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    Predefinito Da Pralognan a Venezia (1977)

    di Dario Valori - «Rinascita», a. XXXIV, n. 6, 11 febbraio 1977, pp. 13-14.

    Un momento cruciale della storia del Psi ricostruito vent’anni dopo da uno dei protagonisti

    È possibile a distanza di vent’anni – febbraio 1957 – un giudizio ponderato sul congresso di Venezia del Psi? Non dico da parte degli osservatori e degli studiosi in generale, ma da parte dei protagonisti.
    Nel partito socialista, per molti anni, nel corso delle più dure lotte interne, dal 1957 al 1964, il richiamo al congresso di Venezia era sempre caratterizzato dal fatto che, da un lato, c’era l’immagine di un Nenni tradito e messo subdolamente in minoranza, dall’altro c’era il rimprovero ai suoi antagonisti di aver sprecato una vittoria e di non aver proceduto alla sostituzione dell’allora non tanto vecchio leader.
    Per comprendere il congresso di Venezia, occorre compiere uno sforzo per valutare quali fossero, in quel tormentato anno, i problemi del Psi. Nei primi mesi del 1956, il partito socialista stava attuando la politica fissata dal congresso di Torino del 1955, che aveva avuto al suo centro il tema dell’incontro tra socialisti e cattolici. Il valore di quel tentativo era rappresentato dall’impegno al superamento dell’altalena massimalismo-riformismo, impegno che fu l’obiettivo fondamentale della politica di Rodolfo Morandi tra il 1950 e il 1955. Quella politica aveva avuto un suo primo risultato nella primavera del 1955 con la sconfitta dello scelbismo. L’iniziativa socialista si muoveva nell’ambito della politica unitaria con il Pci, nel quadro della quale il Psi veniva allora definito «l’ala marciante dello schieramento unitario».
    Nell’autunno del 1955, Nenni era andato con una delegazione del Psi a Pechino, dove si era incontrato con Mao, e in Urss, dove ebbe un colloquio di ben cinque ore con Krusciov. In questo quadro politico avvennero il XX Congresso del Pcus e il rapporto segreto di Krusciov.
    Nel frattempo, le elezioni amministrative della primavera del 1956 segnarono una certa ripresa della socialdemocrazia. Alla fine di agosto, Nenni e Saragat, si incontravano a Pralognan, progettando l’unificazione tra il Psi e il Psdi a breve termine. Poche settimane dopo, gli avvenimenti polacchi e ungheresi e, in Italia, la dichiarazione Pci-Psi di superamento del patto di unità d’azione, sostituito da un «patto di consultazione», subito naufragato.
    A ripercorrere il travaglio del Psi di fronte ai singoli avvenimenti, a rileggere vecchi appunti, vecchi articoli e vecchi verbali, ci si accorgerà che il difetto maggiore, che io vedo a distanza (e che secondo me riguarda sia Nenni che i non nenniani), consisteva nella mancata individuazione di un centro di ricerca e di dibattito unitario attorno al quale utilmente lavorare. Anche sulla politica del congresso di Torino c’erano stati accenti di interpretazioni diverse. Con il XX Congresso il dissenso diviene però subito difficile a superarsi. Vi furono due momenti: uno quando, di fronte alla critica a Stalin, Nenni disapprovò prontamente Krusciov, annunciò di voler discutere di tutto ciò con Togliatti e sembrò voler scegliere una collocazione differenziata dal Pci su questo terreno, propenso ad una «storicizzazione» che confinava col giustificazionismo. Attenzione, gli fu detto da qualcuno (mi pare fosse Panzieri) su questa strada noi verremo scavalcati dal Pci, che sta affrontando il problema con un rilancio della tematica della via italiana al socialismo. Fu solo successivamente, nell’articolo «Luci e ombre sul XX Congresso», nel quale rimase ancora tuttavia una eco di eccessiva storicizzazione, che Nenni rovesciò le sue posizioni. Mentre il giustificazionismo nei confronti di Stalin e la critica a Krusciov non erano condivisi da quanti di noi erano più portati a vedere gli aspetti positivi del XX Congresso, i nuovi accenti di Nenni non furono condivisi da compagni che pure, negli anni successivi, furono fra i più accesi «autonomisti».
