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    Predefinito La Spagna tra Franco, i rossi e Josè Antonio

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    La Spagna tra Franco, i rossi e José Antonio

    Con l’aprile di ottant’anni fa finiva in Spagna la sanguinosa guerra civile. Il Caudillo Francisco Franco andava al potere. La Spagna conservatrice, cattolica, militare e nazionalista debellava la Spagna repubblicana, comunista, laica e antifascista. Il franchismo è stato il bersaglio ideale per concentrare in una sola immagine il Nemico Assoluto della modernità e della sinistra: golpista, militarista, fascista, clericale, servo degli americani. Un riassunto ideale del Nemico e la rappresentazione militare di Dio, Patria e Famiglia. In Italia poi, col paradigma franchista si prendevano due piccioni con una fava: il fascismo e la Dc, rispetto ai quali Franco era ritenuto l’anello di congiunzione, la dimostrazione vivente del clerico-fascismo, sintesi reazionaria tra militare, clericale e dittatore. Il clerico-fascista è il cugino opposto del catto-comunista. Lo confermava il sostegno che la Chiesa, poi l’Opus dei, gli agrari dettero al franchismo.

    In realtà, la vittoria di Franco segnò una duplice sconfitta: una maggiore del comunismo e del laicismo repubblicano che era suo alleato; e una minore, ma non meno significativa del fascismo. Qui entra in gioco la figura chiave del “fascismo” spagnolo: il marchese José Antonio Primo de Rivera, fondatore della Movimento falangista. Una lettura di comodo racconta che la Falange diventò una colonna del regime di Franco che instaurò in Spagna il culto di José Antonio. In realtà le cose andarono diversamente. La Falange voleva realizzare una rivoluzione ulteriore, che partendo dal socialismo e dal sindacalismo si volgesse in chiave nazionale e spirituale. Contro il ripristino dell’ordine sognato da conservatori e militari, José Antonio nel manifesto della Falange sognava un ordine nuovo: “Nessuno ci supera nella rabbia e nel disgusto verso l’ordine conservatore, affamatore di masse enormi e tollerante verso le dorate oziosità di pochi”. E aggiungeva: “Dopo gli scontri, ogni collaborazione con gli elementi dell’ordine è espressamente proibita”. I falangisti sognavano un regime nazional-sindacalista, totalitario in senso fascista, ripudiavano “il sistema capitalista”, come è scritto nel loro programma. Davano ragione a Marx sulla concentrazione della ricchezza e sull’estensione universale del proletariato ma respingevano il suo materialismo e il suo internazionalismo. Criticavano la monarchia e i propositi “reazionari e controrivoluzionari”, bacchettavano la sinistra perché priva di sensibilità nazionale e la destra perché priva di sensibilità sociale. Simpatizzavano per il fascismo, considerandolo “un’iniezione di vita” “per rianimare la tradizione” e amavano Mussolini che José Antonio andò a trovare nel ’33 a Palazzo Venezia e da cui fu aiutato. Invece non amava il Fhurer: “Con Hitler non ci intenderemo mai. Non crede in Dio”. E detestava il razzismo: “Che non ci si parli della razza, l’impero spagnolo non fu mai razzista; anzi, raggiunse l’immensa gloria proprio per aver unito uomini di tutte le razze”, scriveva José Antonio sulla rivista falngista non a caso battezzata “Il fascio”. A Franco lo univa la comune ispirazione patriottica e religiosa. L’unica lettera che José Antonio scrisse a Franco rimase senza risposta; i due s’incontrarono una sola volta, prima dell’alzamiento al matrimonio di Serrano Suner, amico d’infanzia di Josè Antonio e cognato di Franco (in Spagna si parlò ironicamente di “cunadismo”, cognatismo).

    Quando José Antonio fu catturato dai “rossi” e finì nella prigione di Alicante, un gruppo di falangisti guidati da Agustin Aznar voleva liberarlo. Franco non fece nulla per sostenerli, anzi, avrebbe boicottato l’impresa. Sembra di leggere la storia di Togliatti e Gramsci: c’era la possibilità di liberarlo attraverso uno scambio di prigionieri ma i comunisti preferirono avere un martire piuttosto che salvare un compagno scomodo e sempre più critico verso lo stalinismo.

