riducendo i salari. I salariati diventano più poveri e diminuisce la loro capacità di spesa, i mercati si deprimono perché la gente riduce gli acquisti innescando la recessione ed ecco quindi il sistema che genera da solo la sua stessa crisi.

    Al problema di si è sopperito per oltre quarant’anni con il micro debito diffuso. Dagli anni sessanta per consentire alle persone di comprare anche quando avevano finito i soldi gli si è consentito di indebitarsi anche per piccole somme (carte di credito, carte di debito, fino ad arrivare ai famosi prestiti sub prime cioè facilissimi etc etc). Ma questo non fa altro che ritardare il collasso che però puntualmente si ripresenta al turno successivo ma molto più grave.

    Oggi siamo forse all’epilogo: la crisi dei debiti sovrani degli stati.

    Questi sono gli effetti della enorme concentrazione di capitali e di proprietà nelle mani di pochissimi soggetti che il sistema capitalistico genera. E che dire allora del sistema comunista?

    Marx aveva capito che tutta la questione sta nella proprietà. Ma se il capitalismo è male perché concentra troppa proprietà nelle mani di troppo pochi individui, il comunismo è peggio perché concentra tutto nelle mani di fatto di un unica entità: lo stato, che secondo un’interpretazione rivelatasi del tutto sbagliata doveva corrispondere alla proprietà collettiva e che invece si è rivelata la proprietà di un partito politico, un’organizzazione esattamente funzionante come una enorme multinazionale capitalista.

    In quest’ottica allora si capisce perfettamente come sia stato possibile che la Russia e soprattutto la Cina si siano convertiti così rapidamente al capitalismo più sfrenato. E’ bastato sostituire allo stato proprietario di tutto una piccola oligarchia di mega proprietari. Ecco fatto, ecco creata una società supercapitalistica con enormi concentrazioni di potere e di ricchezza.

    E allora il punto è distribuire la proprietà, o meglio ostacolarne l’eccessiva concertazione e favorirne la divisione in piccole proprietà, le medie piccole e micro imprese, perché questo garantisce che i profitti che si generano siano in partenza distribuiti nel maggior numero di persone possibili.

    Se invece id un’unica azienda di 100 persone i cui profitti vanno solo al capo, si avessero dieci aziende di dieci persone ciascuna come minimo i profitti si distribuirebbero a 10 persone invece che ad una sola.

    Se poi ciascuna di queste dieci aziende fosse una piccola società dove le azioni fossero distribuite tra gli stessi dipendenti allora sarebbe il massimo.

    I profitti sarebbero divisi tra tutti, tutti vedrebbero aumentare le proprie condizioni e possibilità di acquisto e il sistema prospererebbe in modo continuo e senza intoppi.

    Quella del “distributismo” è una teoria che ha delle radici risalenti a quasi un secolo fa. Dallo studio della Rerum Novarum di Leone XIII alcuni studiosi tra cui G.K. Chesterton, V. Mc Nabb e H. Bellok, svilupparono questo approccio economico che proprio negli ultimissimi anni sta avendo negli ultimi tempiuna certa diffusione negli stati uniti.

    Nella riduzione semplicistica della lotta politica tra capitalismo e comunismo durante la guerra fredda il distributismo non ha avuto modo di diffondersi ma adesso sta tornando a diffondersi e a fare proseliti proprio grazie alla venuta meno dei due modelli come finta competizione tra due blocchi geopoliticamente antagonisti.

    Negli stati uniti è nata recentemente una rivista distributista sul web www.

    distributistreview.com e un certo dibattito su questi temi che sta riscuotendo un interesse crescente. Il recentissimo libro di John Medaille “Toward a trulli ree market” propone una reale alternativa “umana” all’attuale sistema sociale e statuale “meccanicistico” funzionale al capitalismo.

    Più che una terza via rispetto al comunismo e al capitalismo il distributismo è una via diversa da quella della concentrazione della proprietà di cui comunismo e capitalismo non sono che due versioni non poi così diverse tra di loro, due facce della stessa medaglia.

    Io penso che lì’Italia con l’enorme diffusione della casa di proprietà e con l’estrema parcellizzazione delle sue attività produttive sia il Paese che più di ogni altro potrebbe con successo evolversi verso un modello distributista.

    Forme cooperative, piccole realtà produttive a conduzione familiare, interi distretti industriali che nel loro insieme si possono assimilare a mega aziende ma che sono però organizzati come cluster di tante piccole unità indipendenti e autonome, sono realtà che già esistono e funzionano egregiamente nel nostro paese. Se solo avessimo una classe politica capace di capire quale grande ricchezza abbiamo in questa struttura produttiva e riuscisse a favorirla e ad incoraggiarla saremmo di gran lunga uno dei paesi più prosperi ed avanzati in assoluto. Credo sia il modello verso cui sia assolutamente necessario andare, anzi dovremmo dire più correttamente verso cui la natura dell’uomo tenderebbe autonomamente una volta sottratta alle tirannie del sistema globalitario della finanza mondiale Anche le grandi aziende tenderanno a riorganizzarsi in questo modo, in unità indipendenti ma coordinate tra di loro.

    I giganti capitalistici non funzionano, diventano palloni finanziari senza nessun collegamento con la realtà del lavoro e della produzione, mostruosi sciacalli che imparano ad alimentarsi solo divorando e distruggendo altre realtà. Questo capitalismo moderno è figlio delle scorrerie dei pirati olandesi e inglesi del XVI secolo, campioni del’”iniziativa privata” ma non molto rispettosi della “proprietà privata”.

    Così i “trichechi” del capitalismo multinazionale cercano continuamente nuove “ostrichette” da ingannare, nuove vittime della loro voracità, loro li chiamano “nuovi mercati” ma in realtà si tratta di nuove terre da colonizzare, da infettare con il morbo dello schiavismo capitalistico, del proletarismo feudale, della servitù della gleba finanziaria. Nuove culture da annichilire con la loro pubblicità globalizzante e con la loro “pubblicità”, una scuola di menzogne che vuole imporre un mercato delle cose che non servono comprate con i soldi che non si possiedono.

    Oggi il nuovo orizzonte di questi mostri è “conquistare” interi stati nazionali, stritolandoli nella morsa del debito da loro stessi alimentato, ed esigendolo proprio nel momento di crisi, accerchiandoli con le loro squadracce finanziarie internazionali, per infine sottrarre loro la sovranità nazionale e “sottomettere” intere popolazioni alle loro gabelle, ai loro ingiusti e odiosi tributi.

    La speculazione internazionale (i super capitalisti globali, i pronipoti dei pirati per intenderci, quelli che giocano a golf tutto il giorno e allo stesso tempo riscuotono gabelle e corveè dai loro sudditi economici globali) si sono serviti del loro racket internazionale (Banca Mondiale, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale) per espropriare parte della sovranità nazionale greca e costringere i cittadini greci a diventare loro “servi della gleba”

    sottomettendoli alla corvée di nuove tasse e sacrifici. Piccolo antefatto che pochi conoscono: nel decennio dal 2000 al 2010 una delle quinte colonne della super speculazione mondiale, la Goldman Sachs a cui l’ingenuo (e corrotto) governo greco aveva affidato la gestione del proprio debito (guardacaso il nostro Draghi, futuro presidente della BCE, come uomo Goldman Sachs era coinvolto in questa bella avventura), aveva da un lato truccato i dati sul debito pubblico tranquillizzando il governo greco e dall’altro favorito la conclusione di contratti tra lo stesso governo greco e le solite multinazionali (tra cui Siemens) stipulati grazie anche ad una certa dose di corruzione degli stessi funzionari governativi greci.

    Alla fine con la crisi mondiale, la caduta del prodotto interno della Grecia e l’esplosione percentuale del PIL, i creditori hanno chiesto di “rientrare” e sono entrati in azione gli squadristi finanziari di cui sopra (FMI BCE BM) per costringere la Grecia a pagare i debiti con maggiori tasse per i suoi cittadini.

    Siccome molte delle multinazionali creditrici della Grecia erano fabbriche d’armi francesi e tedesche, Parigi e Berlino hanno approvato gli “aiuti” alla Grecia (che altro non sono che nuovi debiti per pagare i vecchi debiti) a patto che la Grecia confermasse gli impegni economici presi con le multinazionali delle armi francesi e tedesche. Quindi i cittadini greci hanno perso la loro sovranità economica e sono oggi sono obbligati a maggiori sacrifici per pagare le multinazionali dell’industria bellica francesi e tedesche. Sono diventati dei “servi della gleba finanziaria”.

    Questo è quanto è già successo alla Grecia e quanto quei signori, che sui giornali si chiamano “la speculazione internazionale” vorrebbero far capitare all’Italia. Ma c’è un’alternativa, come già in molti in questo sito abbiamo scritto: fare come è successo in Argentina , in Ecuador e in Islanda. Resettare tutto facendo una rivoluzione, ma non nel senso Gattopardesco e Giacobino del “cambiare tutto per non cambiare nulla” ma nel senso latino di revolver, tornare indietro, tornare ad un modello di società basato sulla natura umana.

    Non sovvertendo ma facendo “evolvere” il sistema economico e fiscale verso una struttura più snella e che favorisca innanzitutto le medie piccole e micro aziende, cioè la ricchezza vera e la proprietà vicina al lavoro produttivo autentico, che promuova e faciliti la proprietà privata dei singoli, la proprietà della casa, e la cooperazione tra i lavoratori e tra i gruppi di lavoratori, che renda sconvenienti le aggregazioni e le concentrazioni di proprietà, che introduce nuovi reati come ad esempio il reato di “dumping” (la concorrenza sleale di chi vende sottocosto per distruggere un piccolo concorrente) e il reato di “vendita allo scoperto” (chi vende delle azioni senza averle), e ridimensionando in questo modo il ruolo della finanza e dei grandi poteri finanziari.


    https://www.magdicristianoallam.it/b...litarismo.html

  2. #2
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    Predefinito Re: Comunismo e capitalismo? Due facce della stessa medaglia: il globalitarismo!

    Comunismo e capitalismo, Finti nemici


    http://appuntiitaliani.com/comunismo...-finti-nemici/

  3. #3
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    Predefinito Il comunismo è davvero morto?

    Il comunismo è davvero morto?

    Il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 segnò la fine dell’esperimento comunista più lungo della storia recente. Molti videro questo evento come la prova che il comunismo (o il marxismo-leninismo, userò questi termini in modo intercambiabile) non era un’ideologia attuabile. Dopo tutto, quando in Russia il comunismo è formalmente terminato nel 1991, anche i cinesi si sono allontanati in segreto da esso, sostituendolo con un tipo di capitalismo unicamente cinese. Infine, nessuno degli ex “alleati” sovietici ha scelto di attenersi all’ideologia comunista non appena hanno recuperato la propria libertà. Anche il tipo di comunismo di Chavez ha portato ad un Venezuela completamente fallito. Allora, cosa c’è da discutere?

    In realtà, molto, a cominciare da ogni singola parola del paragrafo precedente.

    Comunismo – il passato:

    Per prima cosa, l’Unione Sovietica non è mai crollata. È stata smantellata dall’alto dai leader del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, che decisero che la nomenklatura sovietica si sarebbe divisa la “torta” sovietica in 15 fette più piccole. Quello che successe in seguito non fu altro che il risultato di un conflitto fra queste fazioni. Poiché nessuno ha mai dato il potere a queste bande di membri dell’apparato di partito di sciogliere l’URSS o, in effetti, di riformarla in alcun modo, le loro azioni possono essere qualificate solo come un colpo di Stato totalmente illegale. Tutti, a partire dalle bande di Gorbachev e Eltsin, erano dei traditori del loro partito, del loro popolo e del loro paese. Per quanto riguarda il popolo, solo in un’occasione ha avuto il diritto di esprimere la propria opinione, il 17 marzo 1991, quando un enorme 77,85% votò per mantenere “l’URSS come una federazione rinnovata di repubbliche sovrane uguali in cui i diritti e le libertà di un individuo di qualsiasi nazionalità verranno pienamente garantite” (si veda qui [in inglese] per una bella discussione su questo voto ormai dimenticato). Non c’è stato un collasso, c’è stato un colpo di Stato o, per essere ancora più precisi, una serie di colpi di Stato, tutti eseguiti da traditori dell’apparato di partito in totale illegalità e contro la volontà del popolo. Alcuni obietteranno che il Partito Comunista era pieno di traditori. Ma a meno che non si riesca a spiegare e dimostrare che il comunismo genera in modo sistematico e in qualche modo unicamente traditori, questa accusa non ha alcun merito (così come i Cristiani non hanno tradito la Cristianità, i democratici la democrazia o i fascisti il fascismo).

