di Giorgio Amendola - «Rinascita», a. XXXIV, n. 18, 6 maggio 1977, pp. 7-8.

A proposito dell’Intervista di Pietro Nenni

L’intervista di Pietro Nenni sul socialismo italiano (Nenni, Intervista sul socialismo italiano, a cura di Giuseppe Tamburrano, Laterza, Bari, 1977, pagg. VIII-162, L. 2.000) offre «la traccia della testimonianza del secolo che rimane ancora da scrivere (se lo sarà)». Sono le parole della dedica scritta, con la sua nitida calligrafia, dal compagno e amico Pietro Nenni sulla copia del libro che mi ha inviato. È la risposta alle insistenti richieste da me avanzate da anni, a volte con pressioni forse indiscrete, al protagonista di circa settant’anni di storia italiana. Ed io voglio pensare che la «testimonianza del secolo» sia già pronta, almeno nelle parti essenziali, e sia ancora tenuta nascosta per le preoccupazioni politiche che nel militante Nenni finiscono ancora, e a torto ritengo, col prevalere sulle esigenze della ricerca storica. La testimonianza di Nenni potrebbe gettare molta luce sulle travagliate e, per troppi aspetti, ancora oscure vicende non solo del partito socialista ma dell’intero movimento operaio italiano, di cui il partito socialista è sempre stato, ed è, parte integrante.
Nella presente intervista Pietro Nenni, rispondendo alle domande, in verità poco incalzanti, di Giuseppe Tamburrano, offre, appunto, soltanto una traccia di un lungo cammino intrapreso alla fine del secolo scorso.
Il primo ricordo di Nenni fanciullo è quello di uno scontro cruento a Faenza, tra forza pubblica e lavoratori, nel maggio 1898. Il primo atto sovversivo fu la scritta, in un corridoio della scuola, di esaltazione del regicida: «W Bresci». È l’inizio del secolo che vedrà, tra drammatiche vicende, la lenta, contrastata, ma inarrestabile ascesa del movimento operaio italiano.
L’intervista non contiene molte domande che si vorrebbero porre a Nenni e lascia insoddisfatte molte esigenze. Ci sono molti vuoti ancora da riempire. Emergono, dalla traccia fornita, i quattro periodi della sua lunga esperienza: 1) il periodo repubblicano e interventista, 1912-1921; 2) il periodo della difesa della autonomia e della «diversità» socialista, 1921-1934; 3) il periodo della unità d’azione con i comunisti, 1934-1956; 4) il periodo del centro-sinistra, 1956-1972. Dei quattro periodi, il più lungo e il più fecondo di risultati positivi, anche per il partito socialista, fu quello unitario quando, dopo la partecipazione alla Resistenza, il Psi (allora Psiup) si collocò, nelle elezioni del 2 giugno 1946, avanti al Pci.
Se chiare appaiono, dalle risposte, le motivazioni ideali dei vari periodi, scarse ed imprecise appaiono le indicazioni critiche sulle ragioni del passaggio da un periodo all’altro. In realtà la prima milizia repubblicana ha lasciato un’impronta originale che non si è perduta mai: una ispirazione illuministica, una attenzione prevalente ai problemi della libertà e delle istituzioni politiche, una difficoltà a partire da un esame critico della realtà, da una analisi delle forze motrici e dei reali rapporti di forza, per misurare col metro di una severa indagine storica la validità e raggiungibilità degli obiettivi posti alla lotta dei lavoratori. Così l’adesione di Nenni al socialismo non nasce da un esame della crisi italiana del 1919-20, e da una ricerca dei suoi caratteri essenziali, ma da una forte ed appassionata reazione morale di fronte alle violenze fasciste. I suoi scritti di quel momento non forniscono una interpretazione valida a comprendere le ragioni della sconfitta del movimento operaio ed il carattere del movimento fascista. La adesione di Nenni al Psi, nel momento in cui si veniva già delineando la sua sconfitta, fu soprattutto un atto di coraggio e di protesta morale. Alla notizia della devastazione dell’Avanti! Pietro Nenni corse alla tipografia del giornale socialista e presentò a Serrati, sul campo devastato, la sua domanda di iscrizione al partito oggetto di odiose violenze e di feroci persecuzioni.
