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    Predefinito È ancora attuale il meridionalismo di Gramsci? (1977)

    di Rosario Villari - «Rinascita», a. XXXIV, n. 18, 6 maggio 1977, pp. 31-34.

    Un tema centrale nella riflessione sul quarantesimo della morte

    1. L’intervento nella recente ripresa del dibattito su Gramsci è stato per diversi settori della cultura il modo più diretto e aperto per prendere posizione sui grandi problemi dell’attualità politica e sociale. Tutto sommato, credo che questa debba essere considerata una tappa importante del processo di assimilazione del patrimonio ideale e politico gramsciano e che ci siano parecchi elementi di novità nel modo in cui, in questa occasione, la cultura italiana si è posta di fronte ad esso. Non sono mancati, com’è avvenuto anche in passato, tentativi di liquidare e rifiutare l’opera di Gramsci, di negarne, da punti di vista diversi e contrastanti, la validità interna o la consonanza con i problemi del presente. Ma in generale c’è oggi una più larga e definitiva coscienza della necessità di assimilarne positivamente i contenuti e i valori, anche se con maggiore spirito critico e problematico.
    Di questi orientamenti generali occorre tenere conto anche nell’analisi di aspetti particolari dell’opera gramsciana, specie se si tratta di un tema come la questione meridionale, che pure è stato lasciato in ombra dalla prevalente impostazione teorico-politica dell’attuale discussione, imperniata sul problema generale del rapporto tra democrazia e socialismo. Impostazione pienamente legittima e realistica, poiché il problema di dare allo Stato ed alle istituzioni una struttura democratica aperta al superamento del sistema capitalistico si è posto concretamente a mano a mano che si sono sviluppate l’organizzazione e l’azione del movimento operaio e socialista. Ma anche da un’analisi teorica e da una ricerca sulle grandi linee strategiche del movimento socialista emerge una questione più immediata e attuale: su quali basi ideali e pratiche è possibile costruire un nuovo schieramento di forze sociali, politiche e culturali abbastanza ampio e nello stesso tempo abbastanza articolato da potere realizzare il superamento della crisi, un decisivo sviluppo democratico e una profonda riforma della società e dello Stato.
    In questo quadro generale sono stati affrontati i temi che riguardano più specificamente il pensiero gramsciano: il rapporto tra Gramsci e la tradizione del marxismo e del leninismo, il confronto tra la sua concezione dell’egemonia e le attuali prospettive di sviluppo pluralistico del nostro sistema democratico. Non si tratta dunque di una discussione astratta, ma di una ricerca che si riferisce direttamente alla situazione attuale, alle tensioni esistenti all’interno della nostra società e perfino alla lotta politica immediata e che esprime in forma particolare e teorica una fase particolarmente intensa di travaglio e di apertura di tutto il movimento socialista.
    Il ruolo che in questa fase assume l’eredità di Gramsci esclude quindi che la commemorazione del quarantesimo anniversario della sua morte possa avvenire in forma esteriore e formale. Ma il fatto di mettere in rilievo la riflessione di Gramsci sul Mezzogiorno ha un particolare significato e corrisponde ad una valutazione complessiva della sua opera che non coincide interamente con la visione che è scaturita dalle analisi recenti. Il riconoscimento che la questione meridionale occupa un posto centrale nel pensiero gramsciano comporta infatti la necessità di allargare l’orizzonte della discussione al di là dell’analisi teorico-politica e del confronto ideologico e anzitutto di mettere l’accento, più di quanto finora non sia stato fatto, sull’impostazione storica di tutta l’opera gramsciana e sul contributo che da questa impostazione, dal ripensamento delle grandi linee della storia nazionale ed europea, è venuto alla visione strategica di quella che Gramsci ha chiamato «guerra di posizione», del processo di trasformazione delle società capitalistiche avanzate.