    Nella sua unica intervista in carcere al giornalista inglese Jay Allen, José Antonio disse che se vincerà Franco probabilmente “io tornerò in questa prigione o in un’altra”. Esagerava. Ma questo spiega perché il successore di Josè Antonio alla guida della Falange, Manuel Hedilla, organizzò un golpe antiFranco, per proclamare un governo rivoluzionario, con l’appoggio della sorella di José Antonio e dei tedeschi. Un po’ come accadde in Italia coi dannunziani antifascisti di Alleanza Nazionale. Il tentativo fu sventato e finì con quattro condanne a morte poi commutate in ergastolo. La differenza tra Franco e Josè Antonio è più netta di quella che corre tra movimento e regime fascista, per usare le categorie di De Felice per spiegare il fascismo al potere, ma anche la differenza tra Stalin e Trotskj o tra Castro e Che Guevara. Josè Antonio, ucciso dai repubblicani spagnoli nel ’36, scrisse: “La bandiera è stata issata. Andiamo a difenderla allegramente, poeticamente…il nostro posto è fuori, all’aria libera, sotto la notte chiara, arma in spalla e in alto le stelle”. Romanticismo politico puro. Franco unificò con la forza falangisti e carlisti.

    Al di là dell’ossequio formale per la Falange, Franco instaurò un regime paternalistico e conservatore, autoritario ma non totalitario, gradito ai poteri economici, ma anche alla gente. Non abbracciò il fascismo e il nazismo, non li seguì nell’avventura della guerra mondiale, si legò agli Stati Uniti. Spoliticizzò la società spagnola, modernizzò cautamente il paese e infine ricondusse pacificamente la Spagna alla monarchia costituzionale. Legò la Spagna alla Chiesa e alla Famiglia. Di nascosto anche l’Inghilterra, la Francia e il capitalismo mondiale tifarono con la Chiesa e il Papa per Franco contro un regime anticlericale e filostaliniano in Spagna. Cosa sarebbe stata l’Europa se fosse rimasta dentro la tenaglia di un regime sovietico a est e un regime filostaliniano a ovest, in Spagna? Del resto, George Orwell, Simone Weil e il nostro Randolfo Pacciardi, partiti per difendere la repubblica, tornarono anticomunisti, sconcertati dagli orrori dei compagni. Il franchismo fu per molti un male che si opponeva a un peggio. Il fascismo c’entra poco; in Spagna finì con José Antonio, el Che Guevara della rivoluzione falangista.

    MV, La Verità 2 aprile 2019
    FASCISMO MESSIANICO E DISTRUTTORE. PER UN MONDIALISMO FASCISTA.

    "NELLA MIA TOMBA NON OCCORRE SCRIVERE ALCUN NOME! SE DOVRO' MORIRE, LO FARO' NEL DESERTO, IN MEZZO ALLE BATTAGLIE." Ken il Guerriero, cap. 27. fumetto.

  2. #2
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    Predefinito Re: La Spagna tra Franco, i rossi e Josè Antonio

    https://www.maurizioblondet.it/tradi...igi-copertino/
    TRADIZIONALISMO E FASCISMO: IL CASO DELLA FALANGE ESPAÑOLA – di Luigi Copertino
    Luigi Copertino 8 Settembre 2018
    Tradizionalismo e fascismo: il caso della Falange Española

    Il governo socialista spagnolo di Pedro Sanchez, da poco insediato, è già in difficoltà. Il suo primo problema e l’ennesima crisi delle banche iberiche, conseguente alla speculazione sulla lira turca. Il secondo il problema è il voltafaccia europeo alle sue facili politiche immigratorie. Dopo essere stato additato da parte dell’UE come primo della classe, in contrapposizione al cattivo Salvini, Sanchez sta ora sperimentando quanto valgono le promesse vacue di Bruxelles e della Germania. Abbandonato a sé stesso, Sanchez si è visto costretto, in barba alla sua utopia umanitaria, a rispedire in Marocco 117 immigrati clandestini che erano riusciti ad oltrepassare il muro costruito intorno a Ceuta.

    Per sviare l’attenzione degli spagnoli, dallo iato inevitabilmente sussistente tra le dichiarazioni di principio dell’accoglienza “united colors” e la dura realtà delle difficoltà esistenti, ad iniziare dalle scarse risorse finanziarie in un assetto deflazionista come quello ordoliberista imposto dall’UE, Sanchez non ha trovato una carta migliore della riesumazione del cadavere di Francisco Franco, adempiendo oltretutto un auspicio che fu già di Zapatero il quale, tuttavia, a suo tempo si accontentò di un compromesso inteso a rimuovere ogni ufficialità di Stato alla tomba del Caudillo ma senza rimuoverla.