    Secondo, il comunismo è un’ideologia attuabile? Beh, per prima cosa, ci sono due scuole di pensiero all’interno dell’ideologia marxista. Qualcuno dice che il comunismo può essere raggiunto in un unico paese, qualcun altro dice di no, perché il comunismo diventi possibile è necessaria una rivoluzione mondiale. Per prima cosa mettiamo da parte la prima scuola di pensiero e guardiamo alla seconda. Ciò sarà comunque complicato poiché tutto ciò che dobbiamo giudicare è la sua correttezza empirica in un elenco relativamente piccolo di paesi. Ho già sentito l’obiezione: “cosa? La Russia sovietica, la Cina maoista, la Cambogia di Pol Pot e, diciamo, la Corea del Nord di Kim Il-sung non bastano?”. In realtà, no. Per prima cosa, secondo l’ideologia ufficiale sovietica, il comunismo in quanto tale non è mai stato raggiunto nell’Unione Sovietica, solo il socialismo. Ecco perché il paese è stato chiamato Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Il comunismo era visto come un obiettivo, il socialismo come una fase inevitabile, intermedia, transitoria. Dire che il comunismo in Unione Sovietica ha fallito è semplicemente logico come affermare che una casa costruita a metà non è riuscita a fornire un riparo confortevole. La Cina, ovviamente, non è “fallita”, tanto per cominciare, la Cambogia di Pol Pot è stato probabilmente un (terribile) tentativo di costruire una società veramente comunista dalla notte al giorno, ma che in sé contraddice la Teoria Materialista Storica e Dialettica del Marxismo, che afferma la necessità di una fase socialista transitoria. Per quanto riguarda la Corea del Nord, la sua ideologia non è il marxismo o il comunismo, ma la Juche, che è al massimo una lontana parente. Quindi no, questi pochi esempi non rappresentano quasi nulla, anche solo perché forniscono un campione troppo piccolo per essere rilevante e perché nessuno di essi si qualifica come “caso che fa precedente”.

    Ora tornando all’argomento “il comunismo non può essere raggiunto in un unico paese”, guardiamo ad esso da una pura posizione ideologica americana del genere rossa-bianca-e-blu e ricordiamo che ai proponenti del capitalismo in stile statunitense piace ricordarci che è stata la corsa agli armamenti di Reagan che ha mandato in bancarotta l’Unione Sovietica, che non è riuscita a tenere il passo con essa. Altri orgogliosi patrioti americani amano anche dire che, beh, gli USA hanno abbassato il prezzo del petrolio, rendendo impossibile ai sovietici continuare a spendere, e che è stato questo crollo dei prezzi che ha fatto collassare l’economia sovietica. Personalmente trovo queste tesi stupide e ignoranti, ma le accettiamo come evidentemente vere. Non dimostrano che l’URSS sia crollata a causa di fattori esterni, e non a causa di qualche difetto interno intrinseco?

    La formazione moderna (non la definirei “educazione”) non dà veramente importanza alla logica, quindi farò la seguente domanda retorica: se accettiamo che il capitalismo ha sconfitto il comunismo, questo dimostra che il comunismo non è attuabile o che il capitalismo è superiore? Ai molti che (purtroppo) risponderanno “sì” vorrei suggerire che se si chiudono una iena e un essere umano in una gabbia e li si costringe a combattere per le risorse, è meno probabile che l’uomo vinca. Ciò dimostra che l’uomo non è autosufficiente o che la iena è “superiore”?

    Il marxismo-leninismo afferma chiaramente che il capitalismo è basato sull’oppressione del debole, e che l’imperialismo è lo stadio più alto del capitalismo. Non dobbiamo essere d’accordo con questa teoria (anche se personalmente lo sono molto), ma non può essere respinta semplicemente perché non ci piace. Infatti, vorrei affermare che essere in disaccordo con essa dovrebbe essere un elemento chiave di ogni seria confutazione del comunismo. Ma, per farla breve, tutto quello che dirò è questo: qualsiasi persona che ha effettivamente viaggiato in Asia, Africa o Sud America attesterà che i paesi comunisti (URSS, Cina, Cuba) hanno effettivamente inviato enormi aiuti, inclusi materie prime, tecnologie, specialisti, dottori, consiglieri militari, agronomi, ingegneri per la purificazione dell’acqua ecc. Al contrario, chiedete a chiunque in questi continenti cosa porta il capitalismo e otterrete la stessa risposta: violenza, sfruttamento e sostegno ad una banda dominante di Compradores locali. A chiunque metta in dubbio questo, posso solo raccomandare una cosa: cominciate a viaggiare nel mondo.

    [Nota a margine: E quindi sì, usare la iena come simbolo del capitalismo nella mia allegoria è giusto. Per quanto riguarda la “gabbia” – è semplicemente il nostro pianeta. Quello che credo sia sbagliato è equiparare il comunismo ad un essere umano. Ma ciò, a questo punto della nostra conversazione, è il mio parere personale e non è affatto un argomento. Sono stato un anticomunista per tutta la mia vita, e lo rimango ancora, ma questo non è un motivo perché io accetti argomenti anticomunisti logicamente fallaci e contro-fattuali.]

    A questo punto della conversazione, il mio tipico interlocutore capitalista mi bombarderebbe con slogan come “amico, in ogni società comunista la gente votava con i piedi, hai dimenticato i boat people, i Marielitos o le persone che saltavano il Muro di Berlino?” o “ogni singolo paese dell’Europa orientale ha abbandonato il comunismo non appena i carri armati sovietici se ne sono andati – questo non ti dice nulla sul comunismo?”. Di solito la persona che pronuncia questi slogan ha un barlume speciale negli occhi, un senso di inevitabile trionfo, quindi è particolarmente gratificante osservarli prima di sfatare tutte queste assurdità.

    Cominciamo con l’argomento del voto coi piedi. È un’assurdità assoluta. Sì, è vero, alcune persone sono fuggite dalle società comuniste, ma la grande maggioranza non lo ha fatto. E per favore non ditemi “le loro famiglie erano tenute prigioniere” o “la polizia segreta era presente ovunque per impedirlo”. La verità è molto più semplice:

    Il “fattore spingente”: Tutte le famose ondate di persone che sono emigrate dalle società comuniste sono legate a crisi profonde in questi paesi, crisi che hanno avuto molte cause, incluse quelle per lo più esterne.

    Il “fattore traente”: In ogni caso, il potente sistema propagandistico occidentale è stato usato per convincere queste persone ad emigrare, promettendo loro “latte e miele” se scappavano.

    Mi dispiace distruggere le ingenue illusioni di qualcuno, perché in qualità di persona che ha lavorato per diversi anni come interprete-traduttore che interrogava i candidati allo status di rifugiato politico, posso dimostrare che la grande maggioranza dei rifugiati politici non è niente di simile: per lo più sono rifugiati economici, e pochi sono rifugiati sociali, il che significa che alcune circostanze personali gli hanno fatto decidere che emigrare era meglio che rimanere. Ho interrogato centinaia di profughi dall’Unione Sovietica, e tutte le loro storie di repressione politica sono state ridicole, soprattutto per una persona come me che sapeva come funzionava la (vera) repressione politica in Unione Sovietica. A coloro che sostengono che il comunismo provoca inevitabilmente crisi economiche, vorrei solo fare riferimento alla discussione precedente su cosa, se non nulla, possiamo concludere dai pochi esempi di società marxiste nella storia.

    [Nota a latere: A differenza del 99,99% delle persone che leggono queste parole, ho passato molti anni della mia vita come noto attivista anti-sovietico. Ho viaggiato in vari porti dove erano ancorate le navi sovietiche per distribuire letteratura anti-sovietica, ho fatto un elenco di edifici in cui i diplomatici sovietici erano soliti vivere per imbucare documenti anti-sovietici nelle loro cassette postali, ho contribuito ad inviare denaro alle famiglie dei cristiani ortodossi imprigionati nei penitenziari e nei campi di lavoro sovietici, ho organizzato contatti illegali con i cittadini sovietici che viaggiavano all’estero (camionisti, artisti, ingegneri navali, ecclesiastici, circensi – chiunque). E ci sono cose che ho fatto di cui ancora non posso parlare pubblicamente. E non ho mai partecipato ad alcuna azione violenta, ma ho sicuramente fatto tutto quello che potevo nel campo della guerra ideologica per abbattere il comunismo in Russia. Di conseguenza, il KGB (ormai defunto) mi aveva schedato come un provocatore pericoloso, e aveva pubblicato la mia foto negli uffici di specifiche agenzie sovietiche all’estero (come il Sovhispan in Spagna) per avvisarle di me. E lasciatemi dire la verità: la maggior parte di quei cittadini sovietici che non amavano il sistema sovietico non hanno mai provato ad emigrare. Il problema qui non sono le famiglie tenute in ostaggio o il “KGB onnipotente”, ma il fatto di amare il tuo paese anche quando odiate il regime al potere. Peggio ancora, la maggior parte di coloro che hanno disertato (e personalmente ne ho aiutato parecchi) si sono ritrovati per lo più in miseria quando sono arrivati in Occidente, le loro illusioni si sono infrante in meno di un anno, e tutto quello che gli è rimasto è una nostalgia sempre presente. Per questo motivo, gli ho sempre raccomandato di non emigrare. Se insistevano, e qualcuno lo ha fatto, lo aiutavo. Ma gli ho sempre dato il consiglio contrario, e ora, molti anni dopo, credo ancora di aver fatto la cosa giusta.]

    Infine, per quanto riguarda gli “alleati” sovietici dell’Europa orientale, il loro rifiuto del comunismo è logico e prevedibile quanto il loro abbraccio del capitalismo, della NATO, dell’UE e del resto. Per decenni gli è stato detto che l’Occidente viveva in pace e prosperità mentre loro vivevano nell’oppressione e nella miseria, e che i malvagi russi erano la causa di tutta la loro infelicità. Il fatto che poi, datagli la possibilità, si precipitarono ad abbracciare l’Impero Americano, fu tanto prevedibile quanto ingenuo. Ricordate che la storia viene scritta dai vincitori, e solo il tempo ci dirà davvero quale eredità lasceranno comunismo e capitalismo nell’Europa orientale. Quello che sappiamo è che, anche se l’occupazione sovietica dell’Afghanistan ha portato ad una guerra orribile e feroce, e anche se il popolo dell’Afghanistan sembrava aver abbracciato pienamente il “gentile patrocinio” degli USA e dei suoi alleati, le cose stanno già cominciando a cambiare, e gli anni del dominio laico e persino dell’occupazione sovietica vengono ora rivalutati da un numero crescente di storici e commentatori afghani, che ora li vedono in modo molto più sfumato di quanto avrebbero fatto in passato. Basta un semplice confronto della vita quotidiana degli afgani prima e dopo l’invasione sovietica, o un elenco comparativo di ciò che i sovietici e gli americani hanno davvero costruito nel paese, e ne viene fuori una storia molto diversa (perfino gli americani oggi stanno ancora utilizzando strutture sovietiche, compresa l’ormai famigerata base aerea di Bagram). Nota per chi ha carenza di logica: non sto difendendo l’invasione sovietica, tutto quello che sto dicendo è che la scelta di “abbracciare l’altra sponda” non può essere giudicata nell’immediatezza di un “cambio” di fedeltà – a volte sono necessari diversi decenni o più per fare una valutazione equilibrata di ciò che è veramente avvenuto.

