di Giorgio Amendola - «Rinascita», a. XXXIV, n. 14, 8 aprile 1977, pp. 21-22.

Un libro di Paolo Spriano

Il libro di Paolo Spriano (Gramsci e Gobetti – Introduzione alla vita e alle opere, Einaudi, Torino, 1977, pagg. 182, L. 2.500) offre, in quest’anno di celebrazioni del 40° anniversario della morte di Gramsci, e ad un anno dal 50° anniversario della morte di Gobetti, un utile contributo alla conoscenza delle ragioni culturali e politiche del rapporto Gramsci-Gobetti.
L’associazione dei nomi di Gramsci e di Gobetti è storicamente giustificata dal fatto che i due soli scritti del dirigente comunista e del giovane antifascista, circolanti in un numero limitato di copie negli anni della clandestinità, portarono entrambi illuminanti e penetranti riconoscimenti reciproci. Quei giudizi contribuirono a squarciare il velo di una generale ignoranza, e a fornire fecondi indirizzi di ricerca e di approfondimento politico ai giovani che si inoltravano nella vita della lotta.
In Rivoluzione liberale (Bologna, Cappelli, 1924, ora in: Piero Gobetti, Scritti politici, Einaudi, Torino, 1960) Gobetti indica in Gramsci «il primo tentativo di intendere Marx al di là delle caduche illusioni sul suo significato di suscitatore d’azione». Gobetti, col suo saggio, fa conoscere il nome di Gramsci al di là del ristretto campo degli attivisti comunisti. E Gramsci nel saggio Alcuni temi della questione meridionale, scritto nel 1926, salvato miracolosamente al momento del suo arresto e pubblicato infine su Stato operaio, nel n. 1 del gennaio 1930 (in significativa coincidenza con la «svolta»), e diffuso illegalmente in Italia in una edizione speciale in carta bible, dedica a Gobetti le due ultime pagine. Dopo aver sottolineato la funzione svolta da Gobetti per disgregare il «blocco intellettuale che è l’ossatura flessibile ma consistentissima del blocco agrario», Gramsci afferma che per la soluzione di quel compito «il proletariato è stato aiutato da Piero Gobetti». Ed il saggio di Gramsci conclude con un commosso omaggio: «E noi pensiamo che gli amici del morto continueranno, anche senza la sua guida, l’opera intrapresa che è gigantesca e difficile, ma appunto degna di tutti i sacrifici (anche della vita, come è stato il caso di Gobetti)».
Le incrociate segnalazioni ebbero, in quegli anni di gravi tensioni politiche e di tenaci chiusure settarie, un grande significato di orientamento unitario e gettarono una luce sui nessi esistenti tra il pensiero del capo rivoluzionario rinchiuso, dopo una dura condanna, nel carcere fascista, e il giovane combattente antifascista morto precocemente, a soli 26 anni, a Parigi, per le conseguenze delle persecuzioni e violenze subite, quando ancora il suo pensiero non aveva avuto il tempo di maturarsi pienamente. Furono semi gettati in un campo ristretto ma fecondo, e permisero di raccogliere, col tempo, frutti preziosi.
Il rapporto Gramsci-Gobetti indica quanto siano lontane le origini del carattere nazionale del comunismo italiano e come esse preesistevano alla stessa fondazione del partito ed all’iniziale periodo di direzione bordighiana, quando il giovane partito era spinto, per affermare la propria funzione, ad accentuare tutti gli elementi di distinzione, di separazione, di «scissione» dal vecchio movimento socialista. Ma quei caratteri esistevano e non tardarono ad emergere quando il Pci volle, nel congresso di Lione, sotto la guida di Gramsci, procedere ad una ricognizione dello stato della società italiana e porre le premesse per la formazione, attorno alla classe operaia, di un nuovo blocco storico.
Il saggio iniziale del libro, che dà il titolo al volume, illustra le ragioni che resero fecondo l’accostamento del giovane Gobetti, appena diciottenne, al più anziano militante rivoluzionario. Il luogo, anzitutto, dove avvenne l’incontro, la Torino della guerra e del primo dopoguerra, centro di profonde esperienze di massa, della contrapposizione frontale tra proletariato e capitalismo, della originale esperienza dei Consigli di fabbrica, della ambiziosa iniziativa culturale e politica dell’Ordine nuovo. Gobetti scopre la funzione della classe operaia e, nello stesso tempo, ritrova in Antonio Gramsci il solo socialista che voglia e sappia fare i conti con gli uomini che rappresentano la cultura laica e liberale italiana. È impressionante la documentazione fornita da Spriano su quelle che furono le stesse fonti culturali per Gramsci e per Gobetti, gli stessi libri, letti magari a qualche anno di distanza, spesso persino le stesse reazioni, e il comune severo giudizio morale per le manifestazioni di un vecchio costume cortigiano e dilettantesco di certa intellettualità italiana.