In quel battesimo socialista di Nenni era già presente la linea della sua pluridecennale azione di dirigente del Psi, ricca di intuizioni politiche e di felici iniziative, animata da una efficace capacità propagandistica, ma debole nella costruzione teorica, organizzativa e umana di un partito che vuole richiamarsi alla classe operaia. In questo senso Nenni si distingueva dai vecchi dirigenti riformisti, da un Prampolini, da un Massarenti o da un Baldini, sempre attenti, invece, alla costruzione di nuovi rapporti di forza, allo sviluppo del sindacato e della cooperativa, alla conquista e alla direzione dei comuni, alla formazione di militanti e dirigenti operai, alla minuta e paziente opera di tessitura di un movimento operaio destinato a durare e ad avanzare nel tempo: tutta una tradizione di tenace lavoro costruttivo che sarà, nella pratica, disdegnata dopo la liberazione dal partito socialista e sarà, invece, raccolta e fatta propria dal partito comunista.
Quello che è stato chiamato il massimalismo di Pietro Nenni, non deriva soltanto dal fatto che, dopo le due scissioni del ’21 e del ’22 e l’uscita nel ’23 del gruppo terzinternazionalista di Serrati, egli restò nel Psi chiamato, appunto, massimalista, ma da una permanente tendenza a porre obiettivi che, pur coerenti a innegabili esigenze di progresso, non rispondevano tuttavia ad una reale maturazione di nuovi rapporti di forza e non venivano resi più vicini da un costante ed infaticabile lavoro di preparazione politica ed organizzativa. In Nenni è sempre presente il distacco tra iniziativa dall’alto e costruzione dal basso, e l’Intervista non indica criticamente le cause di tale nociva contrapposizione.
Nenni rivendica l’azione svolta nel 1923 per impedire a Serrati di portare la maggioranza del Psi alla fusione col Pci, operazione voluta dalla Internazionale comunista e contrastata con successo anche dalla direzione bordighiana del Pci. Di quello che rimase del vecchio Psi – dopo la scissione a sinistra del 1921 e la fondazione del Pci, dopo la scissione a destra del 1922 e l’uscita della destra riformista (Turati, Treves, Matteotti) e la fondazione del Partito socialista unitario, e dopo l’uscita nel 1923 del gruppo terzinternazionalista (Serrati, Li Causi) – Nenni divenne, attraverso alterne vicende, l’esponente più autorevole e, infine, il dirigente riconosciuto dopo la parziale riunificazione del 1931.
Da 50 anni circa Nenni è l’uomo, dunque, che assicura la rappresentazione e la continuità del Psi. I brevi momenti di allontanamento dalla segreteria o dalla presidenza del partito (nel 1939 dopo il patto tedesco-sovietico; nel 1948 dopo la sconfitta del Fronte di Garibaldi; nel 1969 dopo la rottura del riunificato partito socialista) non rompono la continuità di una responsabilità di direzione che egli ha, di fatto, sempre mantenuto.
La domanda centrale – e che Tamburrano non gli ha posto – a cui deve rispondere Nenni è quella che riguarda la sorte stessa del suo partito. È la domanda posta nella discussione aperta su Mondoperaio, con la «tavola rotonda» del 19 marzo alla quale hanno partecipato Gaetano Arfé, Federico Coen, Enzo Forcella e Massimo L. Salvadori. È la ricerca, cioè, delle «ragioni politiche e storiche del declino costante del partito socialista nell’ambito della sinistra italiana e al confronto con gli altri partiti socialisti europei. Si tratta di un dibattito che ha una ragione politica evidente, nel senso che questa sproporzione fra comunisti e socialisti, questa minorità del partito socialista italiano rispetto agli altri partiti socialisti europei, è uno dei nodi della politica italiana che condizione la possibilità di realizzare nel nostro paese un’alternativa di governo della sinistra e condiziona, in generale, la possibilità di uno sviluppo, di uno sbocco in avanti della crisi politica italiana». (Federico Coen, in apertura della «tavola rotonda» del 19 marzo ’77, Mondoperaio, n. 4, aprile 1977).