    La situazione peggiorò con i risultati delle elezioni amministrative e con la divulgazione del rapporto Krusciov. Pur con qualche flessione locale, nelle amministrative del 1956 il Psi registrò un successo: ma, come ho detto, la socialdemocrazia, dopo il tracollo del 1953, ebbe una ripresa. «I dati politici – disse Nenni – sono modificati dai risultati elettorali: ci ritroviamo di fronte al fenomeno socialdemocratico che era in via di scomparire… È il fatto politico di queste elezioni». È da questo momento che prende l’avvio una politica di riavvicinamento tra i due partiti agevolata dalla presenza di Matteotti alla segretaria del partito. Non vi fu divisione né dissenso sul tentativo da compiere per influire sulla formazione delle giunte. E non si deve dimenticare che, in tutta la fase successiva, pur assumendo una posizione autonoma, il Psi mai avallò, in quei mesi, una discriminazione anticomunista. Ma dalla politica di riavvicinamento fra Psi e Psdi andava però scaturendo, più dall’esterno che dall’interno del Psi, l’ipotesi dell’unificazione. L’articolo di Nenni sul rapporto Krusciov fu per la socialdemocrazia l’occasione per sostenere la campagna unificazionista, che doveva poi trovare sbocco nell’incontro di Pralognan. C’era tuttavia da chiedersi perché questa ipotesi andava avanti.
    Nel bilancio della formazione delle giunte del 1956 fu impossibile non constatare come la politica del congresso di Torino avesse trovato dei limiti seri nell’atteggiamento della Dc, non essendosi da nessuna parte verificata forma alcuna di apertura al Psi. Si ricercavano quindi altre ipotesi: si parlò di fronte repubblicano e poi di unità socialista, con l’obiettivo di esercitare una nuova e diversa pressione sulla Dc per individuare una diversa politica, non più diretta a operare sulla Dc nel suo complesso ma, eventualmente, a distaccarne dei settori. Si ricordi che a Pralognan, nell’incontro Nenni-Saragat, venne avanzata l’ipotesi di un governo socialista di minoranza.
    Infine, nella svolta che si profilava, ebbero non poco peso, su alcuni compagni, in modo rovesciato, le varie posizioni progressivamente assunte dal Pci. In una riunione del mese di luglio del 1956, Nenni espresse l’opinione che si andasse verso un tentativo del Pci di «approfittare della sua momentanea autonomia» per porsi come protagonista di una politica «socialista» in Italia. In questo caso il Psi «si sarebbe visto togliere l’iniziativa di portare l’orientamento del paese sulla elaborazione di una nuova politica del Psi». Preoccupato di questa prospettiva, Nenni propose addirittura – e la direzione non accettò – l’anticipazione del congresso nazionale.
    Era così sconvolgente il secondo articolo di Nenni, quello sul rapporto Krusciov, così come ci parve allora? Letto oggi non risulta certo tale. Che cosa, dunque, lo fece valutare come eccessivo? Fu, senza dubbio, il nesso che si incominciava a intravedere tra le tesi esposte e la piattaforma di politica interna immediata che andava a poco a poco delineandosi e i cui termini saranno poi perseguiti a lungo: rottura del rapporto con il Pci (ricordo di aver partecipato in quei mesi all’ultima riunione della giunta di intesa, contrassegnata da una posizione molto polemica di Nenni), nuovo rapporto con il Psdi, rottura con l’Urss e con il Pcus. Tutto questo danneggiò il dibattito nel Psi, bloccò ogni impulso a parteciparvi, con coraggio e spregiudicatezza come sarebbe stato necessario, favorì lo schematismo e i ritardi.
    L’incontro di Pralognan fece precipitare la situazione: è noto come la Direzione non fosse informata dell’iniziativa e quali lacerazioni questo avvenimento creò nel gruppo dirigente. Da quel momento la pressione esterna sul partito socialista andò sempre accrescendosi: non c’era soltanto l’invito a rompere con il Pci, ma l’aperto appello a Nenni a rompere anche con un gruppo dirigente che si era sforzato di mantenere, in ogni modo, l’unità. Scriveva in quei giorni la Giustizia: «Pensiamo che, nonostante tutto, il compagno Nenni possa riprendere saldamente in pugno il partito, solo che abbia il coraggio di assumere tutte le sue responsabilità dinanzi al paese, dinanzi all’elettorato del Psi, che è suo e non certo dell’apparato, ed è con lui (…). Non cerchi per il momento l’on. Nenni impossibili soluzioni di unanimità. Si contenti di una soluzione di maggioranza. (…) Nenni si batta per conquistare la sua maggioranza. Il resto verrà da sé (…)».