    Con un decreto il governo Sanchez ha stabilito che la salma di Francisco Franco debba essere disseppellita dal suo sepolcro nel santuario della Valle de los Caidos, o Basilica de la Santa Cruz del Valle de los Caidos, e restituita alla famiglia.

    Il santuario fu fatto costruire dallo stesso Franco tra il 1940 ed il 1959. La polemica su detto monumento è forte e non da oggi. Persino la storiografia è spesso rimasta vittima delle posizioni di parte. Lo storico britannico antifranchista Paul Preston, ad esempio, è tra quelli che sostengono che il santuario fu realizzato con il lavoro, praticamente coatto perché imposto con il ricatto di una liberazione poi non concessa, dei prigionieri repubblicani sconfitti nella guerra civile. Al contrario lo storico spagnolo Alberto Bàrcena Pérez sostiene, con prove documentali alla mano, che il lavoro dei prigionieri fosse volontario in quanto si trattava di detenuti per reati comuni ai quali fu promesso uno sconto di pena.

    Un altro argomento di dissidio storiografico è quello relativo ai morti registrati durante i lavori di costruzione in mancanza di adeguati sistemi di sicurezza, soprattutto nel trasporto e nella collocazione degli enormi blocchi di marmo. Le cifre ondeggiano tra quella minimalista di 27 deceduti a quella massimalista di 27.000. Proprio questo ondeggiamento fa intravvedere quanto le passioni di parte continuano ad infiammare il dibattito, a scapito della serietà storiografica.

    Un fatto è tuttavia sicuro: Francisco Franco, contro coloro che volevano un monumento a memoria dei soli caduti della “Crociata”, impose il santuario quale segno di riconciliazione nazionale per ospitarvi i caduti dell’una e dell’altra parte del tragico conflitto civile del 1936/39. Tutto si può dire contro Franco ma non che egli non avesse, in quanto militare spagnolo ossia erede di una lunga tradizione “imperiale”, uno spiccato senso della Patria che gli permetteva di andare al di là della faziosità partigiana. Ed anche di non confondere tra patria e “razza”. Gli ebrei che, nel 1940-43, fuggivano dall’Europa nazificata si rifugiavano o nell’Italia fascista e nelle zone di occupazione italiana oppure nella Spagna di Franco.

    Quando nel 1991 visitai il santuario della Valle, sormontato da una enorme croce, entrando ed avvicinandomi all’altare, mi trovai di fronte, ai piedi della parte posteriore dello stesso, la lapide della tomba di Franco. Ricordo che feci un veloce segno della croce, per rispetto cristiano, e che passai subito oltre. Il mio vero obiettivo, infatti, era un’altra tomba, posta davanti l’altare: quella di José Antonio Primo de Rivera, il fondatore della Falange de las Juntas de Ofensiva Nazional Sindicalista.

    All’epoca, in quegli anni ancora giovanili, il mio eroe era José Antonio, non certo un nazional-conservatore come Franco che usò e tradì la rivoluzione nazional-sindacalista del falangismo joseantoniano.

    Le “due Spagne”

    La guerra civile spagnola fu l’ultimo tragico scontro, ferocissimo da entrambe le parti, tra le “due Spagne”, mai in fondo del tutto sopitosi. Da una parte la Spagna tradizionalista, nostalgica della Hispanidad, dell’Impero ispano-asburgico sul quale il sole non tramontava mai, legata al Cattolicesimo tradizionale nel nome del quale la Spagna nacque come nazione nell’epopea della “reconquista”. Si trattava della Spagna le cui masse popolari agli inizi del XIX secolo si opposero con la guerriglia agli eserciti francesi invasori, dando il primo colpo alla potenza della Francia napoleonica. Dall’altra vi era la Spagna “infranciosata”, sull’onda della Rivoluzione Francese, nei suoi strati liberali e borghesi, che aveva sposato il liberalismo massonico prima ed il comunismo e l’anarchismo poi.