Nel 1921, nelle prime elezioni politiche dopo la scissione di Livorno, di fronte a 123 deputati socialisti furono eletti soltanto 15 deputati comunisti. Nel 1924, di fronte a 22 deputati del Psi (massimalisti) ed a 24 deputati del Psu – di fronte dunque a 46 deputati socialisti – furono eletti 19 deputati comunisti. Ancora nel 1946 il Psiup raccolse il 20,7 per cento dei voti con 115 deputati, di fronte al 18,9 per cento raccolto dal Pci, con 104 deputati. Perché nel 1976, di fronte a un 34,4 per cento di voti raccolti dal Pci, con 228 deputati, il Psi ha raccolto solo il 9,6 per cento di voti, con 57 deputati? Anche aggiungendo al conto socialista il 3,3 per cento raccolto dal Psdi, con 15 deputati, il risultato non è molto diverso.
Dove è avvenuta l’inversione di tendenza, quando il Pci ha cominciato a guadagnare terreno, quando, infine, è avvenuto il sorpasso? Nel 1926, nella diversa reazione di fronte alle leggi eccezionali? Nel 1930-31, nella diversa partecipazione alla lotta clandestina organizzata nel paese? Nel 1936-37, nel rifiuto del Psi di prendere coscienza della «nuova opposizione» che sorgeva in seno al fascismo? Nel 1942-’43, nel ritardo a riorganizzare il partito nell’imminenza del crollo del fascismo? Durante la Resistenza? Se in queste varie occasioni l’inversione dei rapporti tra Pci e Psi si è venuta via via operando, il sorpasso è avvenuto nel trentennio repubblicano, per il modo con cui il Psi ha organizzato e guidato l’opposizione contro i governi diretti dalla Dc.
Quando si affrontano questi problemi vengono spesso ricordati, e con ragione, dai compagni socialisti i danni operati dalla successive scissioni. Questi danni sono stati certamente grandi. Ma non bisogna prendere quelle che sono le conseguenze (le scissioni) per le cause che le hanno provocate. Nenni ha partecipato direttamente a una decina di operazioni di scissione, riunificazione, ulteriori scissioni, ed è anche egli, per la parte che gli spetta, responsabile dell’incapacità del socialismo italiano a conciliare l’esigenza di un libero dibattito con la necessità di una forte disciplina politica ed organizzativa.
Il Pci dal 1930 ha vissuto, sotto la guida di Togliatti, in uno stato di unità politica, che non ha evitato contrasti, e anche forti tensioni, ma ha impedito lacerazioni e rotture. Ma quali le ragioni di fondo di tali diversi destini? L’unità del Pci, si afferma a volte, sarebbe stata imposta dalla disciplina terzinternazionalista. Questa ha avuto certamente la sua influenza, così come l’applicazione rigorosa del centralismo democratico e il divieto di costituire fazioni. Ma anche grandi partiti socialdemocratici e laburisti (quello tedesco, quello inglese, quelli scandinavi) hanno saputo, con diversi sistemi organizzativi, mantenere la loro unità ed evitare l’emorragia delle scissioni. Bisogna cercare, dunque, in una diversa direzione le cause che hanno provocato il dramma del socialismo italiano. E le vie della ricerca sono quelle, mi sembra, emerse dalla «tavola rotonda» di Mondoperaio nei seguenti punti:
1) Debolezza di una teoria generale socialista, intesa non come chiuso sistema dottrinario, ma come originale metodo di ricerca e come interpretazione storica della realtà italiana, capace di affermarsi nel confronto con la teoria generale espressa dal Pci, soprattutto attraverso l’opera di Gramsci e di Togliatti, ma anche per i contributi recati da un vasto gruppo dirigente (basti ricordare Ruggero Grieco, Emilio Sereni e Mario Alicata, per indicare esponenti scomparsi delle varie generazioni). Il Pci ha saputo raccogliere la grande lezione del leninismo, ma non ha inteso il marxismo ed il leninismo come sistemi dogmatici e li ha interpretati e sviluppati, in modo originale, come metodo di conoscenza della realtà italiana e guida per l’azione.