    Nelle attuali discussioni e polemiche, inoltre, è stato predominante il confronto tra Gramsci e la realtà del nostro tempo, la ricerca di ciò che è vivo e di ciò che è morto nel suo pensiero, di ciò che è superato e di ciò che può aiutarci a risolvere i problemi del presente. Ma, pur apprezzando gli aspetti positivi e l’utilità di questa impostazione, ritengo anche che, nel caso di Gramsci e in particolare a proposito della sua visione della questione meridionale, qualunque modo di avvicinarsi alla sua opera sarebbe inadeguato se non tenesse conto di un aspetto fondamentale: se non tenesse conto, cioè, dell’influenza che essa ha avuto nelle vicende del nostro paese. Intendo delle influenze che essa ha avuto non soltanto negli orientamenti della cultura ma nella complessiva storia politica e sociale degli ultimi trent’anni. In altri termini, il problema non è soltanto del confronto col presente, di vedere in che misura possiamo ancora servirci di Gramsci nello sforzo di riforma della nostra società. Si tratta anche di valutare la presenza di Gramsci nella nostra storia recente, nel cammino che l’Italia ha compiuto dalla liberazione od oggi, partendo dall’idea che, al di là dei contrasti e delle violente contrapposizioni, la trasformazione della società che si è venuta realizzando in questo periodo è stata il risultato del concorso di forze diverse e che, malgrado la permanenza di squilibri e le lacerazioni di determinati momenti, c’è stata una sostanziale confluenza su alcuni fondamentali presupposti dell’Italia repubblicana. Questa valutazione tende a legare più strettamente l’opera di Gramsci ad una determinata fase della nostra storia (che, del resto, copre l’arco di un cinquantennio che ha visto avvenimenti decisivi e svolte fondamentali che hanno cambiato o addirittura rovesciato alcuni tra i presupposti su cui si è costruito in origine lo Stato nazionale) e a mettere l’accento sulla necessità dello sviluppo della concezione gramsciana e del suo adeguamento alle mutate condizioni del paese. Ma ciò non esclude la valorizzazione dell’apporto che dall’opera di Gramsci può venire alla nostra riflessione sul presente, della sua permanente validità. Credo anzi che in questo modo ciò che in un certo periodo è apparso come patrimonio quasi esclusivo di un determinato schieramento possa rivelare meglio la sua portata generale, la sua appartenenza alla coscienza collettiva di tutta la nazione.
    Mi rendo conto anche delle difficoltà che presenta questo modo di considerare il problema. C’è soprattutto il pericolo di spostare il discorso dall’analisi specifica del pensiero di Gramsci, e in questo caso particolare del suo rapporto con la tradizione meridionalistica, dei suoi caratteri originali rispetto allo svolgimento del pensiero marxista, alla ricostruzione di problemi e vicende di portata più generale. Ma la mia convinzione è che così emerga il suo valore reale: che è di aver costituito un punto di riferimento fondamentale e concreto per il destino e per le lotte di grandi masse di uomini, e specialmente di uomini che per la prima volta nella storia del nostro paese hanno avuto modo di dare alle proprie aspirazioni, al proprio desiderio di giustizia, una espressione politica ed una forza reale. Non bisogna dimenticare che Gramsci ha vissuto, e operato ed ha esercitato la sua influenza in una fase storica (tra guerre mondiali, crisi economica, fascismo e postfascismo) di profonde fratture e di rifondazione del nostro Stato e della nostra società, e non in un periodo di attesa o di preparazione di un momento che non è ancora giunto.
    Del resto, se oggi la discussione su Gramsci coinvolge forze politiche e culturali che sono lontane dal suo orientamento ideale, questo solo fatto dimostra che essa non nasce dalla semplice esigenza di una più precisa sistemazione storica. Il nostro paese attraversa una fase in cui alle spinte disgregatrici che nascono dalla crisi che attraversiamo si contrappone una ricerca che non è di singoli, che non è soltanto di gruppi dirigenti, ma è collettiva e di massa, per aprire la via alla ripresa dello sviluppo della società nazionale. Vi è una profonda esigenza di rielaborazione, di rinnovamento, di rilancio dei valori che costituiscono la base unitaria della nostra vita collettiva: ed è qui il senso del ritorno a Gramsci e dello sforzo di trarre il massimo possibile da una concezione che è nata dalla necessità di costruire nuovi metodi e nuovi valori unitari dopo che il liberalismo, il movimento operaio e le correnti della democrazia tradizionale (comprese quelle di matrice cattolica) erano state sconfitte dal fascismo.

    (...)
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    Predefinito Re: È ancora attuale il meridionalismo di Gramsci? (1977)

    2. Pur tenendo conto delle grandi differenze, la fase attuale della nostra storia si può paragonare a quella che abbiamo attraversato all’indomani della caduta del fascismo e nel periodo del dopoguerra. Ma quello fu anche il periodo in cui la visione gramsciana dei problemi della nostra società, della strategia del movimento operaio e della rivoluzione socialista cominciò a diffondersi ed a prendere consistenza sul terreno politico. Il problema del Mezzogiorno fu posto allora al centro dell’attenzione di tutte le forze politiche e culturali che allora si posero l’obiettivo della rivoluzione democratica. Una vera riforma della società italiana sembrava impossibile – come sosteneva del resto tutta la tradizione del meridionalismo liberale e democratico – senza il superamento della frattura tra Nord e Sud o almeno senza neutralizzare e superare le resistenze che il Mezzogiorno offriva al processo di rinnovamento del paese. Le correnti liberaldemocratiche – da quelle tradizionali alle nuove forze del Partito d’azione – fallirono nel progetto di diventare la forza dirigente della rivoluzione democratica; e il fallimento fu la premessa di una loro profonda crisi politica e culturale, poiché da allora il loro ruolo fu drasticamente ridimensionato rispetto all’egemonia che avevano mantenuto in passato.