    La lotta tra le “due Spagne” fu anche una lotta per o contro l’identità cattolica della nazione che coinvolse, fino al martirio, la Chiesa iberica. Infatti la Spagna rivoluzionaria si caratterizzò sempre per un accesso anticlericalismo che sfociava in vero e proprio odio iconoclastico verso una Chiesa, certo potente ma anche matrice dell’identità storica spagnola. Un odio su due livelli perché era rivolto contro la Chiesa, depositaria dell’identità ispanica, per via della potenza politico-sociale nel tempo acquisita ma, contemporaneamente, contro il Suo Divino Fondatore. Tra il 1931 ed il 1939 questo odio si espresse con una ferocia fino ad allora inusitata: massacri indiscriminati di preti, suore e fedeli (spesso tra i più poveri), riesumazioni dei cadaveri di religiosi morti, fucilazioni simboliche delle statue di Cristo e Maria, profanazioni eucaristiche secondo un uso invalso dai tempi del giacobinismo settecentesco e della massoneria ottocentesca.

    La mera contestazione politica verso un clero conservatore ed una Chiesa proprietaria di molti latifondi non può affatto spiegare le radici profonde di un odio che in realtà, nelle sue modalità, ha manifestato qualcosa di estremamente ed inquietamente luciferino. Secondo la vulgata corrente, quest’odio sarebbe sorto nel 1936 come reazione al pronunciamento di Franco, che fu appoggiato dalla Chiesa. Come dire: la Chiesa spagnola, retriva e reazionaria, si schierò con l’insurrezione militare (che, in realtà, fu tanto popolare quanto militare) sicché si espose, incautamente, alla persecuzione cruenta che ne conseguì nelle zone repubblicane. Colpa dunque della Chiesa, dicono gli storici che si sentono eredi degli sconfitti della guerra civile.

    I fatti, però, non stanno in questi termini. L’odio antiecclesiale, con tutta la sua carica di ferocia della quale si è detto, si manifestò immediatamente già dal 1931, anno di proclamazione della repubblica, e dell’esilio del re, dopo la dittatura, implicitamente non ostacolata dai partiti di sinistra e dai sindacati, del generale Manuel Primo de Rivera, padre di José Antonio. Lo ha irrefutabilmente dimostrato lo storico Vicente Càrcel Ortì in “Buio sull’altare. 1931-1939: la persecuzione della Chiesa in Spagna” (Città Nuova). Questo valente storico ha provato che, appunto, la persecuzione contro la Chiesa, sulla scia di analoghi fatti già registrati nelle guerre civili (cosiddette “carliste”) dell’ottocento tra i carlisti cattolici ed i liberali massoni, iniziò nel 1931, non nel 1936. E si accanì soprattutto contro le iniziative di carità e di apostolato popolare della Chiesa, considerate dalla sinistra strumenti “paternalistici” al servizio delle classi egemoni. Cosa che, naturalmente, era una menzogna talmente evidente che a difesa dei loro parroci si alzarono sovente i più poveri tra i poveri, come un certo Pelè, contadino e mendicante, il quale, per essersi opposto all’umiliazione di un prete, fu torturato e poi assassinato dai miliziani comunisti.

    Si trattò di una persecuzione religiosa senza precedenti, se non forse quella quasi coeva, nel 1929, in Messico, del governo massonico di Obregon e Calles che fu causa dell’epopea dei Cristeros. La seconda repubblica spagnola impose una legislazione fortemente discriminatoria contro la Chiesa. Manuel Azaña Diaz, uno dei leader della sinistra repubblicana e capo del governo, proclamò che la Spagna aveva cessato di essere cattolica. I governi repubblicani non impedirono, e segretamente incentivarono, il saccheggio e la distruzione di chiese come anche di conventi e seminari. Fino a giungere al massacro di circa settemila ecclesiastici. Le voci dissonanti tra i repubblicani, come quella di Irujo, ministro basco repubblicano favorevole alla libertà religiosa anche per i cattolici, furono tacitate e minacciate. La verità, dunque, è che, in una tale situazione di persecuzione, alla Chiesa non fu lasciata altra possibilità che schierarsi dalla parte dei “nazionali” di Franco.

    Ni derecha, ni izquierda, per andare oltre le “due Spagne”

    Se la Spagna tradizionalista, insieme alla hispanidad ed al Cattolicesimo, difendeva anche il latifondismo e, nelle regioni industrializzate, un capitalismo autoritario, mentre la Spagna rivoluzionaria univa, contro l’identità nazionale, la borghesia progressista e la classe lavoratrice, il falangismo originario tentò una via alternativa distante da entrambi gli schieramenti.