Nenni ha spesso rivendicato il valore non solo del marxismo, ma persino, in certi periodi, del marxismo-leninismo-stalinismo, senza procedere tuttavia ad una rielaborazione originale e italiana del marxismo. La teoria è stata quasi sempre per il Psi motivo di ambiguità e di approssimazione, secondo, del resto, le peggiori tradizioni del vecchio movimento socialista italiano. Giustamente, Arfé ha denunciato il «divorzio tra partito e cultura». Ciò non vuol dire che siano mancati pensatori socialisti (basti ricordare Rodolfo Morandi e Lelio Basso), ma è mancato un lavoro collettivo di elaborazione, di scambio, di approfondimento, capace di affermare una cultura socialista, omogenea nei suoi tratti essenziali, distinta da quella comunista e capace di stimolarla criticamente e di contrastarne utilmente la crescente egemonia nel movimento operaio e poi nella società italiana. L’apporto recato da uomini provenienti da Gl e dal Partito d’azione, di matrice dichiaratamente non marxista, se ha arricchito il Psi di importanti contributi culturali, ma anche essi di origini filosofiche diverse e contrastanti (idealistiche o neopositiviste), ha reso più difficile l’elaborazione di un programma unitario, coerente nei suoi motivi informatori.

2) La mancanza di un nucleo centrale di teoria socialista ha reso difficile, e alla lunga impossibile, la formazione di un gruppo dirigente unito, generalmente riconosciuto, retto da rapporti fraterni di collaborazione e da norme di costume generalmente accettate. Nenni non ha mai avuto nel Psi la posizione di autorità e di prestigio che Togliatti ha avuto nel Pci. Egli è vissuto sempre isolato, e non è riuscito ad educare e a creare un gruppo di dirigenti capaci di aiutarlo, anche criticandolo. Ma la responsabilità di tale situazione non può ricadere solo su di lui. Il giuoco della frazioni ha provocato, in questo campo, i guasti più profondi. Uomini come Rodolfo Morandi, Sandro Pertini, Giuseppe Saragat, Lelio Basso, Luigi Cacciatore, Oreste Lizzadri, Lucio Luzzatto, Fernando Santi, e poi Emilio Lussu, Riccardo Lombardi, Francesco De Martino, Vittorio Foa, provenienti dal Partito d’azione, per non ricordare che i dirigenti dei primi anni dopo la liberazione, che pur potevano formare un gruppo dirigente di alto valore politico ed intellettuale, si sono sempre contrastati e paralizzati a vicenda. I quadri da essi formati, pur capaci e temprati nelle difficili esperienze, si sono logorati per anni in una lacerante lotta di frazione.

3) La permanente debolezza del lavoro di rafforzamento organizzativo del partito, lo scarso impegno nelle attività di base e nella partecipazione, nelle fabbriche e nella società, alla costruzione e direzione delle associazioni di massa. Tale orientamento dell’attività politica del partito ha determinato un profondo mutamento nella composizione sociale del partito, che ha visto pericolosamente restringersi la vecchia base operaia e bracciantile, e crescere invece quella formata da ceti medi (in prevalenza dai ceti impiegatizi e, particolarmente, dagli impiegati dell’amministrazione statale e di quelle parastatali).
Un’attenzione privilegiata alle polemiche di vertice e alla interminabili disquisizioni tattiche, e la prevalente attenzione prestata, a partire dall’inizio del centro-sinistra, alla gara per contrastare alla Dc posizioni nel sottogoverno, hanno finito col distogliere forze e tempo al lavoro di base, al rafforzamento organizzativo del partito, alla educazione dei militanti. La Conferenza organizzativa di Firenze aveva indicato alcune linee di ripresa, che non sembra siano state seguite con il necessario impegno. L’espressione più clamorosa di questa debolezza organica del Psi a dotarsi di forti strumenti di lavoro, è fornita dalle vicende dell’Avanti!, un giornale di lontane e gloriose tradizioni, oggi ridotto a una limitata diffusione. Se le forze e il denaro gettati nelle lotte di frazione fossero stati convogliati al rafforzamento dell’Avanti!, oggi la stampa socialista potrebbe certamente disporre di strumenti più efficaci.