    Non è qui il caso di esaminare le ragioni del fallimento; ma certamente una delle sue condizioni fu anche la scarsa o nessuna penetrazione nel Mezzogiorno, la sostanziale estraneità, se non addirittura ostilità, ai processi nuovi che si stavano verificando in quella parte del paese. Alcuni studiosi attribuiscono questa estraneità all’inadeguatezza degli strumenti di indagine della nuova realtà che si era creata in seguito alla guerra, alla caduta del fascismo ed alla Resistenza. La questione può anche essere formulata in questi termini, ma nella sostanza, per quello che si riferisce al Mezzogiorno (quasi a conferma attuale di una delle tesi fondamentali che Gramsci aveva delineato nell’analisi del Risorgimento), due furono i punti essenziali.
    Vi fu anzitutto il rifiuto, da parte delle forze tradizionali del liberalismo e della democrazia radicale, di collegare la prospettiva della rivoluzione democratica con il sommovimento sociale contadino che era in atto fin dal periodo immediatamente successivo alla caduta del fascismo, e quindi con la prospettiva di una riforma agraria concepita non come operazione dall’alto e prevalentemente tecnica ma come un movimento politico-sociale di liberazione e rinnovamento di tutto il paese. Malgrado qualche accenno in senso diverso, malgrado i tentativi di Dorso e Rossi Doria, e a parte la diffusa diffidenza verso il Mezzogiorno nel suo complesso, l’agitazione contadina fu vista da quelle correnti in termini tradizionali, come un fenomeno di ribellismo che poteva essere più di ostacolo che di aiuto alla rivoluzione democratica. Anche fenomeni di distacco di gruppi di piccola borghesia intellettuale dal blocco agrario (che inizialmente si manifestarono soprattutto come forma di polemica interna al liberalismo e al crocianesimo) non furono apprezzati adeguatamente come sintomi di un più ampio movimento della società e come punti di appoggio per un’azione politica rinnovatrice: pesava ancora, sull’intero ceto, il giudizio fortemente negativo sulla sua natura irrimediabilmente malsana che Salvemini e i liberali avevano diffuso e che faceva tutt’uno col giudizio sul complessivo sistema politico meridionale, clientelare e corrotto.
    In secondo luogo, mancò in quelle correnti una concreta impostazione unitaria dell’azione meridionalistica: la contrapposizione al Nord o la concezione settoriale dei problemi meridionali erano ancora appannaggio dei settori democratico-radicali del meridionalismo. In sostanza fu dominante in quelle forze la convinzione della indisponibilità della masse contadine per una scelta democratica e del carattere irrimediabilmente infido e malsano della piccola borghesia meridionale.
    Ancora oggi prevale nella ricostruzione storica di quel periodo l’idea che il Mezzogiorno abbia rappresentato una storia di contrappeso negativo al processo di rinnovamento dello Stato che il crollo del fascismo aveva aperto; e che il Mezzogiorno fosse esclusivamente la sede delle manovre dirette a bloccare la carica rivoluzionaria proveniente dalla Resistenza. È una visione schematica, che in forme diverse ritorna con insistenza anche in opere recenti, e che deve essere abbandonata se si vuole comprendere realmente lo svolgimento storico di quel periodo; poiché se è vero che il separatismo, il voto per la monarchia, la rinascita del tradizionale clientelismo, il movimento qualunquista ed altri fenomeni del genere caratterizzarono allora la vita politica del Mezzogiorno, è anche vero che, al di là di questi fenomeni, tutto il tradizionale assetto sociale, economico, politico e culturale del Mezzogiorno subì allora una scossa profonda e che, per effetto di vicende che risalivano già al primo dopoguerra e che si erano sviluppate dopo il 1930, alla vigilia, durante e subito dopo la seconda guerra mondiale, il vecchio ceto dominante non era più in grado di mantenere in vita quell’insieme di rapporti che era stato fino allora alla base dell’equilibrio sociale. Questo fatto liberò grandi energie anche nelle regioni meridionali, creò anche qui una spinta di straordinaria forza alla trasformazione e al rinnovamento della società ed aprì un terreno di intervento alle forze intellettuali e politiche.
    Mi pare che questo fenomeno di importanza decisiva nella nostra storia nazionale – che in altra occasione ho cercato di individuare nelle sue linee generali – debba essere considerato il primo punto di riferimento nella ricostruzione del meridionalismo gramsciano o almeno della sua parte più nuova e originale.