    La mia opinione in tutto quanto detto sopra è semplice: la macchina della propaganda imperiale ufficiale (alias i “media” e il “sistema educativo”) ha cercato di presentare una narrazione semplice del comunismo quando, in realtà, gli slogan superficiali mostrano immediatamente che le cose sono molto, molto più complicate della rozza e comprensibilmente falsa narrazione che ci è stata offerta.

    Comunismo – il futuro:

    Qui posso immediatamente mettere le mie carte sul tavolo e affermare che credo, e persino spero, che il comunismo non sia morto e che, in realtà, credo che abbia ancora un futuro lungo e interessantissimo. Ecco alcune ragioni del perché.

    In primo luogo, l’ideologia comunista, in quanto tale, non è mai stata sconfitta in modo comprensibile, anche solo perché non è emersa nessuna altra ideologia paragonabile per portata e profondità a sfidare, per non dire confutare o sostituire, il comunismo. Per prima cosa, il comunismo è un costrutto intellettuale *enorme*, e il semplice distruggere alcuni dei suoi “piani superiori” difficilmente porterebbe all’abbattimento dell’intero edificio. Facciamo un semplice esempio: lo slogan marxista “Da ciascuno secondo la sua abilità, a ciascuno secondo le sue esigenze” [in inglese]. Marx non lo ha inventato, lo ha solo diffuso. Alcune fonti [in inglese] dicono che l’autore originale fu August Becker nel 1844, Louis Blanc nel 1851 o Étienne-Gabriel Morelly nel 1775. Altri dicono che fu Pierre-Joseph Proudhon [in inglese], ma in una versione leggermente diversa: “Da ciascuno secondo la sua abilità, a ciascuno secondo il suo lavoro”. Questa è stata la versione accettata nell’URSS come applicabile alla fase di transizione socialista [in inglese] sulla via della piena realizzazione del comunismo. Poi, ovviamente, c’è la celebre citazione di San Paolo nel Nuovo Testamento “se alcuno non vuol lavorare, neppure deve mangiare” (Seconda lettera ai tessalonicesi 3:10) e le parole di Cristo Stesso “a ciascuno secondo la sua capacità” (Matteo 25:15). Tutto questo diventa molto complesso molto velocemente, ma non è una scusa per ignorare ciò che è uno dei principi fondamentali del marxismo-leninismo. E ci sono molti principi fondamentali come questo, perché il comunismo non può essere compreso, per non dire valutato, al di fuori di una discussione molto più ampia sul materialismo dialettico, che è un adattamento della dialettica hegeliana alla storiografia, e il tutto costituisce una base per il materialismo storico, che, a sua volta, offre una critica completa della natura del capitalismo. C’è una ragione per cui una buona biblioteca sul marxismo-leninismo potrebbe facilmente includere un intero piano dedicato esclusivamente all’insegnamento e alla critica del marxismo-leninismo: questo corpo d’insegnamento è enorme e comprende storia, sociologia, economia, filosofia e molte altre discipline. Solo il materialismo stesso include un enorme corpus di scritti che vanno dai filosofi pre-socratici al “Dio è morto” di Nietzsche agli, ahimè, scritti universitari di Dawkins. Se guardiamo onestamente e con attenzione al marxismo-leninismo vedremo che ci sono perle filosofiche (o sfide, a seconda di come le si guarda) nella maggior parte dei piani dell’edificio marxista-leninista. Prima di poter dichiarare che “il comunismo è morto” dobbiamo affrontare ogni “piano” dell’edificio marxista-leninista e abbattere almeno i più importanti, a meno che non vogliamo essere (giustamente) accusati di ignoranza voluta.

    In secondo luogo, l’ideologia comunista ci offre la critica più completa della società globalista-capitalista in cui viviamo oggi. Considerando che ormai solo le persone più deliberatamente cieche potrebbero continuare a negare che la nostra società sta attraversando una crisi profonda, che probabilmente porterà a ciò che viene spesso chiamato “TEOTWAWKI” (The end of the world as we know it) [“LFDMCLC”, la fine del mondo come lo conosciamo”], metterei in dubbio il fatto di dichiarare il comunismo morto e dimenticarlo. Dopo tutto, informarsi sulla critica comunista del capitalismo non implica l’adozione delle soluzioni comuniste ai mali del capitalismo più di come prestare attenzione alla diagnosi di un medico implica un consenso ad un unico tipo di terapia. Eppure ciò che ha fatto la nostra società è rifiutare completamente la diagnosi sulla base del fatto che la terapia ha fallito in diversi casi. Quanto è stupido ciò?

    In terzo luogo, il corpus degli insegnamenti comunisti e marxisti-leninisti non è solo immenso, ma è anche molto diversificato. Il leninismo stesso è, a proposito, un ulteriore sviluppo delle idee marxiste. Sarebbe semplicemente illogico concentrarsi solo sui padri fondatori di questa ideologia e ignorare o, peggio, respingere i loro moderni seguaci. Prendiamo un semplice esempio: la religione.

    È un fatto ben noto che Marx ha dichiarato che “la religione è l’oppio dei popoli”. Ed è vero che Lenin e Trockij si sono impegnati, quando erano al potere, in ciò che può essere descritta solo come una genocida e satanica corsa sfrenata contro la religione in generale, e il Cristianesimo Ortodosso in particolare. Per decenni il rabbioso ateismo fu una pietra angolare dell’ideologia marxista-leninista. Eppure, guardando i vari regimi marxisti in America Latina (compresi Cuba e Venezuela), si vede rapidamente che hanno sostituito quel rabbioso ateismo con l’approvazione di un tipo specifico di Cristianesimo che si potrebbe descrivere genericamente come “Teologia della Liberazione”. Ora, per un tradizionalista Ortodosso come me, la Teologia della Liberazione non mi va esattamente a genio (spiegazione completa: politicamente, mi descriverei come un “monarchico popolare” (народный монархист) nella tradizione di Lev Tichomirov, Feodor Dostoevskij, Ivan Solonevič [in inglese] e Ivan Il’in). Ma il punto qui non sono le qualità intrinseche della Teologia della Liberazione (o la mancanza di esse), ma il fatto che i marxisti latinoamericani abbiano chiaramente eliminato l’ateismo. E se lo hanno fatto per un senso profondo di rinascita e di rinnovamento spirituale o in base a ciniche considerazioni politiche è irrilevante: anche se hanno dovuto cedere per via della pressione, hanno comunque fatto qualcosa che i loro predecessori non avrebbero mai fatto in nessuna circostanza. Così, ora, invece di denunciare la religione come reazionaria, abbiamo dei leader come Hugo Chavez che dichiarano [in inglese] che “Gesù Cristo era un autentico comunista, antimperialista e nemico dell’oligarchia”. È stato sincero? Forse. È stato importante? Sicuramente. Io affermo che se un principio cruciale e fondamentale, come l’ateismo militante, possa essere abbandonato dai moderni marxisti, essi probabilmente sono disposti ad abbandonare qualsiasi altra parte che potrebbero considerare sbagliata (per qualunque motivo). Confondere i comunisti del 21° secolo con i loro predecessori del 19° secolo è indecentemente stupido e ignorante.

    Quarto, il comunismo moderno ha diverse forme originali e persino sorprendenti. Una delle più interessanti potrebbe essere la Repubblica Islamica dell’Iran. Ovviamente, l’Iran moderno non è una copia della vecchia Repubblica Democratica Tedesca. Ramin Mazaheri, corrispondente a Parigi per Press TV, ha descritto meglio la situazione quando ha scritto “L’Europa è arrivata al socialismo attraverso l’industrializzazione, la teoria e la guerra, ma l’Iran è arrivato al socialismo attraverso le sue credenze religiose e morali”. E non fatevi trarre in inganno, quando Mazaheri si complimenta con l’Iran per i suoi traguardi “socialisti”, non oppone la nozione del socialismo a quella del comunismo (Mazaheri è un comunista orgoglioso e dichiarato) né fa riferimento al “socialismo al caviale” della sinistra francese. Al contrario, si riferisce al “socialismo” come un insieme di valori e principi fondanti comuni alle visioni del mondo marxista e islamica. Spesso ci si dimentica che uno dei principali ideologi della Rivoluzione iraniana, Ali Shariati [in inglese], era chiaramente influenzato da idee socialiste e anche marxiste [in inglese].

    L’Iran, comunque, non è l’unico caso nel mondo musulmano. Ad esempio, gli scritti di Sayyid Qutb (1906-1966) contengono molte idee che si potrebbero descrivere come marxiste [in inglese]. Sosterrei addirittura che l’Islam, il Cristianesimo e il Confucianesimo includono forti elementi sia dell’universalismo che del collettivismo che sono tipicamente associati all’idea marxista, in particolare in opposizione al tipo di gonfio iper-individualismo che sottende la visione del mondo capitalista (che io stesso chiamo “la visione del mondo di me, io e me stesso”). Certo, la moderna doxa vuole etichettare tutte le forme dell’Islam come retrograde, medievali e altrimenti reazionarie, ma in verità sarebbe molto più giusto descrivere l’Islam come rivoluzionario, sociale e progressista. Ma non confondiamo le sciocchezze vomitate dalla macchina propagandistica sionista a quelle povere persone che ancora le prestano attenzione, con la realtà, d’accordo? Certamente possiamo concordare sul fatto che il modo peggiore possibile per cercare di imparare qualcosa sull’Islam sarebbe quello di prestare attenzione ai media sionisti americani!

    Comunismo – la sfida:

    Non sorprende che gli americani, che non hanno sconfitto niente o nessuno per un tempo molto lungo, siano fortemente inclini ad adottare la nozione di aver vinto la Guerra Fredda e/o aver sconfitto il comunismo. In un paese dove delle persone adulte e presumibilmente istruite possono dichiarare con un volto serio che Obama è un socialista (o anche comunista), una tale sciocchezza verrà contestata molto raramente. Questo è un riflesso dello scarso stato di istruzione di una nazione che si crede “indispensabile”, ma che non ha alcun interesse reale a comprendere il resto del mondo, per non parlare della sua storia. Ora possiamo farci beffe dei teoricamente stupidi comunisti, del loro “comunismo scientifico” e delle cattedre universitarie di marxismo e di leninismo, ma rimane innegabile che per comprendere la propaganda comunista occorre avere un livello minimo di istruzione, e che questa propaganda ti espone a temi che sono ormai praticamente morti nelle società occidentali (come la filosofia o la storia). Quando vedo oggi quel tipo di assurdità che viene spacciata per scienza politica o filosofia, posso solo concludere che il mondo occidentale, un tempo orgoglioso, ora manca del livello di istruzione fondamentale necessario per capire, per non dire confutare, gli ideologi marxisti. E questa è una vergogna perché credo anche che il marxismo e il comunismo siano intrinsecamente ideologie molto attraenti e molto tossiche che devono essere sfidate e confutate.

    [Nota a margine: quello che penso personalmente del marxismo non è affatto l’argomento di oggi, quindi mi limiterò a dire che, come tutte le ideologie utopiche, il marxismo promette un futuro che non potrà mai avverarsi. È vero, questo non è un peccato appartenente solo al marxismo. Tra gli ideologi moderni Hitler dovrebbe essere lodato per la sua relativa modestia – promise un Reich di “soli” 1000 anni. Al contrario, Francis Fukuyama ha promesso una “fine della storia” [in inglese] in maniera simile al comunismo. Tutto questo fa il paio con gli insegnamenti provenienti dagli atei che stanno cercando di rifiutare Dio imitandolo al contempo (senza successo): Satana offrì a Cristo una società utopica durante la tentazione di Cristo nel deserto (Matteo 4:1-11) ed è anche il motivo per cui alcuni Ebrei Lo rifiutarono, perché Egli offrì loro un regno spirituale piuttosto che il regno terrestre nel quale speravano. Proprio in ciò ci sono abbastanza motivi, almeno per me, di rifiutare questa e qualsiasi altra ideologia che promette un qualche tipo di “paradiso in terra”. A mio parere tutte le ideologie utopiche sono intrinsecamente e per definizione sataniche].