    Eppure, discutendo e anche fra aspri contrasti, in quei mesi si erano affrontati molti problemi: il superamento del patto di unità d’azione, le valutazioni dei fatti polacchi e ungheresi (su di essi vi fu unanimità di giudizio, nonostante la leggenda, utile a una certa propaganda, sui «carristi», poi smentita dallo stesso Nenni, in anni recenti), gli elementi nuovi della situazione politica italiana.

    (...)
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    Predefinito Re: Da Pralognan a Venezia (1977)

    Al congresso di Venezia il partito socialista andò, secondo il suo statuto, sulla base di una relazione della Direzione che doveva essere discussa nei congressi provinciali, approvata o respinta, o integrata, al tempo stesso procedendo alla elezione dei delegati in rapporto alle conclusioni politiche. Questa relazione fu consegnata da Nenni ai membri della Direzione, con in rituale del tutto nuovo, «in busta chiusa e personale» la sera del 28 novembre 1956. E la sera stessa, a casa di Tullio Vecchietti, una parte dei membri della Direzione si riunirono per decidere un comune atteggiamento sulla relazione, da esprimere la mattina dopo. Questa riunione fu determinata dalla voce corrente a Montecitorio che Nenni avesse preparato un testo di rottura, per scavalcare la Direzione e appellarsi al congresso. Si riproponeva così il dilemma che da mesi travagliava il gruppo dirigente: giungere ad una aperta rottura politica con Nenni oppure compiere ogni sforzo per «condizionarlo»? Per comprendere che cosa rappresentasse questo dilemma per i dirigenti socialisti contrari alle prospettive di Nenni (ma probabilmente anche per Nenni e per coloro che condividevano le sue posizioni), occorre ricordare che il partito socialista dal 1946 al 1949 aveva subito una serie di scissioni. Poi il dissenso non si era più tramutato in frazionismo. Il partito ne aveva guadagnato in forza organizzativa e in prestigio politico, anche se non sempre era riuscito a risolvere il problema di una completa dialettica interna.
    Alla riunione di quella sera erano presenti Pertini, Lizzadri, Vecchietti, Targetti, Lussu, Valori, Gatto, Panzieri, Foa, De Martino, Luzzatto e Lami: oltre la metà, cioè, dei membri della Direzione. Il parere fu unanime, ad eccezione di Lussu: chiedere alcune modifiche alla relazione su certi punti, batterci nella «interpretazione» del testo su alcune questioni, prepararci a tenere testa eventualmente a Nenni al congresso, per non ricadere nella cosiddetta «linea Pralognan». Ricordo bene l’opinione di Lussu: non aveva neppure voluto leggere il testo. Disse: «Qualunque cosa ci sia scritto, non mi fido». Questo dimostra a qual punto ormai erano deteriorati i rapporti nel gruppo dirigente. La Direzione approvò la relazione con una serie di modificazioni apportate da una commissione ristretta. Nenni dichiarò di accettare l’unanimità come «base di discussione da offrire al partito» e si augurò che la convergenza diventasse più reale nelle prossime settimane. Sarebbe troppo lungo e di scarso interesse descrivere le manovre che si dispiegarono in quei giorni: il solo punto da ricordare è che furono esercitate su Nenni pressioni molteplici perché rifiutasse l’unanimità, e su alcuni membri della Direzione perché votassero contro.
    Cominciò la preparazione del congresso. Il dibattito fu ampio e coinvolse bene la base del Psi. Con quali orientamenti? Mi pare di poter dire che la maggioranza dei compagni, nelle sezioni e nei congressi provinciali, esprimesse una linea che evitava ogni estremizzazione; rifiutava la rottura a sinistra e l’antisovietismo, cercava forme e modi autonomi di iniziativa del Psi nella situazione italiana, respingeva la unificazione con il Psdi come fine, ne accettava l’ipotesi ma solo come mezzo e ne stabiliva prove e tappe, sottolineava la necessità di edificare una società socialista tenendo conto delle negative esperienze denunciate dal XX Congresso del Pcus, confermava il valore della politica di coesistenza pacifica.