    Gramsci ne indicò i primi sintomi, in modo più preciso e sistematico rispetto agli scritti precedenti, nel saggio del 1926. Egli considerava allora la crisi della società meridionale e del suo blocco dominante come il risultato della svolta meridionalista che si era realizzata nell’azione dei gruppi comunisti torinesi dell’Ordine nuovo e della loro influenza sulla formazione di movimenti politici come il Partito sardo d’azione e sull’orientamento di alcuni intellettuali come Guido Dorso. Gramsci tornò poi su questo problema nel 1934-35, nei Quaderni del carcere, ma da un punto di vista più ampio e più realistico rispetto al saggio del 1926. La crisi del blocco dominante del Mezzogiorno gli appariva allora come un fenomeno di più ampio respiro, in cui le regioni meridionali erano coinvolte in misura diversa e che aveva uno svolgimento relativamente autonomo rispetto all’azione del movimento operaio. In relazione a questa crisi, Gramsci metteva in evidenza il salto qualitativo che i movimenti contadini del 1919-20 rappresentavano rispetto alle tradizionali agitazioni contadine e ai tentativi endemici e sporadici di invasione delle terre di prima della guerra. Il salto qualitativo era dato dal carattere simultaneo e generalizzato del movimento e dal fatto che il combattentismo aveva assicurato ad esso una embrionale struttura organizzativa. Egli insisteva quindi sulla necessità di operare delle distinzioni storiche, di non guardare in modo indifferenziato e confuso a fenomeni come l’emigrazione e l’invasione di terre: le distinzioni storiche, egli scriveva, sono essenziali per comprendere e rappresentare la vita del contadino.
    Non posso fermarmi su queste considerazioni che richiederebbero uno svolgimento più largo ed un riferimento ad altre osservazioni storiche e teoriche dello stesso Gramsci. La più importante delle note scritte in quel periodo sul tema del movimento contadino riguarda il rapporto tra intellettuali e contadini e ci permette di cogliere alcuni tratti più generali della concezione gramsciana del partito e della rivoluzione. Anche qui, rispetto al saggio del ’26, la visione di questo rapporto e della stessa azione del partito è più articolata, meno unilaterale. Il processo di mobilitazione del mondo contadino è visto non come un’azione dall’alto verso il basso, dall’esterno, ma come un processo di influenza reciproca tra i diversi fattori del movimento, contadini, intellettuali, partito: «L’esperienza di molti paesi, e prima di tutto della Francia nel periodo della grande rivoluzione, ha dimostrato che se i contadini si muovono per impulsi “spontanei”, gli intellettuali cominciano a oscillare e, reciprocamente, se un gruppo di intellettuali si pone sulla nuova base di una politica filocontadina concreta, esso finisce col trascinare con sé frazioni di massa sempre più importanti. Si può dire che, data la dispersione e l’isolamento della popolazione rurale, e la difficoltà quindi di concentrarla in solide organizzazioni, conviene iniziare il movimento dai gruppi intellettuali: in generale però è il rapporto dialettico tra le due azioni che occorre tener presente. Si può dire anche che partiti contadini nel senso stretto della parola è quasi impossibile crearne: il partito contadino si realizza in generale solo come forte corrente di opinione, non già in forme schematiche e di inquadramento burocratico; tuttavia anche solo l’esistenza di uno scheletro organizzativo è di utilità immensa, sia per una certa selezione di uomini, sia per controllare i gruppi intellettuali e impedire che gli interessi di casta li trasportino impercettibilmente in altro terreno».
    Queste osservazioni e una serie di note riguardanti momenti e protagonisti della cultura meridionale dimostrano che Gramsci non solo non perdette di vista ma approfondì e allargò quel filone di analisi della crisi dell’equilibrio sociale del Mezzogiorno che aveva cominciato ad individuare nel periodo precedente il 1926 e che costituisce il nucleo più importante del saggio meridionalista di quell’anno. Ma questo filone di analisi acquista il suo reale significato nel quadro della visione complessiva della storia d’Italia elaborata nei Quaderni del carcere. Credo che non sia necessario richiamarne i termini, che sono largamente noti. Elemento fondamentale è la frattura tra città e campagna, il modo in cui lungo tutto il corso della storia nazionale si è realizzata l’egemonia dei centri urbani (e del Nord nel suo complesso) sulle campagne e sul Mezzogiorno. L’egemonia cittadina e settentrionale non è stata un fattore di unificazione della società nazionale, ma, al contrario, la base delle sue più profonde contraddizioni. Da questa analisi, che Gramsci condusse per tutto il corso della storia nazionale e non soltanto per il periodo del Risorgimento, acquista un particolare rilievo la questione meridionale, come momento centrale e più importante di quelle contraddizioni. Ma, a differenza di tutta la tradizione meridionalistica, Gramsci non nega la necessità della funzione dirigente della città, dei centri urbani, del Nord: egli postula piuttosto la sua reale espansione, la sua trasformazione in egemonia «storicamente positiva» attraverso la soluzione della questione contadina. È questo il senso che ha in Gramsci la formula dell’alleanza tra operai e contadini: che non appare quindi, già da questa impostazione, né una traduzione meccanica in termini nazionali della strategia adottata da Lenin durante la rivoluzione di ottobre né la ripetizione di uno schema solidaristico elaborato dalle correnti radicali del meridionalismo.