    Può l’enorme corpus dell’edificio ideologico marxista/comunista essere confutato in modo convincente? Penso di sì, e supponendo che l’umanità non si autodistrugga nel prossimo futuro, alla fine ciò avverrà. Ma ciò richiederà uno sforzo di una natura e una grandezza completamente diverse rispetto alla raccolta di slogan primitivi che vengono attualmente scagliati contro il marxismo. Infatti, credo anche che il Cristianesimo Ortodosso abbia già confutato il marxismo in anticipo, molti secoli prima della nascita di Karl Marx, denunciando tutti i suoi presupposti fondamentali nelle Scritture, negli scritti dei Padri della Chiesa, nei detti dei Padri del Deserto, nelle Vite dei Santi, nei suoi testi liturgici e nelle icone, ma nella nostra società post-Cristiana quella confutazione è accessibile solo a una minuscola minoranza di coloro che sono stati esposti ad essa e che sono abbastanza educati per capirla (un buon esempio di una persona simile sarebbe Feodor Dostoevskij).

    Nel futuro prossimo il comunismo ha un futuro molto luminoso e lungo, specialmente con l’attuale crollo dell’Impero anglo-sionista e il successivo dibattito sulle cause di questo crollo. Vivendo negli Stati Uniti si può perdonare il fatto di non vedere un gran futuro per il comunismo, ma dal sudest asiatico al subcontinente indiano, e dall’Africa all’America latina, gli ideali, i valori e le tesi del comunismo continuano ad esercitare un immenso fascino su milioni di persone. Quando Donald Trump, durante il suo recente discorso alle Nazioni Unite, presunse di avere l’autorità di dare lezioni al mondo sul socialismo, ha dimostrato solo che l’ignoranza non è un ostacolo per l’arroganza, e che in genere vanno di pari passo. Se la sua intenzione era quella di parlare al pubblico americano, probabilmente ha fatto sentire qualche persona felice di sé e del sistema politico in cui vivono. Se si stava davvero rivolgendo ad un pubblico straniero, l’unica cosa che ha raggiunto è stato rafforzare i peggiori cliché antiamericani.

    Per il momento, lo spettro del comunismo continuerà a perseguitare gran parte del nostro pianeta, soprattutto in quelle zone dove i tassi di educazione e povertà sono alti. Nel mondo fondamentalmente analfabeta ma ricco, il comunismo rimarrà praticamente come è oggi: universalmente ignorato e quindi sconosciuto. Ma quando il grande edificio del capitalismo finalmente cadrà, e le sue vittime riscopriranno la differenza tra la propaganda e l’educazione – allora forse nascerà una credibile sfida moderna all’ideologia comunista. Ma per il momento e per il prossimo futuro il comunismo rimarrà non solo vivo, ma anche praticamente imbattuto.

    Il Saker


    http://sakeritalia.it/politica/il-co...davvero-morto/

  4. #4
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    Predefinito Re: Il comunismo è davvero morto?

    Per me no.
    Il comunismo ortodosso è scomparso e si è plasmato e fuso con il capitalismo liberalista dando vita al mondialismo.
    Un esempio di comunismo/capitalista è la Cina.
    Un esempio di comunismo fucsia (ovvero che si batte per gli allogeni, l'aborto, la dissoluzione delle tradizioni, etc. ) è il PD americano e quello europeo.
    Non abbassiamo la guardia.
    Chiamatelo come volete.
    Ma l'essenza giudaica del comunismo e del capitalismo sono più vive e pericolose che mai!

  5. #5
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    Predefinito Re: Il comunismo è davvero morto?


  6. #6
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    Predefinito Re: Il comunismo è davvero morto?

    L’italo-comunismo nacque cent’anni fa e non è morto

    Cent’anni fa di questi giorni, nasceva dal sangue il partito comunista d’Italia. Nasceva dal sangue della rivoluzione bolscevica in Russia, con milioni di vittime. E nasceva dal biennio rosso sangue in Italia, tra rivolte e violenze, anche contro i reduci della guerra mondiale. Erano le “prove tecniche” di rivoluzione, da importare in Italia sull’esempio russo.

    Furono due sanguigni romagnoli massimalisti a preparare il terreno alla nascita del comunismo italiano. Uno fu Nicola Bombacci, incendiario più nei discorsi che negli atti, che guidò l’ala massimalista del Partito socialista, di cui era all’epoca segretario, verso il comunismo. Finì poi ucciso dai comunisti a Salò. L’altro fu proprio Benito Mussolini, già leader dell’alla massimalista, poi passato dal socialismo all’interventismo. Lo stesso Mussolini si riconobbe padre dei comunisti italiani in un celebre discorso alla Camera il 21 giugno del 1921: “Riconosco con una sincerità che può parere cinica che io per primo ho infettato codesta gente quando ho introdotto nella circolazione del socialismo italiano un po’ di Bergson mescolato a molto Blanqui”. Fu guerra civile con i fascisti, che dettero vita a una “controrivoluzione preventiva”, come la definì Luigi Fabbri nel 1922: oggi gli storici scrivono, con disonestà intellettuale, delle violenze fasciste nel ’21 senza accennare al biennio rosso che le aveva precedute e scatenate (l’ultimo caso, Emilio Gentile). Le violenze rosse e la paura del comunismo furono tra le principali cause dell’avvento del fascismo.

    Il congresso di Livorno nel gennaio del ’21 sancì la nascita del Pcd’I. I comunisti, rispetto ai socialisti, ritenevano possibile e necessario un salto radicale, la rottura col capitalismo, l’occidente, la borghesia, gli agrari, e dunque col riformismo. Prendeva corpo il mito dell’ordine nuovo, dell’uomo nuovo, del mondo nuovo. Il comunismo era promessa di redenzione. E tuttavia la storia del comunismo fu storia di tradimenti, compromessi ed epurazioni.

    Furono uccisi più comunisti italiani nell’Urss che nell’Italia fascista. Molti antifascisti si erano rifugiati a Mosca ma, con il concorso di Palmiro Togliatti, furono eliminati perché ritenuti eretici. Al fanatismo spietato si alternava la tattica del compromesso. Prima di arrivare alle alleanze del Pci con le altre forze politiche nel nome dell’antifascismo e alla doppiezza del Partito di Togliatti tra Stalin e la democrazia, vi furono altri due tentativi di compromessi dimenticati. L’appello comunista e togliattiano ai “Fratelli in camicia nera” nel 1936, che caldeggiò “l’entrismo” dei comunisti nelle organizzazioni fasciste; e l’appoggio a Mosca sul patto Molotov-Ribbentrop tra Hitler e Stalin, nel 1939, che giustificò l’occupazione nazista della Polonia. Il Pci fu all’opposizione tra il ’48 e il ’76; poi cominciò un consociativismo strisciante, il Pci ebbe cariche istituzionali, reti televisive, ramificazioni di poteri. Il Pci finì trent’anni fa, nel ’91, mentre finivano l’Urss e il Pcus, non prima.

    Al comunismo si riconosce il beneficio delle buone intenzioni: i suoi massacri erano ispirati da valori umanitari e pacifisti. Ma più che una giustificazione o un’attenuante è un’aggravante: sterminare per il bene dell’umanità futura è aberrante. Ora si celebrano i cent’anni dell’italocomunismo separandolo dagli orrori del comunismo-regime in ogni luogo del mondo, dimenticando i finanziamenti sovietici, il servilismo verso Mosca e l’appoggio alle peggiori invasioni e la complicità/omertà sugli orrori.

    Sopravvivono del vecchio Pci tre miti su tutti: Gramsci, la lotta partigiana e Berlinguer. Gramsci fu un lucido pensatore e pagò per le sue idee ma teorizzò in carcere un sistema più totalitario e liberticida di quello che lo aveva messo in prigione. E quando teorizzò una via nazionale al comunismo lo fece attenendosi alla lezione di Lenin sulla duttilità strategica per conquistare il potere.

    I partigiani comunisti non miravano a instaurare la libertà e la democrazia ma la dittatura del proletariato sul modello di quella stalinista. E Berlinguer fu santificato perché ebbe “la fortuna”, come Gramsci, di non andare mai al potere. Lo strappo da Mosca fu faticoso e tardivo; e fu compiuto solo quando l’Urss era una gerontocrazia di burosauri, ormai in declino. “I comunisti che non andarono al potere meritano rispetto”, lo dice pure il “reazionario” Gomez Dàvila. Si deve rispetto ai comunisti i buona fede e a coloro che scontarono la loro idea sulla propria pelle e non su quella altrui. Ma lo stesso criterio vale per tutti, fascisti inclusi.

    Caduto il comunismo, i suoi esuli abbracciarono il capitale e l’occidente. Sostituirono l’anticapitalismo e l’antiborghesia con l’antifascismo e l’antirazzismo, l’internazionalismo operaio con la globalizzazione, la difesa dei proletari con la difesa di gay, migranti e femministe. Il Pci mutò in partito radicale di massa, a guardia del politically correct e dell’establishment mondiale.

    Cosa è vivo oggi del comunismo? La sua mentalità. La sinistra dem, liberal e radical ha ereditato dal Pci la presunzione di diversità e superiorità; la pretesa di giudicare il mondo senza essere giudicati; il razzismo etico, forma aberrante di suprematismo; l’egemonia della casta, l’Intellettuale Collettivo che decreta i valori e i disvalori della società. L’ideologia si è fatta etica e biopolitica. PC è ora la sigla di Politically Correct. Quel codice, derivato dal comunismo e dal giacobinismo, trasformò la sinistra in partito delle classi agiate, del potere global e degli apparati, degli intellettuali e dei magistrati.

    Il comunismo reale è stato rimosso come se mai si fosse realizzato, attribuendo ogni nefandezza alle sue degenerazioni come lo stalinismo, concepita come bad company su cui scaricare le negatività. A differenza del nazismo e del fascismo si parla del comunismo come di un evento archeologico. Poi ti affacci, vedi la Cina che dilaga nel mondo e da noi la sinistra che comanda anche quando perde alle elezioni e capisci che non stai parlando di preistoria e dinosauri…

    MV, La Verità 17 gennaio 202

    ww.marcelloveneziani.com/articoli/litalo-comunismo-nacque-centanni-fa-e-non-e-morto/

  7. #7
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    Predefinito Re: Il comunismo è davvero morto?

    Caduto il comunismo, i suoi esuli abbracciarono il capitale e l’occidente. Sostituirono l’anticapitalismo e l’antiborghesia con l’antifascismo e l’antirazzismo, l’internazionalismo operaio con la globalizzazione, la difesa dei proletari con la difesa di gay, migranti e femministe. Il Pci mutò in partito radicale di massa, a guardia del politically correct e dell’establishment mondiale.

    Cosa è vivo oggi del comunismo? La sua mentalità. La sinistra dem, liberal e radical ha ereditato dal Pci la presunzione di diversità e superiorità; la pretesa di giudicare il mondo senza essere giudicati; il razzismo etico, forma aberrante di suprematismo; l’egemonia della casta, l’Intellettuale Collettivo che decreta i valori e i disvalori della società. L’ideologia si è fatta etica e biopolitica. PC è ora la sigla di Politically Correct. Quel codice, derivato dal comunismo e dal giacobinismo, trasformò la sinistra in partito delle classi agiate, del potere global e degli apparati, degli intellettuali e dei magistrati.

    Il comunismo reale è stato rimosso come se mai si fosse realizzato, attribuendo ogni nefandezza alle sue degenerazioni come lo stalinismo, concepita come bad company su cui scaricare le negatività. A differenza del nazismo e del fascismo si parla del comunismo come di un evento archeologico. Poi ti affacci, vedi la Cina che dilaga nel mondo e da noi la sinistra che comanda anche quando perde alle elezioni e capisci che non stai parlando di preistoria e dinosauri…

  8. #8
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    Predefinito Re: Comunismo e capitalismo? Due facce della stessa medaglia: il globalitarismo!