    José Antonio era di famiglia militare e apparteneva alla piccola nobiltà di Stato. Quale eredità paterna conseguì il titolo nobiliare di “grande di Spagna”. Come detto, suo padre fu dittatore, dal 1923 al 1930, durante la monarchia di Alfonso XIII, con l’astensione della sinistra e l’implicito appoggio dei sindacati. Il regime militare di Miguel Primo de Rivera, conservatore, tuttavia riconobbe funzioni sociali ed economiche alle “juntas pariteticos” nelle quali i sindacati, sotto mentite spoglie, potevano continuare un minimo di vita attiva sotto il vigile occhio del governo.

    Avvocato, il giovane José Antonio, forgiatosi nella lettura di Juan Donoso Cortés, fece proprio un Cattolicesimo tradizionale, intensamente vissuto, inteso anche come radice profonda dell’hispanidad. Seguì, tuttavia, anche le lezioni di Ortega y Gasset e restò influenzato anche da Miguel de Unamuno. Per tale via José Antonio imparò ad aprirsi alle esigenze della modernità, senza per questo rinnegare Cattolicesimo ed hispanidad.

    Ortega y Gasset e Miguel de Unamuno erano tra i più grandi intellettuali del tempo.

    Unamuno apparteneva alla cosiddetta “generazione del ‘98”, un gruppo di intellettuali che, consapevoli della crisi della Spagna imperiale, definitivamente suggellata con la perdita delle ultime colonie, le Filippine e Cuba, come conseguenza della guerra ispano-statunitense del 1898, cercarono di trovare nuove vie per salvaguardare l’hispanidad senza museificarla. Fu socialista ma rigettò il marxismo e si allontanò dal Psoe quando comprese, con la seconda repubblica, che l’Urss stava tentando di conquistare la Spagna. La violenza dei comunisti e degli anarchici gli fece inizialmente sposare la sollevazione militare di Franco intesa quale difesa della Spagna e della civiltà occidentale forgiate dal Cattolicesimo. Ma, poi, con un famoso discorso nell’Università di Salamanca, della quale era rettore, denunciò, deluso, anche la ferocia della repressione franchista.

    Ortega y Gasset, invece, importò in Spagna il niccianesimo, fu un liberale conservatore ma attento osservatore della nascente società di massa. Nella sua opera “La ribellione delle masse”, caldeggiò l’avvento di una nuova aristocrazia che non si opponesse all’ascesa degli strati popolari ma piuttosto se ne mettesse a capo per guidarla, educarla, verso una restaurazione rivoluzionaria dell’hispanidad.

    Un altro intellettuale che ebbe influenza su José Antonio fu Ramiro de Maetzu, pensatore anglo-ispanico vicino al fabianesimo, al corporativismo guildista ed “esoterico” della rivista “The New Age” diretta dal socialista nicciano Alfred Richard Orage amico ed editore di Ezra Pound, William Butler Yeats e George Bernard Shaw.

    Influenzato, dunque, dal patriottismo socialista di Unamuno, dall’elitarismo di Ortega y Gasset e dalle posizioni libertarie e sindacaliste, monarchiche e socialiste, di Ramiro de Maetzu, José Antonio, pur difendendo la memoria paterna, comprese che nel XX secolo non era possibile proporre modelli politici da Ancién Regime. Egli iniziò, pertanto, ad approfondire la lettura delle opere politiche di Mussolini, Lenin e Trotzky ed a guardare alla capacità di mobilitazione delle masse proprie dei regimi nazional-rivoluzionari del suo tempo.

    Fondò la FE ossia la Falange Española nel 1933. L’anno successivo, nel 1934, a seguito dell’assassino per mano di un commando del partito socialista operaio di un militante falangista Matias Montero, José Antonio fuse il suo movimento con quello di Ramiro Ledesma Ramos. Questi era un filosofo, allievo di Ortega y Gasset, vicino culturalmente alle avanguardie ispaniche del tempo ed al sindacalismo rivoluzionario, che vagheggiava uno Stato Nazional-Sindacalista nel quale i lavoratori assumessero un ruolo basilare e centrale. Ledesma Ramos inneggiava alle grandi rivoluzioni del tempo, senza distinguere, nel suo vitalismo irrazionalista, tra la rivoluzione comunista di Lenin e quella fascista di Mussolini. Entrambe erano da lui ritenute espressione di quella vitale volontà di potenza, preannunciata da Nietzsche, necessaria per una rivoluzione che avesse lo scopo della modernizzazione nazionale contro il passatismo della “vecchia Spagna”, quella clericale.