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    Predefinito Re: È ancora attuale il meridionalismo di Gramsci? (1977)

    3. La validità delle tesi fondamentali di Gramsci – dalle quali emerge non solo l’importanza della questione meridionale ma anche la riconferma, in una dimensione nuova, della funzione dirigente dei centri urbani e del Nord – è stata violentemente contestata e respinta soprattutto dalla cultura liberal-democratica che in essa ha visto a torto o a voluto vedere la negazione dei valori positivi del processo risorgimentale. Ma anche alcuni settori della cultura di sinistra hanno considerato il rilievo che quelle tesi davano alla questione meridionale come una sorta di cedimento rispetto alla purezza di una linea rivoluzionaria basata sulla prospettiva di un’autentica e incontaminata rivoluzione operaia. Tuttavia quelle critiche e contestazioni, qualunque valore si voglia ad esse attribuire, appaiono marginali, se non addirittura irrilevanti, rispetto all’effettiva funzione che le tesi gramsciane hanno avuto nel secondo dopoguerra. Divenute la base di un’elaborazione politico-culturale che ha impegnato soprattutto il partito comunista e il partito socialista, ma che ha esercitato rilevanti suggestioni anche in alcuni settori del mondo cattolico e della Democrazia cristiana, esse hanno costituito il principale punto di riferimento e di orientamento politico di quel processo storico al quale ho accennato prima e che ha profondamente modificato e in qualche misura capovolto, nel secondo dopoguerra, la collocazione del Mezzogiorno rispetto alle tendenze di sviluppo progressivo della società italiana. L’immissione nella lotta politica nazionale di grandi masse popolari e contadine che per tutto il precedente corso della nostra storia erano rimaste estranee e subalterne e il loro collegamento, attraverso i grandi partiti nazionali, con le forze sociali e politiche progressive operanti nelle regioni settentrionali è un fatto che deve essere ancora sottolineato nella sua decisiva importanza e nel suo carattere di svolta storica fondamentale. Senza sottovalutare il peso che anche in quel periodo continuò ad avere l’arretratezza sociale e politica delle regioni meridionali, bisogna dire che nella fase finale della guerra e negli anni del dopoguerra cominciò ad essere superata la contrapposizione tra le due parti del paese. Il disegno strategico delineato da Gramsci poté dunque almeno in parte realizzarsi proprio perché quegli elementi di crisi che egli aveva chiaramente intravisto fin dagli anni precedenti il 1926 si erano venuti sviluppando e approfondendo fino a mettere in discussione tutto il tradizionale assetto della società. Per la prima volta nella storia italiana, nella seconda metà degli anni ’40, la popolazione delle campagne meridionali, o almeno una grande parte di essa, si rese disponibile per una positiva partecipazione alla ricostruzione democratica della società e dello Stato. Mi sembra giusto rilavare il contributo che Emilio Sereni diede al riconoscimento di questo processo con due suoi libri di quegli anni, che sono una precisa testimonianza di un impegno che non mancò di produrre grandi risultati. E bisogna anche ricordare che quel movimento di emancipazione e di mutamento del rapporto tra Nord e Sud costò un prezzo di grandi sacrifici alle popolazioni del Mezzogiorno: dalla strage di Portella delle Ginestre agli eccidi di Melissa e di Montescaglioso fino alle decine di dirigenti contadini assassinati dalla mafia e alle innumerevoli vittime della discriminazione e della repressione che si abbatterono sul Mezzogiorno specialmente nel periodo tra il 1948 e il 1953.
    Ho richiamato rapidamente queste vicende per porre una questione che riguarda più direttamente il tema: mi sembra, cioè, che la grande portata della visione meridionalistica gramsciana, la sua funzione storica nazionale, possano essere valutate pienamente soltanto se quella concezione è messa in rapporto con uno dei più vistosi fenomeni di trasformazione che si sono verificati nella società italiana. Le tesi gramsciane non potevano rispondere a tutti i problemi che sorsero in quelle circostanze e che furono molti e difficili e in parte nuovi e imprevedibili; ma fornirono le grandi linee di orientamento per valorizzare il potenziale democratico che la crisi del blocco agrario aveva liberato.
    Riesaminando questo periodo, uno studioso ha respinto l’ipotesi che le masse organizzate dai comunisti – che ebbero un ruolo di primo piano nella politicizzazione del movimento – potessero essere disponibili per una scelta democratica. È certo importante accertare se, nella strategia gramsciana, la mobilitazione dei contadini era finalizzata alla rivoluzione o allo sviluppo democratico; e bisogna anche tenere conto dell’opera di aggiornamento che rispetto alla linea politica gramsciana fecero in quel periodo Togliatti e il gruppo dirigente comunista e delle ulteriori modifiche derivanti dalla partecipazione di gruppi e forze politico-culturali di ispirazione diversa da quella marxista; così come bisogna tenere conto anche del ruolo complesso e contraddittorio che in quegli anni svolse la Democrazia cristiana nel Mezzogiorno e che fu, prevalentemente ma non esclusivamente, di contrasto e di resistenza. Ma il fatto più importante mi sembra debba essere l’accertamento delle reali conseguenze che da quel processo storico sono derivate. Tra queste, credo che si debba mettere in primo piano il fatto che da quella crisi e dall’azione complessiva delle grandi forze politiche nazionali (tra le quali tuttavia la funzione fondamentale la ebbero le forze di ispirazione gramsciana) è derivato anzitutto il superamento della frattura esistente nel sistema politico nazionale.