    Globalizzazione, mondialismo e identità
    Mondo, identità e storia


    PREMESSA

    Una svolta importante nel pensiero occidentale avvenuta a cavallo fra l’Otto ed il Novecento, è stata la fine del determinismo di matrice illuministica settecentesca, prima nell’ambito delle scienze fisico-matematiche, poi, di riflesso, in quello socio-economico ed in filosofia.
    Lo spirito del determinismo è sintetizzato molto bene dalle parole del matematico francese Pierre-Simon Laplace: Datemi le condizioni dell’universo in un dato istante, insieme con sufficiente potenza di calcolo, ed io vi dirò in che condizioni esso si troverà in un qualsiasi istante futuro.

    Mentre Laplace credeva di possedere la chiave dell’universo fisico, altri pensatori, questa volta sociologi ed economisti, di cui Karl Marx è il più celebre ma non certo l’unico, stabilivano per le società umane leggi evolutive e modelli che immancabilmente si sarebbero realizzati risolvendo una volta per tutte i mali che da sempre hanno afflitto l’umanità.
    Inutile dire che la realtà, naturale e sociale, ha presto provveduto a calmare la baldanza di tutti quanti, decretando così la fine dei tentativi di inquadrare la natura e, ciò che qui più interessa, le società umane, all’interno di teorie che stabilissero definitivamente i meccanismi del loro divenire.

    Se con ‘ideologie’ intendiamo le varie costruzione di pensiero, spesso peraltro di grande pregio intellettuale, che fornivano la base teorica a tali tentativi, possiamo equivalentemente parlare di fine delle ideologie.

    Il binomio mondialismo-identità dei popoli non sfugge all’impotenza del prevedere quale sarà la strada che le società umane imboccheranno sotto la spinta delle nuove tecnologie e degli interessi economici e politici soggiacenti.
    Scopo di queste note è allora quello di fornire, se possibile, dati ed argomenti che servano a tenere sotto controllo l’evolversi dei fatti, fare qualche previsione a breve termine, capire quali siano i margini d’azione per incidere sugli avvenimenti e rompere la coltre dell’informazione ufficiale (media, scuola, governi) che tende a far apparire ’ineluttabile’, ‘naturale’, ‘nella realtà delle cose’ una determinata linea di sviluppo piuttosto che un’altra, mentre invece la storia ha mostrato di svolgersi come un magma mobile sempre pronto a rimescolarsi ed il cui punto d’arrivo non è determinabile a priori.

    IL FATTORE TECNICO INFORMATICO

    Il rapido sviluppo dell’informatica, con gli strumenti tecnici che mette a disposizione, gioca un ruolo importante negli aspetti economici, culturali e politici che riguardano il binomio mondialismo-identità.

    I primi calcolatori elettronici nascono in Inghilterra e Stati Uniti negli anni ‘40 durante la seconda guerra mondiale, per esigenze militari (sistemi di puntamento, cifratura). Grazie anche agli sviluppi della fisica, conoscono un’evoluzione rapidissima, passando dalle valvole in vetro ai transistor fino agli attuali circuiti integrati. Capacità sempre maggiori di memorizzazione e potenza di calcolo li rendono presto indispensabili nell’ambito della ricerca scientifica e nelle grandi strutture pubbliche e private, mentre il successivo calo dei costi e delle dimensioni li introducono poco alla volta nelle case private. Le reti di calcolatori permettono poi a più macchine di comunicare tra loro scambiandosi dati e distribuendo la potenza di calcolo.

    L’embrione di ciò che sarebbe diventato Internet nasce ai tempi della guerra fredda (1973) da un progetto della Advanced Research Projects Agency del ministero della Difesa degli Stati Uniti. L’esigenza da soddisfare è quella di una rete in grado di funzionare ancora, anche se con prestazioni ridotte, qualora una parte di essa venga distrutta da un attacco nemico.
    Viene sviluppato un insieme di protocolli di comunicazione denominato TCP/IP che prevede il frazionamento dei dati da trasmettere in pacchetti indipendenti l’uno dall’altro, ognuno dei quali trova la sua via dal mittente al destinatario per strade anche diverse all’interno della rete. Nel nodo di arrivo i pacchetti vengono ricomposti e ne viene controllata l'integrità. Il vantaggio di tale protocollo consiste nel fatto che non è necessario definire né conoscere il cammino che i dati percorreranno. Sarà il software stesso, lungo i nodi della rete, a farsi carico di instradarli, evitando le eventuali interruzioni e scegliendo il percorso più veloce.

    È l’inizio di Internet. Quando le esigenze militari si affievoliscono, sono dapprima le Università, i Centri di ricerca e le grandi istituzioni a collegare fra loro le proprie reti locali (da cui il nome di ‘rete delle reti’).
    In questa fase, l’uso di Internet è ancora limitato prevalentemente all’ambito accademico per lo scambio di informazioni scientifiche e richiede conoscenze tecniche non indifferenti.
    L’ultimo atto avviene nel 1989 presso il centro di ricerca del CERN di Ginevra con la nascita del World Wide Web, progettato per semplificare la condivisione di informazioni tra gruppi di ricercatori di fisica delle alte energie operanti in nazioni diverse.
    La facilità d’uso dell’interfaccia utente, dotata spesso di una grafica accattivante, ne decretano subito il successo anche presso il grande pubblico e conseguentemente presso operatori commerciali anche medi e piccoli nonché presso tutti coloro che hanno interesse, per svariate ragioni, a tenere sott’occhio un bacino di opinione costituito da milioni di persone.
    Gli sviluppi futuri sono guidati dal Consorzio WWW, con sede sempre negli Stati Uniti presso il Massachusetts Institute of Technology.

    IL RUOLO DEGLI USA NELLE TRASFORMAZIONI IN CORSO

    Gli Stati Uniti hanno vinto la seconda guerra mondiale, hanno drenato le migliori intelligenze da ogni paese, detengono le tecnologie chiave, sono rimasti l’unica superpotenza militare e costituiscono il più importante mercato mondiale. I paradigmi economici e culturali che nascono in questo paese diventano presto standard nel resto del mondo, occidentale e non.
    Per comprendere l’evoluzione possibile del binomio identità-mondialismo è pertanto fondamentale cercare di capire quali sono le strategie che gli USA potranno adottare per meglio mantenere la loro leadership mondiale ed i loro interessi.

    Fino al 1989 la politica estera americana era basata essenzialmente sul contenimento della potenza sovietica, il freno alla diffusione del comunismo e il predominio sul mondo occidentale.
    Da quella data in poi, i possibili scenari strategici americani diventano molteplici.

    L'opzione conservativa

    Sostiene l’opportunità di non discostarsi sostanzialmente dalla politica estera seguita fino al 1989.
    I concetti base sono contenuti nel New World Order del presidente Bush (1990), dove si stabiliscono le nuove ‘responsabilità’ degli USA e si ammette la guerra preventiva al fine di preservare l'ordine mondiale.
    Nel 1992, un rapporto del Pentagono dal titolo Defense Planning Guidance (sottosegretario alla Difesa per gli affari politici Paul Wolfowitz), preconizza un nuovo ordine mondiale funzionale al ruolo che gli USA intendono mantenere di superpotenza unica dotata di facoltà d’intervento anche unilaterale.
    Charles Krauthammer auspica una confederazione occidentale con gli USA al centro (in qualche modo prefigurata dal Gruppo dei Sette) come primo nucleo di un mercato comune mondiale. Ciò porrebbe al riparo la supremazia americana, per ora assoluta, dall’arrivo di nuovi contendenti.
    Secondo Joseph Nye, gli USA devono assumere il ruolo di grande organizzatore mondiale assicurandosi il controllo dei grandi istituti internazionali quali Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, World Trade Organization, Trattato per la non-proliferazione nucleare etc.
    Ben Wattenberg, direttore di Radio Free Europe, sostiene che il popolo americano deve riconoscere il ‘new manifest destiny’ che gli è proprio e promuovere nel mondo una democrazia di tipo americano per mezzo degli strumenti ‘culturali’ con cui primeggia: la lingua inglese, le università, i sistemi informatici, i media, il mondo dello spettacolo.
    Fra i seguaci di quest’ordine di idee, Strobe Talbott, attuale numero due del Dipartimento di Stato di Clinton.
    Insomma, Microsoft Windows, Pamela Anderson e Coca Cola per un mondo unipolare a dominanza USA.

    L'opzione isolazionista

    Sostiene che una politica estera di intervento a tutto campo presenta per gli USA costi superiori ai benefici e che, essendo oggi il potere essenzialmente economico, la vera predominanza va affermata su questo terreno.
    Da segnalare che l’accezione americana del termine ‘isolazionismo’ non significa affatto ‘di isolamento’.
    L’ex collaboratore di Nixon e Reagan, Patrick Buchanan, ad esempio, auspica il totale ritiro delle forze USA dall’Europa e dall’Asia, mantenendo però il primato militare e non escludendo sporadici interventi anche unilaterali.

    L'opzione internazionalista

    Richard Gardner, consigliere di Clinton, è il fondatore del 'Practical internationalism', il cui concetto base, che ispira buona parte dell’attuale politica estera americana, è quello di sicurezza multilaterale: sulla base del vantaggio garantito loro dall’isolamento geografico e da un’indiscussa superiorità militare, gli USA dovrebbero limitare l'uso della forza all’interno di contesti multilaterali e cercare di mantenere una situazione di equilibrio sfruttando le rivalità fra le altre potenze.
    Henry Kissinger sostiene che gli interventi USA dovrebbero essere selettivi, evitando di intervenire in ogni situazione di crisi: se in alcuni casi è indispensabile un intervento diretto americano, in altri è sufficiente un'azione multilaterale ed in altri ancora non si interviene affatto. In questa prospettiva, l'intento di costituire un ordine globale fondato sugli interessi USA risulta meno forte ma è sempre presente.
    Strobe Talbott, segretario di stato aggiunto, parla di ‘diplomazia per una competitività globale’ (1994) intendendo con questo lo stare in guardia affinché nuovi raggruppamenti economici regionali non si pongano obiettivi contrastanti con i famosi interessi superiori degli Stati Uniti, magari chiudendosi all’influenza dei capitali americani.
    Richard Haas, della Brookings Institution ed ex consigliere di Bush, vede l’America come una Big Corporation che deve sfruttare la sua temporanea posizione di forza sul mercato per trasformarlo secondo i propri fini. Nel suo The Reluctant Sheriff, 1997, scrive: Obiettivo della politica estera americana deve essere operare con gli altri attori che condividono le stesse idee a migliorare il funzionamento del mercato e a rafforzare il rispetto delle sue regole fondamentali. Con il consenso, se possibile, con la forza, se necessario.
    Dunque l’ex Gendarme del Mondo, impegnato in passato a combattere l’Impero del Male ovunque si manifestasse, si trasforma nel buon sceriffo il quale, quando costretto, raccoglie in fretta un manipolo di vigilantes e parte alla repressione.

    USA e internet

    Nel 1993, Al Gore inaugura la Global Information Infrastructure che nel Duemila connetterà fra loro più di duecento milioni di computer.
    È il nuovo grande progetto dell'amministrazione Clinton, analogo, come espressione delle ambizioni egemoniche americane, al New Deal di Roosevelt e all’obiettivo Moon di Kennedy.

    Gli USA, insieme composito privo di quell’omogeneità che solo la storia può produrre, compensano il loro deficit di identità ‘comunicando’ più di ogni altro paese. E poiché, come è noto, ciò che conviene agli USA deve necessariamente valere anche per il resto del mondo, prescrivono a tutti la loro ricetta. Anzi, trovandosi in posizione di forza, esercitano una supervisione sulla sua messa in opera per pilotare opportunamente il processo di globalizzazione. Infatti, come Brzezinski aveva sostenuto fin dagli anni Settanta, "… sono stati gli Usa il paese che ha lavorato di più alla creazione di un sistema di comunicazioni mondiali avvalendosi dei satelliti e che si trova più avanti nella messa a punto di una griglia mondiale di informazioni”.