Gramsci e Gobetti scelgono gli stessi interlocutori privilegiati. Il preteso crocianesimo di Gramsci non sta certo in una inesistente accettazione delle posizioni filosofiche di Croce (e nemmeno di quelle di Gentile), ma nel riconoscimento della posizione egemonica tenuta da Croce nella cultura italiana, e nella coscienza della necessità, per un partito della classe operaia che non volesse restare relegato in posizioni subalterne e superate come aveva fatto il partito socialista, di fare i conti con il filosofo che appariva come il punto di approdo del pensiero italiano.
La reazione antipositivistica ed antimaterialistica, facilitata dal volgare appiattimento di un materialismo svuotato di ogni dialettica storicità, era stata guidata da Croce. Le riviste fiorentine, Sorel, l’anarco-sindacalismo avevano ingrossato il movimento, caricandolo di irrazionali violenze. Se l’influenza del movimento antipositivistico, e particolarmente del volontarismo soreliano, si era fatta sentire, in tempi e modi diversi, sia in Gramsci che in Gobetti, il primo, con l’esperienza diretta della lotta di classe e con l’insegnamento della Rivoluzione di ottobre e del pensiero di Lenin, procede rapidamente in quello che Spriano ben definisce come processo di «autoliberazione e di maturità». Dell’insegnamento di Lenin, Gramsci apprezzò anzitutto il forte elemento volontaristico, che egli oppone al rassegnato fatalismo dei socialisti. Il processo di autoliberazione e di maturità si compie in Gobetti più tardi e più lentamente e subisce i condizionamenti, anche soggettivi, determinati dal suo sforzo unitario, teso a fare di Rivoluzione liberale un punto di incontro tra gli esponenti massimi della coalizione antifascista (da Amendola a Sturzo, da Einaudi a Nitti), gli intellettuali già impegnati nella lotta antifascista ed i giovanissimi che, pur seguendo vie diverse, si troveranno accanto nei momenti decisivi delle battaglie per il progresso del paese.
Il profilo di Gramsci occupa la parte centrale del volume. Scritto nel 1965, nella sua nuova stesura serve, in questo periodo di rinnovato, ma spesso confuso dibattito sul pensiero e l’opera di Gramsci, a ricordare i dati essenziali della sua biografia.
Troppo spesso si discute dell’opera di Gramsci dividendola astrattamente per capitoli e per temi, a seconda degli argomenti trattati e dimenticando: 1) di collocare ogni lavoro nel momento in cui fu scritto (diverse le situazioni, diversi gli scopi, essenzialmente pratici e immediatamente politici quelli del periodo 1917-1926, più meditati e distaccati quelli del carcere; le stesse formulazioni assumono un diverso significato se redatte in periodi diversi); 2) di precisare quando ogni scritto fu conosciuto e da quale numero di lettori, perché l’influenza esercitata da uno scritto dipende dal momento in cui esso circola e viene conosciuto, e dal numero (e qualità) dei suoi lettori. Tutti gli scritti del primo periodo, se circolarono largamente tra gli operai e i militanti torinesi, restarono praticamente sconosciuti fuori del Piemonte. E ciò spiega in parte come il gruppo dell’Ordine nuovo non riuscì ad esercitare una determinante influenza nazionale all’inizio del processo di formazione del partito comunista. Gli scritti del 1923-’26 furono conosciuti dal piccolo numero di lettori dell’Unità e dal breve cerchio dei dirigenti politici antifascisti.
Poi venne il lungo silenzio, rotto solo dalla pubblicazione nel 1930 di Alcuni temi della questione meridionale. Questo fu il testo fondamentale, conosciuto dai militanti clandestini comunisti, ma diffuso tra una più larga rete di militanti antifascisti, da Rodolfo Morandi ad Eugenio Colorni, e diventato testo di studio nelle scuole del carcere e del confine. Fu poi pubblicato illegalmente durante la Resistenza, su Rinascita del febbraio 1945, e infine in più edizioni dopo la liberazione del Nord. Fino alla pubblicazione delle Lettere dal carcere (1947) e dei Quaderni, il saggio Alcuni temi… fu l’unico testo di Gramsci in circolazione. Non va mai dimenticato che Gramsci fu letto e studiato, tra il 1947 e il 1955, dai militanti del partito nuovo formato da Togliatti, che vi cercarono e vi trovarono conferme ai loro orientamenti politici e agli indirizzi fissati da Palmiro Togliatti.