    Il gruppo di Ledesma Ramos era denominato Juntas de Ofensiva Nacional-Sindicalista e per questo, all’atto della fusione con la FE, il nuovo partito assunse la denominazione di FE de las Jons ossia Falange Española de las Juntas de Ofensiva Nacional-Sindicalista. Non casualmente, la bandiera rossa e nera delle JONS – che si ispirava ai colori dell’anarchia – ed il giogo con un fascio di cinque frecce, tradizionale emblema dei Re Cattolici, fusi insieme divennero il simbolo della Falange.

    Un terzo gruppo contribuì alla nascita del falangismo. Se il partito di Ledesma Ramos era in sostanza di tipo “nazional-bolscevico”, questo terzo raggruppamento, che confluì nella Fe de las Jons, era invece di ispirazione “nazional-contadina”. Suo leader era Onesimo Redondo Ortega, un esponente cattolico e monarchico del sindacato dei contadini castigliani ed esso stesso contadino piccolo proprietario.

    Il programma, detto dei 27 punti, della FE de las Jons metteva insieme la difesa della Hispanidad e dell’identità cattolica della nazione con una piattaforma sociale ed economica apertamente di sinistra intesa a costruire lo Stato nazional-sindacalista ossia uno Stato dirigista nel quale gli organi del governo dell’economia sarebbero stati i sindacati nazionali. Con una differenza, però, rispetto al sistema corporativista italiano: questo riconosceva la realtà del dualismo sindacale – sindacato dei datori di lavoro e sindacato dei lavoratori riuniti nella stessa corporazione – mentre quello falangista sarebbe stato un sindacato misto che avrebbe dovuto unire insieme, nell’unica organizzazione sindacale, datori di lavoro e lavoratori. Il programma prevedeva il salario minimo, la nazionalizzazione delle industrie chiave e la distribuzione della terra ai contadini.

    La “fascistizzazione” del tradizionalismo ispanico e le sue difficoltà

    La Falange joseantoniana, pur con retaggi ideali nel tradizionalismo ispanico, guardava alla politica di modernizzazione del fascismo italiano dandone una interpretazione iberica. Alle sue radici culturali vi erano non solo il tradizionalismo cattolico e il retaggio dell’Hispanidad ma anche la lezione di Unamuno e di Ortega y Gasset, che avevano contribuito a diffondere in Spagna le correnti anti-illuministe e vitaliste della cultura europea otto-novecentesca.

    Il falangismo non era conservatore ed inevitabilmente entrò in rotta di collisione con la destra ispanica, benché molti dei suoi capi e degli stessi militanti, senza dare troppo peso alla discrasia tra vitalismo e Fede cattolica, continuavano a proclamare, sinceramente, la loro adesione al Cattolicesimo.

    Tuttavia alla lunga sarebbe stato impossibile tenere insieme il Cattolicesimo di José Antonio e di Onesimo Redondo, benché entrambi aperti politicamente alla modernizzazione sociale della Spagna per l’elevazione dei lavoratori e filosoficamente al “vitalismo”, con l’ateismo di Ledesma Ramos apertamente anticlericale. Infatti già nel 1935 tra José Antonio e Ledesma Ramos intervenne una rottura che si ricompose solo nel 1936, nell’ora tragica, quando entrambi furono chiusi in carcere dai repubblicani. Ledesma Ramos fu espulso da la FE de las Jons e, per tutta ripicca, accusò José Antonio ed i suoi di essere “señoritas”. Un’accusa che, se ingiusta nei riguardi dell’onestà intellettuale e delle sincere idee nazional-sindacaliste di José Antonio, faceva leva sulla sua origine sociale.

    «Lo stesso José Antonio – ha scritto, forse esagerando un poco i termini effettivi della questione, lo storico Alonso Lazo Diaz, sottolineando, per l’appunto, la trasformazione culturale e politica di José Antonio rispetto alle proprie radici sociali e familiari – al momento della fondazione della Falange Spagnola era più un reazionario che un fascista. I primi militanti della Falange furono aristocratici … e solo con l’incorporazione di Ledesma e le circostanze, soprattutto europee, convertirono in fascista un gruppo inizialmente di destra e reazionario».

    In effetti va ricordato che tra i momenti decisivi della “fascistizzazione” di José Antonio vi fu il suo incontro con Mussolini quando fu inviato, nell’ottobre 1933, in Italia per intervistare il duce.