    L’essenza delle varie opzioni

    È appena il caso di osservare come, dalle dichiarazioni di uomini di stato, politologi, strateghi vari e soprattutto dalla politica messa in atto nella realtà dei fatti, appaia chiaramente che la volontà USA non è di sedere pari tra pari nel consesso mondiale delle nazioni ma di dirigerlo conformemente ai propri interessi.
    L’idea di base è quella di creare un mercato unico mondiale a misura USA sfruttando l’attuale posizione di forza militare, economica e tecnologica, impedendo che altri possano eguagliarla, mantenendo o conquistando il predominio nei grandi organismi finanziari internazionali e sui sistemi delle comunicazioni, senza trascurare ciò che a detta loro è la cultura.
    Le moderate differenze consistono più che altro nel privilegiare eventuali interventi multilaterali rispetto a quelli diretti, senza peraltro mai escluderli del tutto.

    ASPETTI ECONOMICI

    La categoria del lavoro umano si è sempre articolata in mestieri diversi, dotati tutti di una loro precisa specificità riconosciuta socialmente, ad esempio con le istituzioni delle varie ‘arti’, e rafforzata nell’immaginario da rappresentazioni e simbologie del tipo dei santi patroni.
    Un formidabile colpo alla specificità dei lavori è venuto, agli albori del Novecento, dalla visione industriale di Taylor, con la sua razionalizzazione estrema dei tempi e dei metodi produttivi. Qui l’artefice produce, mediante una serie di operazioni elementari rigidamente pianificate e monotonamente ripetute, uno stesso dettaglio, sempre più particolare, che prenderà significato solo quando composto con tutti gli altri dettagli prodotti con uguali modalità da altri a costituire l’opera finita. Alla figura dell’artefice è sottratta ogni connotazione di carattere professionale, etico e psicologico ed è privilegiato unicamente l’aspetto tecnico dell’organizzazione del lavoro, volta alla massima efficienza e redditività economica.

    Il concetto di informazione incomincia ad apparire in tutta la sua importanza quando, al Massachusetts Institute of Technology, il matematico Norbert Wiener inizia lo studio della Cibernetica. L’idea, non nuova in verità ma portata ora a compimento e formalizzata matematicamente, è la possibilità di governare il funzionamento di un dispositivo utilizzando l’informazione sugli effetti che l’azione in corso sta producendo per agire a ritroso sulla sorgente dell’azione stessa, regolandola (regolazione retroattiva o feedback).

    Queste nuove idee scientifiche, insieme con le teorie di Taylor, sono parte dell’atmosfera culturale in cui si sviluppa il modello industriale di Henry Ford, secondo il quale l’impresa deve articolarsi in un primo livello al quale competono le decisioni strategiche (gli obiettivi del meccanismo-impresa), un secondo cui compete la gestione delle risorse (regolata da feed-back) ed un terzo incaricato della produzione (il funzionamento del meccanismo).
    Sui mercati nascenti e relativamente chiusi del tempo che garantiscono una domanda sostanzialmente stabile e prevedibile, questi modelli hanno successo per molti decenni.

    Nei primi anni Ottanta emerge il modello giapponese (Toyota), la cui caratteristica principale è la capacità di adeguarsi prontamente, con la produzione di beni diversificati prodotti in piccole serie, ad una domanda che nel frattempo si è fatta mutevole ed internazionalizzata. L’obiettivo viene raggiunto sostituendo alla precedente rigida organizzazione industriale una struttura flessibile in grado di redistribuire prontamente al proprio interno, sulla base di un flusso informativo sempre di tipo feed-back, energie materiali ed umane, superando così la classica distinzione fra servizi di produzione, direzione e amministrazione.

    Inizia il technology push, dove l’innovazione tecnica è sempre più spesso ricercata dalle grandi aziende non al fine di migliorare i prodotti ma per creare nei consumatori nuove esigenze e mode che richiedano di essere soddisfatte. Pubblicità e marketing si incaricano poi di scatenare la domanda.
    Negli anni Sessanta Galbraith scriveva: Ormai l'iniziativa di decidere che cosa debba essere prodotto non appartiene più al consumatore ma alle grandi organizzazioni produttive. Un condizionamento, di cui la pubblicità è solo uno degli strumenti, tende a imporre un'identificazione fra gli obiettivi dell'organizzazione, quelli del corpo sociale e quelli dell'individuo. Le grandi industrie modellano gli atteggiamenti della collettività sui propri bisogni”. Ed infatti Akio Morita, presidente di Sony Corporation, può dichiarare: “Sony non vende nuovi prodotti. Sony vende nuovi comportamenti.

    La parabola dei metodi di produzione industriali sopra accennata lascia intravedere quali saranno le tendenze prossime future (ed in parte già attuali).
    Le grandi multinazionali, di vecchia e nuova costituzione, manterranno un nucleo alquando ristretto di dipendenti diretti le cui retribuzioni, peraltro costituite in gran parte da dividendi, saranno funzione dei risultati ottenuti, mentre filiali delocalizzate si confronteranno meglio con i mutevoli mercati tramite subappalti e lavoro part-time.
    Il sistema industriale mondiale assumerà dunque l'aspetto di un reticolo distribuito sull’intero pianeta i cui nodi, autonomi ma integrati, saranno, ciascuno, un centro di decisione, di spesa e di responsabilità operante in rete attraverso collegamenti informatici internazionali non controllabili dagli stati nazionali, mediante i quali comunicherà decisioni e sposterà risorse e capitali in tempo reale da un capo all'altro del mondo.

    Finalmente, mentre dall’antichità fino al secolo scorso il lavoro umano è stato concepito, in termini generali, come trasformazione di masse (prevalentemente materiali) mediante forze da applicarsi con opportuno impiego di energia (fisica o intellettuale), il lavoro verrà sempre sempre più a consistere in elaborazioni di codici, simboli e segni, ossia di dati.
    Infatti, se l’amministrazione pubblica e privata, i sistemi bancario e commerciale, la ricerca scientifica, l’insegnamento, la propaganda, il divertimento, insomma molte fra le principali strutture del mondo umano si riducono ad essere sostanzialmente elaborazioni di dati, allora produzione e consumo divengono immateriali anch’essi e quindi adatti alla trasmissione a distanza: teleacquisto, teleinsegnamento, teleconferenza, telesorveglianza, teleservizio, etc. In breve, una teleattività sistematica in cui entità a prima vista eterogenee quali beni materiali, attività umane, processi tecnici, industriali, scientifici ed addirittura emozioni sono ridotti ad articolazioni diverse di uno stesso sistema generale che li mette in equivalenza, il denominatore comune essendo il nuovo concetto di lavoro come attività processuale [Legrain, Guattari].

    Altro aspetto da considerare in questo scenario è la finanziarizzazione dell’economia.
    La finanza, da corollario della produzione destinato ad agevolare gli scambi e quindi l’espansione industriale, sta prendendo il sopravvento nei confronti della produzione stessa, ossia dell’economia reale. Molte aziende tralasciano la loro vocazione produttiva basata su prospettive a medio e lungo termine, con un riguardo più o meno grande per il fattore occupazionale, per adottare sempre più la prospettiva di pretta marca americana del profitto immediato (non più capital gain ma semplicemente profit).

    Se dunque la tendenza della politica capitalista è quella di privilegiare la rapida circolazione del capitale rispetto alla produzione di valore reale (finanziarizzazione dell’economia), è chiaro che il potere decisionale passa dalle vecchie borghesie produttive nazionali ad una nuova borghesia internazionalizzata degli investimenti finanziari.
    Grazie ad informatizzazione e collegamenti in rete, gigantesche corporation impegnate in attività di ogni genere possono oramai essere dirette da un piccolo gruppo di manager situati in posti chiave in cui è possibile prendere rapide decisioni ed impartire molteplici ordini. Non si tratta di imprenditori ma di stipendiati di alto livello (quali ad esempio un chief executive officer americano), i cui introiti sono in gran parte costituiti da partecipazione agli utili.
    Naturalmente ciò comporta il declassamento dei quadri intermedi finora preposti su vari livelli a tali funzioni.

    ASPETTI CULTURALI

    L’assunto di base di ogni tecnocrazia, sia essa industriale oppure finanziaria, è l’ammettere come reale solo ciò che è quantificabile e direttamente manipolabile. Da ciò discende che chi è in grado di governare un processo tecnico-industriale o finanziario sarà ipso facto in grado di governare ogni aspetto del reale, compreso quello socio-politico, e quindi anche la società nel suo complesso.

    Questo cadere della distinzione fra politica come ambito dei fini e tecnica come ambito dei mezzi fa sì che ad ogni scelta politica, per sua natura legata a considerazioni di carattere morale e culturale, venga sostituita una scelta determinata da una stima tecnica basata su puri criteri efficientistici. Nella rozza visione della società come unità produttiva di cui occorre massimizzare l’espansione economica, trovano poco o punto posto i giudizi di valore, che quantificabili non sono, e la cosa pubblica è gestita mediante un apparato di controllo tecnico-burocratico basato su di un concetto di bene comune ridotto al puro benessere materiale.

    In un sistema come questo, dove il denaro è al primo posto assoluto, la semplificazione dei valori in gioco comporta per i nuovi dirigenti tecnocratici una vera e propria deflazione culturale. La capacità acquisita dalle borghesie nazionali di negoziare i loro rapporti con la società non serve più ed infatti incominciano a sorgere scuole storiche che rivedono al ribasso l’importanza delle storie nazionali.

    Il filosofo inglese Michael Oakeshott, ad esempio, scrive in un suo recente lavoro che non esiste una ‘storia della Francia’. Al che, qualcuno ha replicato che "una cosa chiamata Francia ha lasciato tracce più durevoli di una cosa chiamata Michael Oakeshott". Tuttavia la revisione della storia per bandire da essa la nazione è rivelatrice di un movimento di fondo da cui prende ad emergere l’ideologia ufficiale della nuova classe: un integralismo di marca tecnica, universalista, multiculturale e multirazziale contrapposto ai valori degli stati-nazione, definiti retrogradi sempre e a volte razzisti.

    Al centro di questa operazione ideologica vi è ancora lo strumento Internet, sotto il cui cappello si ritrovano, in curiosa compagnia dei tecnocrati delle corporation, sia gli entusiasti che si attendono dalle nuove tecnologie comunicative un ‘recupero di democrazia’ sia i cyberpunk, per i quali ‘la rivoluzione corre sulle reti informatiche’, tutti uniti dalla stessa visione, piuttosto rudimentale e deterministica, che essenzialmente subordina la risoluzione di questioni non computabili alla ‘potenza di calcolo’ disponibile e pretende di far transitare attraverso le reti di calcolatori la regolamentazione della società umana.

    La visione che sta alla base di questa nuova ideologia comunicativa consiste nel "… credere e far credere che i problemi sociali siano innanzitutto problemi di comunicazione, che una società si sviluppi prima di tutto grazie alla capacità di trasportare i suoi messaggi e che pertanto basti moltiplicare i canali e accrescerne la capacità di tramissione e di stoccaggio, perché venga alla luce una società nuova più democratica, più conviviale, aperta e pacifica". Insomma, un embrassons nous generalizzato (e regolamentato dai superiori) per porre finalmente termine al millenario travaglio delle società umane.
    L'analisi del traffico sulla rete rivela invece che il tema più frequentemente dibattuto nei newsgroup riguarda il funzionamento della rete stessa. D’altronde, prescindendo da qualche folkloristico e superpubblicizzato cybermatrimonio, della cui sorte non è poi mai dato sapere, è difficile immaginare quali altri legami all'infuori di quelli virtuali possano unire individui che si connettono e sconnettono a caso, anonimamente e senza responsabilità.

    Di fronte a questo mondo unidimensionale regolato da un governo planetario di transazioni finanziarie e contatti umani elettronici, le culture ancorate al suolo e alla storia dovrebbero scomparire.
    Così preconizza il Gruppo di Lisbona: "Bisogna concepire un programma d'azione basato in particolare sul ricorso estensivo alle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione … L'intensificazione di questo dialogo attraverso una moltitudine di strumenti è infatti la via più sicura per edificare un nuovo mondo globale fondato sul rispetto dell'altro e per fortificare le basi di un sistema di governo mondiale cooperativo".