    A partire da quel momento, pur con tutte le persistenti differenze e difficoltà, la struttura politica delle due parti del paese si è venuta avvicinando e assimilando fino a formare un sistema unitario. Il Mezzogiorno ha realizzato quel passaggio che invano socialisti e popolari e a suo modo perfino il regime fascista avevano cercato di realizzare: il passaggio dal sistema personalistico e clientelare a un’organizzazione basata sul partito moderno. Tutto ciò ha contribuito, in quella fase storica, a determinare la sconfitta dei tentativi di lacerazione e di restaurazione e, più tardi, ad aprire una nuova fase di sviluppo democratico; ed è stato anche, in anni più recenti, il fattore che ha permesso di fronteggiare e ricacciare indietro i tentativi della destra eversiva di trovare una base di massa nelle regioni meridionali. La risposta alla questione della natura del movimento popolare e contadino che si è creato nel Mezzogiorno negli anni del dopoguerra non può essere quindi che una sola: esso ha contribuito in modo decisivo alla reale unificazione del paese ed alla creazione di un nuovo tessuto democratico della società italiana.

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    Predefinito Re: È ancora attuale il meridionalismo di Gramsci? (1977)

    4. Indubbiamente il rapporto tra Gramsci e la realtà di quel processo è più complesso di quanto non possa apparire da una schematica ricostruzione. Vorrei accennare a due questioni: una è quella che si riferisce all’ispirazione leninista della formula dell’alleanza tra operai e contadini; l’altra riguarda l’importanza che può avere oggi l’eredità di Gramsci nell’analisi delle nuove contraddizioni che sono sorte all’interno della società meridionale e delle forme nuove che ha assunto, a partire dal cosiddetto miracolo economico, il rapporto tra Nord e Sud.
    Sul primo punto, si può dire che il tema dell’alleanza tra operai e contadini è quello in cui con maggiore evidenza è stata riconosciuta l’influenza del leninismo. Togliatti lo ha fortemente sottolineato nel 1958, parlando come di «uno degli aspetti fondamentali dell’applicazione e dello sviluppo del leninismo» e vedendo proprio nell’ispirazione leninista la matrice della differenza nel modo in cui la questione era stata impostata da Gramsci e da Salvemini. Non vi è dubbio, dunque, che nella formulazione gramsciana dell’alleanza tra operai e contadini l’ispirazione leninista abbia un valore fondamentale; e che essa consista soprattutto nel rilievo che viene dato alla funzione di direzione della classe operaia e nell’obiettivo del rovesciamento e della sostituzione rivoluzionaria della classe dirigente. Ma se quest’affermazione è valida per il saggio del 1926, mi pare che nella riflessione degli anni successivi non solo c’è in Gramsci un più autonomo arricchimento dell’analisi storica che sta alla base di quella formulazione, ma essa viene collocata in una diversa visione del rapporto tra partito e società. La differenza consiste essenzialmente nel più esplicito riconoscimento del carattere composito e articolato dei processi di formazione del nuovo blocco storico, del rapporto dialettico (e non semplicemente tra dirigenti e diretti) tra le sue diverse componenti; e quindi nella indicazione di un atteggiamento del partito più aperto alla complessità della realtà sociale. A parte i termini teorico-politici in cui la questione viene affrontata da Gramsci, anche qui può essere utile un concreto riferimento storico. Malgrado l’analogia tra la tesi leninista e quella gramsciana e la convergenza dell’ispirazione fondamentale sul tema dell’alleanza tra operai e contadini, nella realtà storica vi è una profonda differenza tra il partito bolscevico russo e il Partito comunista italiano. Indubbiamente in momenti decisivi della rivoluzione d’ottobre, l’appoggio di importanti strati contadini non è mancato al partito bolscevico. Ma esso è rimasto sostanzialmente un partito estraneo alle campagne, un partito in cui l’elemento contadino ha avuto un peso irrilevante; il Partito comunista italiano è invece penetrato nella realtà del mondo contadino delle regioni meridionali, si è collegato con le sue tradizioni e in una certa misura le ha fatte proprie (al punto che questo è stato uno dei principali capi d’accusa nella polemica che determinati gruppi culturali di sinistra hanno condotto contro il meridionalismo comunista).
    Tutto ciò è senza dubbio il risultato di diverse condizioni e circostanze storiche: ma è proprio questa diversità uno dei temi centrali della riflessione gramsciana dopo l’avvento del fascismo e negli anni del carcere, ed è sulla base della riflessione sulla diversità che il tema del rapporto tra Nord e Sud, tra città e campagna, della questione meridionale acquista nel pensiero di Gramsci un così grande rilievo. Vi è negli anni del carcere, su un piano che è personale ma che va anche al di là dei sentimenti personali, una sorta di rivalutazione del mondo originario, della realtà sarda. Forse si può comprendere meglio in questa luce il significato dei frequenti richiami del Gramsci incarcerato a quella realtà, richiami nei quali certamente c’è il rinnovarsi degli affetti familiari, il ritorno alla memoria dell’adolescenza (che talvolta è stato frainteso come un ripiegamento, una forma di stanchezza), ma anche una considerazione più positiva dei valori di un mondo contadino e della possibilità che questo mondo, malgrado la sua disgregazione e la sua arretratezza, partecipi in modo non passivo ad uno sforzo collettivo di trasformazione e di sviluppo.