Togliatti non può in alcun modo essere dimenticato quando si studia il pensiero di Gramsci, perché la sua mediazione politica e culturale fu determinante nella presentazione e nella circolazione degli scritti di Gramsci. L’importante è che la presentazione curata da Togliatti rispecchi fedelmente il pensiero di Gramsci. La tesi di un Gramsci corretto o deformato da Togliatti, per motivi tattici e contingenti, è calunniosa e priva di ogni seria documentazione. Il confronto tra le prime edizioni dei Quaderni e la recente edizione critica dimostra che, malgrado tutto il chiasso fatto e le ripetute insinuazioni, le omissioni siano minime e prive di reale significato politico. Solamente i mancati riferimenti a Bordiga hanno una motivazione politica, e indicano l’esistenza in Togliatti di preoccupazioni che risultarono infondate, per la prolungata ed ostinata assenza dalla lotta politica del primo segretario del partito comunista.
Il profilo di Gramsci serve a sfatare le leggende velenose messe in circolazione sul preteso disinteresse della direzione del Pci, e di Togliatti in particolare, per le sorti del detenuto Gramsci. Il saggio di Spriano pubblicato sul n. 13 di Rinascita (1 aprile 1977) fornisce in proposito una ampia e, credo, definitiva documentazione. Il rapporto tra Gramsci e Togliatti e il Pci fu sempre mantenuto tramite la cognata Tatiana e l’amico fedele Piero Sraffa.
Certo non mancarono momenti di tensione tra Gramsci e il centro del partito: malcontento per le campagne condotte all’estero per denunciare le sue gravi condizioni di salute; sospetti pesanti per la lettera inviata da Grieco nel 1928; contrasto politico per l’abbandono della parola d’ordine dell’Assemblea costituente sulla base dei comitati operai e contadini. Ma momenti di tensione, anche più gravi, vi furono anche nella vita di altri compagni detenuti nelle carceri fasciste (Terracini). Se in Gramsci acquistarono una più acuta e dolorosa intensità, molto dipese dallo stato di sofferenza fisica e morale in cui egli si trovava. Togliatti cercò sempre di impedire che il nome di Gramsci fosse coinvolto nelle polemiche che agitarono il centro dirigente. Così egli riuscì ad impedire che, subito dopo la sua morte, in piena stretta staliniana, avesse corso la proposta di Berti e di Di Vittorio di procedere ad una pubblica critica della lettera inviata nell’ottobre 1926 al Cc del Partito comunista dell’Urss, e non trasmessa da Togliatti, lettera che era stata resa pubblica da Tasca.
Gramsci sofferse molto in carcere, più di ogni altro. E non solo a causa della gravità delle malattie che lo tormentarono incessantemente fino a condurlo alla morte, ma per ragioni morali: l’interruzione per lunghi periodi di rapporti epistolari con la moglie, il distacco dai figli, i rapporti difficili con gli altri compagni carcerati, anche per le particolari condizioni di detenzione che gli vennero concesse e che egli era riuscito ad avere, non soltanto per difendere la sua salute, ma anche per poter portare avanti un lavoro di cui egli comprendeva il valore. Il suo isolamento; la voluta e giustificata inosservanza di un certo egualitarismo, spesso assai ferreo e schematico, esistente tra i comunisti carcerati; il suo impegno nel rispettare il regolamento, mentre i comunisti si ostinavano in quegli anni a promuovere in carcere od al confino continue agitazioni; quello che, insomma, veniva criticamente chiamato il suo «legalitarismo», non gli resero facili i rapporti umani con gli altri compagni di pena, già ostacolati dal suo carattere certamente ombroso e riservato.
Il bel libro curato dalla nipote Mimma Paleusu Quercioli, Gramsci vivo nella testimonianza dei suoi contemporanei (Feltrinelli, Milano, 1977, pagg. 240, lire 4.500), non riesce sempre ad indicare quali fossero le reali condizioni di isolamento fisico e morale in cui si trovava Gramsci, perché ogni testimone appare spinto sinceramente a caricare il ricordo della commozione, sempre presente nel suo animo, nella rievocazione di quell’uomo e di quei tempi. Eppure traspare sempre, nei ricordi di Sandro Pertini e dei compagni del penitenziario di Turi, qualche dettaglio che indica come i rapporti tra Gramsci e «gli altri» fossero spesso difficili, e non soltanto per ragioni politiche. Il volume di Spriano, col recente saggio che lo completa, e quello curato da Mimma Quercioli contribuiscono ad eliminare una certa immagine contraffatta di Gramsci, a rompere un mito, a restituire la concreta umanità di Gramsci, nei suoi sviluppi culturali e politici, e nella dolorosa sua esistenza.
Nelle celebrazioni del 40° anniversario della morte di Gramsci, per impedire che degenerino in astratte accademie, prive di concreti riferimenti storici, è bene che sia sempre presente l’uomo, con il suo impegno, con l’opera sua e con il fardello delle sue sofferenze.

Giorgio Amendola


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