    La relazione scritta da Nenni e approvata dalla Direzione offriva realmente un base di larghe convergenze. Basti rileggerne alcuni punti: «Il socialismo non è soltanto un certo modo di produrre, ma è democrazia operaia; è gestione diretta operaia e contadina nelle aziende, in un sistema di garanzia costituzionale individuale e collettiva che renda impossibile la violazione della legalità e la organizzazione del silenzio o dell’omertà di fronte alla sempre possibile degenerazione burocratica e poliziesca delle strutture amministrative dello Stato. Le libertà di opinione, di stampa, di organizzazione, di sciopero, di elezione, non sono borghesi o proletarie, ma sono conquiste di valore universale da difendere sempre e in ogni caso». E ancora: «La socialdemocrazia e il laburismo non vanno generalmente al di là di criteri più giusti e di ripartizione del reddito, di libertà dal bisogno, di benessere generale. La loro azione politica si svolge nell’ambito della società borghese che si sforzano di rendere più equa e più giusta. La socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, rivoluzionaria anche se conseguita con metodi legali e parlamentari, è affermata in teoria, abbandonata nella pratica. Né il socialismo senza democrazia e senza libertà, né la democrazia e la libertà senza il socialismo possono realizzare il pieno sviluppo e la soluzione della lotta di classe». Dopo le vicende dell’abolizione dell’unità d’azione e il naufragio del patto di consultazione, sul rapporto fra socialisti e comunisti la relazione affermava: «Ciò che dà alla politica unitaria un carattere permanente, ciò che di essa fa una conquista inalienabile non sono i patti scritti di azione o di consultazione: è la coscienza della responsabilità del partito verso i lavoratori nel suo insieme; dei socialisti verso i comunisti, di ciascuno di essi verso i lavoratori cattolici e di altri raggruppamenti, è l’impegno di mantenere intatti i legami di classe nel sindacato, negli organismi di massa, nella fabbrica, nel villaggio, nelle pubbliche amministrazioni: è la ricerca del massimo di unità fra le masse, fuori di ogni preclusione. Su questa base, le relazioni fra i partiti operai e quindi fra il partito socialista e il partito comunista sono relazioni di libertà nell’iniziativa, di emulazione nella azione, di scambio di opinioni, di reciproca comprensione nella franca discussione dei punti di dissenso e di contrasto». L’unificazione veniva prospettata come mezzo possibile per risolvere i problemi italiani, ma dopo aver ribadito il carattere classista, democratico e internazionalista del partito: «Le masse popolari, gli operai, i contadini, gli intellettuali, i giovani non domandano al socialismo soltanto delle verità teoriche, una risposta scientifica sulle leggi di tendenza della società, gli domandano prontezza ed efficacia nell’azione. L’unificazione darà vita ad un partito nuovo, che non sarà né riformista, né massimalista, secondo i vecchi schemi, ma sarà un partito classista e democratico, espressione delle forze migliori di rinnovamento della società italiana». Non è dunque incomprensibile che larga parte della base approvasse questa linea. Apparve però evidente al congresso che una serie di affermazioni da parte di Nenni erano solo dirette a recepire preoccupazioni e ad evitare diffidenze dei delegati e della base. Ma i toni usati nel suo discorso erano rivolti all’esterno; la regia del congresso, certi saluti (tra i quali quelli assurdi dei «socialisti senza tessera»), la pressione degli invitati, gli appelli della stampa, le richieste di sconvolgimento del gruppo dirigente indicavano che in realtà si voleva andare ben oltre le prospettive indicate. Fu un processo alle intenzioni? La storia successiva ha dimostrato che non lo era.

    (...)