    Resta comunque fermo che il riferimento alla classe operaia è la chiave di volta del meridionalismo gramsciano. Credo tuttavia che il significato di questo riferimento non si esaurisca nella riaffermazione di una funzione egemonica che la storia, il meccanismo dei rapporti di produzione e l’organizzazione politica attribuiscono ad una determinata classe. L’analisi gramsciana insiste sul rapporto complessivo tra città e campagna e non soltanto sul tema dell’alleanza tra operai e contadini. La realtà cittadina non si può ricondurre in modo rigido al ruolo delle forze sociali che promuovono e dirigono una fase storica della sua attività produttiva, ma comprende anche un’accumulazione di cultura e di civiltà che supera, condiziona, arricchisce queste forze, le pone di fronte a tradizioni da accogliere e superare. Ma la riaffermazione del ruolo della città ha anche un altro significato: il superamento dalla concezione del meridionalismo come contrapposizione al Nord e quindi come azione subalterna, protestataria e recriminatoria.
    Vi è quindi in Gramsci un taglio netto rispetto ad una tradizione che ha sempre considerato il meridionalismo come alternativa globale, antitesi radicale nei confronti della realtà industriale come si è venuta storicamente formando in Italia. È stato questo un elemento di grave debolezza di tutta la tradizione di pensiero meridionalista, oltre che di blocco di una interna dialettica sociale e politica nelle stesse regioni meridionali; ed è stato anche una sorta di spina irritativa che si è aggiunta alle difficoltà oggettive dei rapporti tra Nord e Sud. È probabile che nell’analisi storica di Gramsci siano rimasti elementi derivanti dalle polemiche liberiste e dal meridionalismo radicale dei primi del ‘900; in particolare, che siano rimasti i residui di una discutibile interpretazione secondo la quale lo sfruttamento delle risorse finanziarie del Sud e il dominio del mercato meridionale sono stati i fattori fondamentali e determinanti dello sviluppo del triangolo industriale. Ma un aspetto di quella polemica egli riuscì a superare decisamente: quello che, su questa base, attribuiva un carattere di precarietà e di ineliminabile negatività al sistema industriale del Nord. Il capovolgimento, il rovesciamento di tendenza è stato di eccezionale importanza. Ed anche se la tradizione della contrapposizione ha lasciato tracce non irrilevanti ed è alimentata da incomprensioni reali e contrasti obiettivi, l’ispirazione gramsciana ha contribuito a dare alle lotte meridionalistiche del dopoguerra il valore di un rafforzamento del tessuto unitario, di promozione dello sviluppo democratico generale del nostro paese. Il rovesciamento è stato anche più vasto: per un insieme di circostanze che superano l’orientamento che è stato dato alle lotte meridionalistiche, ma di cui quello stesso orientamento costituisce una parte, si è venuto trasformando anche il rapporto tra il Mezzogiorno e lo Stato: l’antica antitesi e contrapposizione è parzialmente superata, almeno nel senso che il superamento dello squilibrio tra Nord e Sud non è più affidato alla prospettiva di abbattimento dello Stato, di negazione delle sue istituzioni, ma a quella del suo consolidamento e della sua riforma.

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: È ancora attuale il meridionalismo di Gramsci? (1977)

    5. Le trasformazioni che la società italiana ha subìto nell’ultimo quarto di secolo hanno profondamente cambiato i dati che costituivano il punto di riferimento delle principali tesi gramsciane; e prima di tutto hanno determinato una forte riduzione della componente contadina delle forze produttive ed una sostanziale modifica della struttura sociale del Mezzogiorno. Sarebbe quindi assurdo, nell’attuale situazione, cercare nell’eredità di Gramsci una risposta a problemi particolari che sono completamente nuovi, dal momento che sono in buona parte cambiate le strutture fondamentali del paese. Rimane tuttavia il fatto che l’intervento dello Stato e l’azione delle forze politiche non hanno raggiunto l’obiettivo di superare lo squilibrio tra Nord e Sud. Il meccanismo delle contraddizioni continua ad operare, in un quadro politico e sociale che è profondamente cambiato e in cui è venuta meno l’identificazione gramsciana tra questione meridionale e questione contadina ma è naufragato anche il progetto governativo di creare nel Mezzogiorno un nuovo equilibrio ed una nuova aggregazione sociale attraverso l’ampliamento e il rafforzamento del ceto medio produttivo.