    ASPETTI POLITICI

    Va preliminarmente osservato che la diffusione di Internet con i suoi corollari economici e di costume, è un fenomeno consolidato da cui, piaccia o no, è ormai impossibile prescindere.

    Il mondialismo, inteso come tendenza all’aggregazione, economica prima e politica in varie forme poi, fino al suo stadio ultimo costituito da un solo governo per tutto il pianeta, è cosa distinta dalla globalizzazione, intesa come liberalizzazione degli scambi e creazione di un mercato unico.
    Naturalmente vi sono profonde correlazioni fra i due fenomeni, e al proposito si confrontano due diverse correnti di pensiero, una delle quali sostiene che la globalizzazione dei mercati implica necessariamente un governo mondiale unico mentre per l’altra non solo tale implicazione non sussiste ma al contrario la liberalizzazione degli scambi favorisce le autonomie politiche.

    Tesi 1. La globalizzazione è lo stadio che precede il mondialismo

    Questa tesi si basa sull’assunto che la struttura economica determini quella politica e ritiene pertanto inevitabile che un mercato mondializzato porti con sé un governo mondiale.

    Secondo questa linea di pensiero, un mercato mondiale necessita di una regolamentazione mondiale che può avvenire soltanto per via legislativa, da cui l’esigenza di un organismo politico che vi provveda. In questo processo i maggiori gruppi economici non mancherebbero di premere con forza formidabile affinchè ciò avvenga nel modo più conforme ai loro interessi, liberandosi dall’impaccio costituito da ciò che furono le nazioni con le loro diversità ad intralciarne lo sviluppo.

    I cittadini-consumatori abbandonerebbero i consumi tradizionali legati alla cultura del loro territorio per avvezzarsi, anche a mezzo del technology push cui si è accennato prima, al consumo di beni standardizzati la cui produzione, pubblicità e distribuzione risultano convenienti solo su scala mondiale. Un primo assaggio di tutto questo potrebbe essere l’elettronica di consumo, l’abbigliamento ed il divertimento di massa di stile americano. Quegli stessi cittadini-consumatori, d’altra parte, avvezzati come si è detto ed opportunamente scolarizzati dai grandi mezzi di comunicazione, riterrebbero infine del tutto naturale ed auspicabile la sanzione definitiva di questo stato di cose con la proclamazione anche formale del nuovo organismo politico.

    Quanta democrazia reale possa poi sussistere in una gigantesca struttura di questo tipo, ancorché sanzionata da regolari elezioni, lo si comprende sufficientemente bene osservando il funzionamento del sistema americano, dove i candidati presidenti sono scelti primariamente dalle lobby in grado di fornire i milioni di dollari necessari per una campagna elettorale condotta fra luci al neon e majorette, con una percentuale di votanti fra le più basse del mondo.
    L’anima della strategia mondialista sarebbe dunque a Wall Street e presso le holding, le broker house, i grandi Fondi Comuni di Investimento, i Pension Found, le grandi banche internazionali etc.
    Segnatamente, sarebbe presso la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale (FMI), organismi a scala mondiale in grado di controllare i flussi finanziari internazionali che riguardano le più importanti decisioni economiche del pianeta.

    A proposito del funzionamento di queste due ultime istituzioni, la sociologa Susan George, codirettrice del Transnational Institute di Amsterdam osserva:
    La Banca Mondiale determina non solo le scelte macroeconomiche, essa pone anche altre condizioni, classificate sotto il nome di ‘buon governo’…che sono state causa di contraddizioni... Alcuni suoi progetti hanno dato luogo a violazioni massicce dei diritti umani, provocando l’esodo di milioni di persone... La Banca stabilisce le proprie leggi senza essere stata legittimata da cinquant’anni e, per ragioni complesse, le sue istanze dirigenti non possono avere soddisfacenti meccanismi di controllo.

    Il FMI tende, tramite le condizioni che pone per la concessione dei prestiti ai Paesi in difficoltà, a privare gli Stati del controllo della loro economia. Questo organismo non cerca di adeguarsi alle realtà di ciascun caso concreto ma cerca di imporre ai paesi le proprie norme economiche. L’obiettivo sarà raggiunto nella misura in cui le particolarità saranno distrutte. Con la normalizzazione economica verrà la normalizzazione culturale e la uniformizzazione dei modi di vita.

    E ancora: L’analisi dimostra che il ricorso indiscriminato al prestito smobilizza l’economia di un Paese, scoraggia il risparmio nazionale, rallenta la crescita della produttività interna, riduce la padronanza della catena tecnologica, orienta l’apparato produttivo verso i bisogni di una economia internazionale decentrata e drena a termine le risorse del Paese verso le potenze industriali. A ciò si aggiunge l’alienazione culturale prodotta dall’introduzione non meditata di un modello culturale straniero, lo sconvolgimento della struttura sociale, in particolare l’esodo rurale e la perdita progressiva dell’autonomia politica.

    Tesi 2. La globalizzazione favorisce le autonomie

    Secondo questa scuola, il mondialismo, inteso come programma mirante all’instaurazione di un governo unico planetario, massima concentrazione immaginabile di potere e quindi minaccia per la libertà dei popoli, è un fenomeno addirittura opposto alla potente forza decentralizzatrice costituita dalla liberalizzazione su scala mondiale dei mercati i quali, essendo insiemi di rapporti volontari dai quali è bandito l’uso della forza, non possono causare quello sradicamento delle varie culture che è invece operato dalla centralizzazione statale, strumento con cui le culture egemoni hanno sempre schiacciato quelle minoritarie.
    Proprio la novità tecnologica costituita dalla diffusione della rete, con le sue conseguenze economiche e culturali, ha dato inizio al declino del rigido controllo che gli stati centralizzati hanno sempre esercitato sulle popolazioni stanziate entro i propri confini. Molti popoli ora avvertono lo stato nazionale, cui più o meno forzatamente appartengono, come un ingombro, perché sanno di essere inseriti in una rete di scambi globali di fronte alla quale le burocrazie accentratrici mostrano, insieme al loro costo, tutta la loro arroganza ed inutilità.

    Friedrich Von Hayek, premio Nobel per l'Economia del 1974, sostiene la necessità di globalizzare i mercati, mentre si dichiara contrario a qualsiasi tipo di governo mondiale: Un governo mondiale anche molto buono - scrive - sarebbe comunque una calamità, perchè precluderebbe la possibilità di sperimentare strumenti alternativi. Dunque, per Hayek, la liberalizzazione degli scambi non porta né deve portare all’omologazione politica.

    La studioso liberista Hans-Hermann Hoppe, in un suo recente saggio scrive: L'integrazione politica comporta maggior potere per uno Stato di imporre tasse e regolare la proprietà mentre l'integrazione economica rappresenta un'estensione della divisione interpersonale e interregionale della partecipazione al lavoro. Come può dunque - si domanda - la liberalizzazione degli scambi comportare un aumento della centralizzazione, considerando che in linea di principio tutti i governi riducono la partecipazione al mercato e la formazione della ricchezza economica?
    Sempre secondo Hoppe, … nel confronto tra integrazione forzata e separazione volontaria, ci sono ragioni a favore della seconda … . I piccoli paesi sono naturalmente portati a scegliere il libero mercato anziché un’economia statalizzata ed inoltre la compresenza di tanti diversi stati sul territorio di un vecchio stato-nazione li pone in naturale concorrenza poiché i loro governi, per evitare di perdere la parte più produttiva della popolazione, sono spinti ad adottare politiche interne più liberali.
    Finalmente, poiché adottando un regime di libero scambio illimitato, persino il più piccolo dei territori può pienamente essere integrato nel mercato mondiale e usufruire di tutti i vantaggi della divisione del lavoro, la liberalizzazione degli scambi risulta inseparabile dall’autonomia.

    Ed infatti, molti piccoli paesi prosperano e non anelano a congiungersi con altri proprio perché si sono aperti ai mercati mondiali, mentre molti grandi stati, portati dalle loro dimensioni a tendenze protezioniste quando non autarchiche, hanno non di rado conosciuto il ristagno economico.

    LA NUOVA EUROPA

    Entrambe le tesi sopra esposte contengono spunti interessanti.

    In ogni caso, mentre la globalizzazione è un fenomeno in espansione da tenere sotto attento controllo, un governo centrale, europeo prima e mondiale poi, è sicuramente qualcosa che si deve e si può fermare, se si vuole evitare una pericolosa involuzione dalla democrazia reale, intesa come effettiva possibilità di incidere sulle decisioni che vengono prese, ad una democrazia soltanto più formale, vuoto meccanismo di delega e rappresentanza.
    Infatti, anche semplicemente per ragioni di numero e di distanze geografiche, in un parlamento continentale o mondiale la voce del singolo cittadino elettore viene ad avere un peso praticamente nullo mentre la gestione vera del potere è in mano alle alte gerarchie politico-burocratiche e la forza di pressione ai grandi accentramenti finanziari ed all’industria della comunicazione.

    L’esame di come si sta sviluppando la nuova Europa è un’interessante banco di verifica delle argomentazioni precedenti.

    La nuova Europa nasce bancocentrica. L’articolo 107 del Trattato di Maastricht recita:
    "Nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dal presente trattato e dallo statuto del SEBC (Sistema Europeo di Banche Centrali) né la BCE (Banca Centrale Europea) né una Banca Centrale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dagli organi comunitari, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo...".

    All’osservazione che, con un’organizzazione economica siffatta, la politica interna dei singoli stati viene essenzialmente governata dall’estero, la risposta è che il nuovo ‘interno’ non è più quello dei singoli stati bensì quello dell’intero continente. È quindi ovvio che la regolamentazione economica avvenga a livello continentale. In più, viene spiegato che è questa la nuova dimensione alla quale occorre adeguarsi. Senz’altro vero. Manca però un particolare importante: la possibilità che resta al cittadino elettore e contribuente di controllare con il proprio povero voto entità talmente potenti e lontane.

    Si consideri, ad esempio, che le famose ‘direttive’ dell’Unione non sono deliberate dal parlamento europeo, il quale ha funzioni solo consultive, bensì dalla Commissione, che è un organo eminentemente tecnocratico svincolato da ogni autentica legittimazione: questa è la ‘sovranità popolare’ di cui godono i popoli europei nella nuova ‘casa comune’, in attesa di quella ancora più grande a venire.
    Il discorso è naturalmente diverso per le grandi istituzioni finanziarie, le quali da tempo hanno intravisto la possibilità di intervenire nella trasformazione economico-politica dell’Europa e del mondo. Ed infatti i supporter più entusiasti dell’unificazione europea sono stati banchieri e governanti, figure spesso coincidenti (come ad esempio nel caso italiano di Prodi, Dini, Ciampi e Berlusconi). Da subito le banche hanno dato inizio ad una girandola di fusioni e altre manovre varie.

    Quanto a prestazioni economiche, la nuova Europa non ha dato finora gran prova di sé.
    Dal momento dell’introduzione dell’euro, la produttività europea ha visto un calo continuo, ed anche il lato politico della costruzione ha mostrato vistose crepe, con il fallimento della missione ‘umanitaria’ nella ex-Yugoslavia e le tensioni create dal caso Iraq.
    Che ne sarebbe stato poi della traballante costruzione europea se un politico sgradito, ad esempio, alla Francia fosse stato democraticamente eletto nella poderosa Germania?

    IMMIGRAZIONE

    È ovvio che popolazioni ad alto tasso di sviluppo demografico e basso livello culturale ed economico cerchino di spostarsi in zone dove è stata prodotta maggior ricchezza, sollecitate a ciò anche dalle trasmissioni radiotelevisive che ne mostrano in genere gli aspetti più allettanti.
    Questi trasferimenti di enormi masse umane non risolvono il problema della sovrapopolazione nel mondo (gli africani con i loro ritmi di proliferazione sono oltre 700 milioni) né quello della povertà, che va affrontato nei paesi d’origine, mentre creano grandi squilibri nelle zone in cui si riversano, come sta accadendo in Europa, una delle parti più popolate del pianeta.