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    Predefinito Re: Da Pralognan a Venezia (1977)

    Di qui l’idea di garantire da ogni eventuale superamento della piattaforma congressuale l’avvenire del partito. Era stato Nenni, quando si erano posti i problemi delle elezioni congressuali, a reclamare lo scrutinio segreto. C’era in lui la convinzione, sbagliata, di una non rappresentatività dei gruppi dirigenti provinciali e nazionali. I rischi di una simile votazione erano evidenti. Devo dire che da parte di molti di noi fu compiuto ogni sforzo per evitarla. In realtà, molti degli amici di Nenni erano però convinti di stravincere e preannunciavano quella sconfitta del cosiddetto «apparato» che la Giustizia aveva chiesto mesi prima. Si formò così una alleanza che andava da Basso a Lussu, a Pertini, ai cosiddetti «morandiani» («cosiddetti» perché tutti noi, che avevamo lavorato con Morandi, non ci definivamo mai «morandiani»): una alleanza attorno ad un certo numero di nomi da votare. Erano, in sostanza, i nomi del gruppo dirigente che al centro e alla periferia aveva guidato il partito negli ultimi anni. Considerammo però giusto votare anche nomi come Foa, Santi, De Martino, che pure non si erano schierati sulla base delle nostre critiche alla linea di Nenni, ma si erano attestati su una linea mediana. I candidati più direttamente appoggiati da quanti si richiamavano più esplicitamente a Nenni furono eletti in numero molto limitato. Alcune esclusioni dal Comitato centrale furono, addirittura, clamorose. Ciò significava un preciso orientamento dei delegati. Non vi fu l’intenzione di tendere una trappola a Nenni, come fu detto, anche perché nessuno mai pose il problema della sua sostituzione alla segreteria del partito. Fu purtroppo Nenni a non accettare il risultato del voto e a minacciare il suo ritiro. Ciò pose delicati problemi: la coalizione che si era costituita non si era mai posta, come ho detto, il problema di un nuovo segretario, ma solo di garantire, con un certo Comitato centrale, il mantenimento del Psi su una linea di rinnovamento socialista, di iniziativa politica, contro ogni ipotesi di socialdemocratizzazione e di unificazione affrettata.
    Inutile rievocare i particolari delle ore che seguirono il voto, le trattative convulse, i molti episodi che potrebbero solo testimoniare il grado di difficoltà nei rapporti interni, anche personali, nel gruppo dirigente del partito. Per accettare di restare segretario del Psi, Nenni impose l’allontanamento dalla Direzione di Pertini e di Lussu. Volle un rivincita sul voto del congresso che colpisse Lussu, per la sua tenace intransigenza, ma colpisse soprattutto Pertini, come vice-segretario uscente, che aveva contrastato le iniziative «alla Pralognan». Fu giusto allora, da parte della futura «sinistra» e dei «bassiani», accettare le condizioni di Nenni? Momentaneamente ciò evitò una più grave crisi del Psi. Ciò apriva, inoltre, la via a un nuovo tentativo di collaborazione, che, certo, non fu facile, ma portò, comunque, il Psi nel 1958 alla sua più alta percentuale elettorale dopo il 1946. Appunto per questo, penso oggi che la rinuncia fu pesante, perché dallo sforzo di ricomposizione di una direzione unitaria tagliava fuori uomini e componenti che tanto rappresentavano nella storia del socialismo italiano. I tempi sono mutati: non credo che ora criteri del genere si affermerebbero più.
    Che cosa fu dunque il congresso di Venezia? Per alcuni aspetti, un contributo importante al dibattito e alla ricerca del movimento operaio. Per altri aspetti, per la superficialità delle impostazioni, per l’ombra dell’unificazione socialdemocratica, solo una tappa del travaglio socialista, con una insufficiente analisi e rapporto con la realtà economica e sociale del paese, con proposte che troppo guardavano all’immediato e che perciò dovevano negli anni a venire mostrare la loro aleatorietà. Era certo utile e necessario un rilancio dell’iniziativa socialista, ma troppi elementi, soprattutto se ci riflettiamo oggi, dopo la storia di questi vent’anni, mostrano le debolezze e gli aspetti errati del disegno impostato da Nenni su due supposizioni sbagliate: il crollo del mondo socialista, la crisi del Pci. Continuo a pensare che le conclusioni del congresso non siano state perciò un fatto negativo per il Psi, come affermavano taluni, ma che siano valse a bloccare almeno momentaneamente un processo che nel corso del 1956 non si sviluppava verso il rinnovamento, da tutti propugnato e accettato, ma verso un vero e proprio rovesciamento di fronte. I «se» sono sempre pericolosi. C’è tuttavia da chiedersi: quali gravi elementi avrebbero caratterizzato la situazione italiana se quel processo alla fine del 1956 non fosse andato avanti?
    Certo, nessun silenzio deve essere posto sui limiti di quanti contrastarono allora le linea di Pralognan, prima, durante e dopo il congresso.
    Ma proprio la storia successiva del Psi indica che le forzature della politica di autonomia e di iniziativa del Psi, tentate e respinte a Venezia e attuate negli anni sessanta, non approdarono ad alcun risultato positivo, ma provocarono soltanto una crisi dalla quale solo a gran fatica e solo in parte il Psi è andato uscendo.

    Dario Valori
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