    I conflitti e le contraddizioni che contraddistinguono l’attuale fase dei rapporti tra Nord e Sud vedono sulla scena, per la parte che riguarda il Mezzogiorno, protagonisti sociali assai diversi dalle masse contadine del Mezzogiorno. Emergono anche tendenze disgregatrici che si muovono nel senso di una ripresa della contrapposizione, dell’isolamento, della separazione tra due aree geografiche e sociali. Mi pare che già questi fatti indichino chiaramente il senso dell’attualità del meridionalismo gramsciano, che è stato, nella storia italiana, il più forte contrappeso ideale e politico alle tendenze di questo tipo. Forse non è azzardato dire che oggi la questione meridionale si identifica, almeno in parte, con la questione giovanile; poiché se è vero che la disoccupazione giovanile è un fenomeno generale, che va oltre gli stessi confini nazionali, è anche vero che essa assume nel Mezzogiorno dimensioni e carattere particolarmente gravi. Vi è qui il rischio che alla permanenza del fenomeno si accompagni una degradazione culturale di massa, con conseguenze molto gravi per l’intera comunità nazionale, e che una intera generazione sia esclusa dall’attività produttiva.
    Non spetta certamente a me il compito di tentare, in questa occasione, un adeguamento dell’analisi gramsciana alle esigenze attuali. Si tratta piuttosto di mettere in evidenza, nel patrimonio di idee e di esperienze reali che risalgono direttamente o indirettamente a Gramsci, quali sono più utili o ancora necessari come presupposti ideali per una efficace opera di rinnovamento della direzione politica e sociale del paese. Partendo dalla convinzione della necessità di una sostanziale riforma dei grandi orientamenti dello sviluppo economico e sociale, mi pare che dall’opera di Gramsci venga anzitutto una indicazione fondamentale: che la formazione di un nuovo schieramento di forze sociali politiche e culturali capace di determinare la svolta necessaria non può fondarsi né sulla emarginazione degli strati più deboli della società, che tornerebbe a creare solchi e spaccature profonde nella compagine nazionale, né sul tentativo di creare un blocco contrapposto alla classe operaia, facendo leva anche sulla illusoria convinzione che l’imposizione di sacrifici ad un settore delle classi lavoratrici comporti automaticamente il trasferimento di risorse a vantaggio di disoccupati o lavoratori di altri settori. Non è per questa via che si può conseguire un maggiore equilibrio tra le diverse aree geografiche e tra i diversi settori delle classi lavoratrici.
    Di contro ad impostazioni di questo tipo ci sono i dati fondamentali dell’esperienza storica del trentennio repubblicano. Malgrado le crisi, i mutamenti, le difficoltà, le sfasature che in certi momenti si sono verificate tra le lotte rivendicative degli operai settentrionali e le esigenze delle masse di disoccupati e sottoccupati del Mezzogiorno, la conquista e il mantenimento di un legame tra le forze riformatrici che si sono sviluppate all’interno della società industriale (e delle quali la classe operaia è componente fondamentale) e quelle che si sono formate e sviluppate nelle regioni meridionali sono stati condizione fondamentale dei progressi realizzati dall’Italia repubblicana. Quel legame ha rafforzato la capacità dell’Italia di resistere alle offensive antidemocratiche, ai pericoli di degenerazione e di stasi, alle stesse spinte corporative che si fanno sentire anche all’interno delle classi lavoratrici. L’allargamento della base produttiva, il consolidamento e la riforma dello Stato democratico, il mutamento di un sistema produttivo basato sull’esasperazione dei consumi privati, l’eliminazione dei fenomeni di parassitismo e di inefficienza che ostacolano pesantemente la vita economica e appesantiscono il clima morale, sono oggi obiettivi che coincidono con l’apertura di una nuova fase di impegno meridionalistico.
    Le resistenze che occorre superare per raggiungerli non si trovano soltanto in quei gruppi sociali le cui fortune ed il cui potere sono basati sulla permanenza degli squilibri sociali e territoriali, del parassitismo, di una linea di sviluppo strettamente legata al consumismo parossistico. Queste resistenze sono anche legate ad abitudini diffuse di vita, a scadimenti di tensione ideale, a tendenze conformistiche, alla permanenza di zone di arretratezza politica e di pigrizia culturale, a squilibri provocati dallo stesso sviluppo economico e dalla stessa promozione di nuovi strati sociali, che superano i confini di classi, categorie e settori geografici. Gli ostacoli da superare sono quindi direttamente proporzionali alla grandiosità degli obiettivi. Dobbiamo sperare che la convergenza di forze e di aspirazioni che ha sorretto in altri momenti l’impegno di rinnovamento sia diventata un dato permanente e profondo della nostra vita collettiva e prevalga quindi sulle tendenze alla disgregazione e sul proposito di mettere in crisi il sistema democratico. Per l’aspetto che si riferisce ai rapporti tra Nord e Sud, il pensiero di Gramsci è stato un potente fattore di unità, che certamente continuerà ad essere operante e a produrre i suoi frutti.

    Rosario Villari
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

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