    La situazione in Italia.

    L’emigrazione italiana verso l’America del secolo scorso volgeva verso spazi sterminati e pressoché inabitati. Ancor oggi la densità di popolazione negli USA è di appena 28 abitanti per chilometro quadrato e di 12 in Argentina, mentre in Italia risultano censiti 190 abitanti per chilometro quadrato.
    In queste condizioni di densità demografica, cui si aggiungono tassi di disoccupazione e criminalità fra i più alti d’Europa ed inefficienza dei pubblici servizi, la domanda di quanti immigrati l’Italia possa accogliere non ha ancora avuto risposte serie da parte dei responsabili.

    I governi di centro-sinistra hanno spalancato le porte all’immigrazione con sanatorie e leggi tipo la Turco-Napolitano che prevede, insieme a molto altro, la possibilità di ricongiungimenti famigliari fino al terzo grado, praticamente il trasferimento di interi villaggi, data la vaghezza del concetto di stato di famiglia presso molte delle popolazioni interessate.
    Dal canto suo la Caritas, che gestisce miliardi di assistenza pubblica e privata, continua a premere per la cosidetta politica delle porte aperte, salvo lanciare di tanto in tanto grida di allarme sul fatto che alla robusta criminalità italiana si è aggiunta quella immigrata, mentre il Vaticano è giunto a chiedere per il Giubileo un’ulteriore sanatoria per tutti i clandestini.

    Un mix di interessi elettorali futuri, interessi economici e fumose teorie terzomondiste a spese dei cittadini e della convivenza civile.

    Un argomento fra i più comuni dei fautori delle porte spalancate è che serve manodopera per i lavori che gli italiani non vogliono più fare. Così si ha l’assurdo che mentre, ad esempio, i giovani disoccupati siciliani e napoletani continuano ad essere assistiti con il denaro pubblico, sui pescherecci di Mazara del Vallo e nei campi ci sono marocchini e senegalesi. Un altro è che la popolazione italiana invecchia ed occorre quindi sopperire con un’immigrazione giovane. Ma come il Nord Europa ha da tempo compreso, a fronte del prolungamento della vita media è la nozione stessa di vecchiaia che va rivista, con un adeguato rinvio dell’età di pensionamento. Se qualcuno pensa di risolvere con l'immigrazione il problema di chi pagherà le pensioni, allora dovrà mettere nel conto incalcolabili costi a tempo differito (la casa, la sanità, la moschea, la scuola in lingua madre, etc.) oltre alle inevitabili tensioni ed ai problemi di ordine pubblico.

    Se dunque la tendenza allo spostamento è naturale, assai meno naturale è che i governi, quello italiano in primis, abbiano svolto un’azione assai blanda di contenimento di queste masse umane.

    Sia l’immigrazione un fatto incontrollato per incapacità o imprevidenza, sia un fatto voluto e favorito, essa è diventata un fenomeno sociale di estrema importanza che sta producendo un graduale sfiguramento delle popolazioni europee, diluendole ed intaccandone le originalità culturali con il forzarle a convivere in casa propria con nuove, numerose e a volte assai intolleranti presenze.

    La capacità che un gruppo ha di opporsi ad un progetto che tende a farlo scomparire è direttamente proporzionale al suo grado di organicità interna, al suo essere Gemeinschaft e ciò avviene quando i suoi membri hanno la stessa provenienza etnica e culturale. Pare allora che la massiccia immigrazione che giunge in Europa proprio in coincidenza con la nascita del nuovo superstato sia funzionale alla progressiva creazione di un utile magma umano costituito da atomi disaggregati, privi di quelle radici (lingua, mentalità, cultura, tradizioni) che ne determinano le caratteristiche più significative, estranei ad ogni appartenenza e che mantengono come unico attributo quello della quantità.

    IDENTITÀ DEI POPOLI

    L'identità di un popolo riposa sul lento amalgama prodotto al suo interno da secoli di esperienze vissute in comune in pace ed in guerra entro un territorio che ne è stato teatro e che con le sue caratteristiche ha contribuito a determinarne la specifica "cultura" intesa come Weltanschauung, concezione del mondo.

    Un popolo è tale - scrive Renan - se ha il sentimento dei sacrifici compiuti e di quelli che è ancora disposto a compiere insieme. Presuppone un passato ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. … La sua esistenza è un quotidiano plebiscito.
    La secessione, per Renan, è dunque un diritto naturale.

    A ragione Johann Gottlieb Fichte afferma che la nazione, che è cosa distinta dallo Stato, è una realtà fondata sulla storia: i suoi confini veri non sono pertanto qualcosa di fisico come i monti o i fiumi, che il nemico può sempre varcare, ma le tradizioni comuni e soprattutto i valori condivisi da tutti i suoi appartenenti.

    La lingua svolge un'azione di primissimo piano nel sintetizzare le esperienze collettive, incorporandole in un flusso che si trasmette, a volte arricchito, a volte impoverito, di generazione in generazione e che viene a guidare, per così dire, il pensiero lungo direttrici caratteristiche, riflettendo il carattere del popolo che la parla ed alla sua volta contribuendo a formarlo ed a trasmetterlo.

    In stretta analogia con l’impulso naturale che spinge i singoli individui a prolungare ed affermare se stessi lanciando nella discendenza il proprio codice genetico, anche le motivazioni fondamentali di ogni comunità umana sono la sopravvivenza alle durezze della natura e l’affermazione di fronte alle altre comunità. Profondamente diversi sono però i modi in cui queste pulsioni vengono realizzate nel corso degli eventi che costituiscono la storia.
    Ognuno di questi modi è la sperimentazione di una fra le possibili strade alla sopravvivenza ed alla ricerca della propria ragione di esistere che la natura, in un certo luogo e tempo, consente ad un gruppo umano.
    In questo senso la cultura di un popolo lo distingue dagli altri e lo caratterizza, fintantoché una catastrofe, una trasformazione profonda, lenta o improvvisa, non ne inizi una nuova.

    L’antropologo Claude Levi-Strauss scrive che la vera ricchezza dell'umanità è costituita dai differenti modi con i quali i diversi gruppi umani affrontano la vita nel suo duplice aspetto materiale e intellettuale ossia delle diverse risposte che essi danno al problema del perché vivere e del come sopravvivere.
    Se le chiavi interpretative del mondo e dell'esistenza sono ridotte ad una sola, l'umanità avrà difficoltà a risolvere i propri problemi. Per questo è essenziale che ciascun popolo conservi la propria Weltanschauung specifica, distillato di esperienze originali in secoli di vita comune.

    La società capitalistica industriale, basata su produzione e consumo sempre più frenetico di merci, travolge ogni tipo di cultura che non sia in grado di adeguarsi in fretta alle sue leggi, appiattisce sui suoi propri ogni altro valore, modello, visione. Chi non si dota di un apparato produttivo industriale è destinato a scomparire come entità sociale. Chi se ne dota ex abrupto, senza che il processo sia stato lentamente maturato e metabolizzato, vede presto insorgere contraddizioni, conflitti e rigurgiti sanguinosi. Esempi ne sono paesi di recente industrializzazione in sud America e paesi riccamente dotati di risorse naturali in Africa, dove una ricchezza improvvisa ed importata ha paradossalmente significato per le popolazioni corruzione, massacri, miseria ed emigrazione di massa. L’identità è lo schermo naturale alla devastazione di delicati equilibri interni causata dall'imposizione acritica ed improvvisa di modelli estranei.

    Particolare interesse ha il caso dello stato italiano, che è sorto non da una matura coscienza unitaria, da una vera omogeneità culturale, economica ed etnica ma dalla volontà espansionistica di una casa regnante che ha forzato insieme popoli separati da oltre un millennio di storia.

    L’inventare uno stato forzando insieme i popoli dell’Italia meridionale con la loro storia ed i loro valori e quelli settentrionali passati attraverso la fondamentale esperienza storica dei liberi comuni e con il forte denominatore comune dell’etica del lavoro e della mentalità razionale che l’accompagna e ne costituisce, per dirla con Hegel, il Volksgeist, la ‘moralità sociale’ in cui essere e dover essere coincidono (nella famiglia, nella società civile e nello Stato), l’accentrare il nuovo stato per tema di spinte centrifughe, l’imporre leggi e mercato piemontesi alla società meridionale-papalina, latifondista e spagnolesca e impossibilitata a recepirle, la becera politica di italianizzazione forzata del fascismo ed infine la collusione fra apparato statale romanizzato e grande industria assistita pubblica e privata, tutto ciò ha condotto alla situazione attuale di uno stato che, unico in Europa, ha dovuto ricorrere all'impiego dell'esercito regolare in alcune sue regioni per potervi mantenere una parvenza di ordine civile.

    Mentre già nel 1700 Montesquieu affermava che leggi ed istituzioni dei vari popoli non sono qualcosa di casuale o arbitrario ma sono strettamente legate al carattere dei popoli stessi, ai loro costumi nonché alla natura del paese in cui essi vivono, cioè al clima, alla struttura geografica etc., concludendone che è un puro caso che leggi di un popolo convengano ad un altro, due secoli dopo gli artefici dell’unità italiana ancora ignoravano questi fatti elementari.

    CONCLUSIONE

    Riprendendo lo spunto iniziale sulla fine delle ideologie, si può affermare sia l’impredicibilità del punto di arrivo di questo momento storico estremamente complesso e gravido di trasformazioni economiche, culturali e politiche che la possibilità di incidere con l’azione sul suo svolgimento, per rimanere padroni del nostro destino. Molti popoli in Europa proprio in questi anni hanno fatto significativi passi avanti verso la loro autonomia.

    Chateaubriand si chiedeva alla fine del secolo scorso: Che cosa sarebbe una società universale senza alcuna nazione, che non fosse né francese, né inglese, né tedesca, né spagnola, né portoghese, né italiana, né russa, né tartara, né turca, né persiana, né indiana, né cinese, né americana, o magari che fosse tutte queste società insieme? Che cosa ne risulterebbe per i suoi costumi, le sue scienze, le sue arti, la sua poesia?".

    Che cosa sarebbe, si potrebbe aggiungere, un’orchestra composta da strumenti tutti uguali?

    Per dirla ancora con Renan, attraverso le loro diverse vocazioni, spesso opposte, le nazioni servono alla comune opera della civiltà; tutte apportano una nota a quel grande concerto dell’umanità che è, in definitiva, la più alta realtà ideale da noi raggiunta. La loro esistenza è garanzia della libertà che sarebbe perduta se il mondo avesse una sola legge ed un solo padrone.

    Comportamento, linguaggio, abbigliamento, musica, divertimento, cibo uniformi su scala planetaria allevano un'umanità omogeneizzata tragicamente dotata degli stessi pensieri e stimoli emotivi. Chi viene privato delle sue radici e memoria storica, chi non è in grado di capire attraverso quali percorsi è diventanto quello che è, è in balia di centri di potere economico e politico sempre più lontani, anonimi e potenti, gli unici ad avere mezzi sufficientemente forti per imporre di volta in volta quegli schemi di comportamento che più servano ai propri interessi.

    Privato di un governo locale che sappia contrapporsi come uno scudo alle scelte centrali, il cittadino vedrà il suo potere di influire sul proprio destino e sul mondo destinato ad accogliere i suoi figli diventare insignificante.

    Silvano Straneo

    http://www.nostereis.org/globalizzaz..._identita.html

  9. #9
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    Predefinito Re: Comunismo e capitalismo? Due facce della stessa medaglia: il globalitarismo!


  10. #10
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    Predefinito Re: Il comunismo è davvero morto?

    Boriosi, osceni, inutili: perché prenderli sul serio?

    https://www.corriereregioni.it/2021/...rli-sul-serio/


    I cattolici “inquieti” del ’68 di Francesco Lamendola

    https://www.corriereregioni.it/2021/...sco-lamendola/


    COMUNISMO RADICAL-CHIC

    https://www.corriereregioni.it/categ...-radical-chic/

 

 
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