La pubblicazione dell’Intervista di Nenni, il recente convegno di Parma di studi della storia del Psi, la citata «tavola rotonda» di Mondoperaio indicano che il problema della ricerca delle ragioni del declino del Psi è posto all’attenzione critica del partito socialista. Non dispiaccia ai compagni socialisti se a questa ricerca critica parteciperanno anche i comunisti. E non solo per lo stretto legame esistente tra storia del Psi e del Pci, ma per la convinzione, che non può non essere comune, che l’attuale debolezza del partito socialista è una debolezza di tutta la sinistra, e che ogni ulteriore crescita del Pci potrà avere risultati politici limitati se non sarà accompagnata da una forte ripresa socialista. C’è spazio per tutti e due i partiti nella difficile avanzata dell’Italia sulla via democratica al socialismo. E c’è sempre bisogno, accanto ai partiti che si richiamano alla classe operaia, dell’apporto critico fornito da gruppi di sinistra indipendenti, o da un partito laico come quello repubblicano.
Il declino di una autonoma forza socialista non solo rende astratta e velleitaria la prospettiva dell’alternativa di sinistra, ma ostacola anche la realizzazione della prospettiva del compromesso storico, la formazione cioè di una nuova maggioranza democratica fondata su un incontro tra una Dc liberata dalle resistenze conservatrici e una sinistra unita che non si presenti indebolita perché accanto ad un forte partito comunista c’è una pericolosa dispersione di forze socialiste e anche di forze di democrazia laica e repubblicana. La sinistra deve essere forte in tutte le sue componenti se vuole giungere, nelle migliori condizioni, a un accordo di lunga durata con la Dc, sulla base di un programma di risanamento e rinnovamento della società italiana.
Una comune ricerca storica esige che da parte dei comunisti il legittimo orgoglio per i risultati raggiunti non si trasformi in sterile e presuntuoso trionfalismo. Ma esige anche da parte dei socialisti l’abbandono di ogni recriminazione vittimistica, come se il declino del loro partito fosse opera della diabolica capacità dei comunisti di invadere l’area socialista. Nella lotta politica non c’è nessuna area in partenza ipotecata, ogni vuoto va riempito e il partito comunista ha svolto la sua funzione cercando di raccogliere alcune delle più feconde tradizioni di quell’antico partito socialista che è, non lo si dimentichi, il nostro comune antenato. I socialisti, piuttosto, che cercano di scavalcare a sinistra il Pci, come più volte hanno tentato di fare con scarsi risultati (si ricordi il 1944-’45), troveranno maggiori possibilità di rafforzamento del loro partito riprendendo alcune delle più belle tradizioni del movimento, come la partecipazione alla costruzione di un movimento associativo di massa, come la diffusione capillare della stampa, o come il proselitismo di base, non per accumulare deleghe per i censimenti congressuali, ma per suscitare nuove vocazioni di militanti.
Ho partecipato da vicino alle vicende del Psi, almeno dal 1940 in poi, e ho raccolto, in momenti decisivi, franche ed accorate confidenze dai maggiori dirigenti socialisti, che sono stati e sono rimasti, pure in accese polemiche, miei amici. Dal 1941 la mia amicizia per Nenni ha retto a tutti i contrasti, anche a quelli particolarmente accesi del 1956 e del 1963-’64. Comprendo l’amarezza che circola nelle pagine dell’Intervista. L’augurio che io faccio di una ripresa socialista non risponde soltanto ad esigenze politiche, ma anche alla speranza che il vecchio combattente possa trarre un bilancio più confortante, nella conclusione della «biografia del secolo», sulla capacità di ripresa del Psi per assolvere la funzione che gli spetta nella lotta per portare l’Italia sulla via del socialismo.

Giorgio Amendola

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