    Che il falangismo joseantoniano avesse una forte radice nel tradizionalismo cattolico è evidenziato dal fatto che nei 27 punti programmatici, insieme alla previsione di un concordato con la Chiesa, tale tuttavia da non restringere l’autonomia dello Stato, si faceva molto affidamento sulla difesa delle realtà sociali naturali a partire dalla famiglia e dai comuni, secondo la tradizione dei fueros spagnoli. Il fatto, però, che nello stesso programma, si contemplasse un ruolo attivo, nella gestione dell’economia, dello Stato e dei sindacati di Stato, secondo i moduli del corporativismo fascista, con accentramento statualista, rende evidente la “fascistizzazione” del tradizionalismo. Quella che in apparenza poteva sembrare una contraddizione in realtà voleva piuttosto essere un tentativo di sintesi tra tradizionalismo e fascismo.

    Per rendersene conto basta rileggere alcuni dei punti più significativi di quel programma-manifesto del falangismo originario. Eccone alcune citazioni:

    «Crediamo nella sovrana realtà della Spagna …»

    «La Spagna rappresenta una comunità di destino nell’universale …»

    «Il nostro Stato deve essere uno strumento al totale servizio della integrità della Patria. Allo Stato deve partecipare ogni spagnolo attraverso la Famiglia, il Comune e il Sindacato …»

    «La dignità, l’integrità fisica e la libertà dell’uomo sono valori eterni e intangibili. Veramente libero è solamente colui che appartiene ad una nazione forte e libera …»

    «Lo Stato nazionalsindacalista permetterà ogni iniziativa privata che sia compatibile con gli interessi della Patria. La promuoverà anzi, e la stimolerà se si mostrerà utile»

    «Sotto il profilo economico consideriamo la Spagna come un potente sindacato di produttori. Organizzeremo la società spagnola, corporativamente, in un sistema verticale di Sindacati, secondo i rami della produzione. Esso deve servire all’unità economica del popolo»

    «Ripudiamo il sistema capitalistico. Esso disconosce i bisogni del popolo, disumanizza la proprietà privata, agglomera i lavoratori in masse informi, soggette alla miseria ed alla disperazione. La nostra impostazione spirituale e la nostra coscienza nazionale ripudiano anche il marxismo. Noi orienteremo l’impeto delle classi lavoratrici, oggi traviate, dal marxismo, sulla giusta via che tende alla loro immediata partecipazione alla grande opera dello Stato nazionale. (…)».

    «Lo Stato nazionalsindacalista non … resterà impassibile davanti alla oppressione della classi più deboli da parte della classe più forte (…). E’ intollerabile che enormi masse vivano in miseria, mentre un piccolo gruppo gode di ogni lusso immaginabile. (…). Lo Stato … proteggerà (la piccola proprietà privata, nda) contro le aggressioni del grande capitalismo, degli speculatori e degli usurai (…). Siamo propensi a nazionalizzare le banche e, attraverso le corporazioni, le aziende industriali importanti per la comunità (…)».

    «La terra è la permanente fonte di vita della Spagna. Porteremo perciò a termine senza riguardi la riforma economica e sociale dell’agricoltura … Creeremo un sistema di credito agricolo, veramente nazionale, che conceda al contadino prestiti a basso tasso di interesse e garantisca, in tal modo, il suo patrimonio e i suoi raccolti e lo protegga dall’usura e dallo sfruttamento. (…). Le aziende agricole debbono essere organizzate razionalmente. Perciò dovranno essere eliminati sia i latifondi troppo dispendiosi e trascurati, sia le aziende minime antieconomiche per la loro scarsa produzione. (…). Distribuiremo nuovamente la terra coltivabile per costituire proprietà familiari e per stimolare energicamente il costituirsi in categoria professionale dei contadini … Lo Stato può espropriare, senza indennizzo, il terreno acquistato o sfruttato illegalmente»

    «Il nostro Movimento pone a fondamento del rinnovamento nazionale la coscienza cattolica, che ha in Spagna una gloriosa tradizione ed è predominante. Chiesa e Stato regoleranno le loro attribuzioni mediante un Concordato. Non sarà tollerata alcuna ingerenza né qualsiasi azione che diminuisca la dignità dello Stato o possa danneggiare l’unità nazionale»

    Come si vede la piattaforma ideologica del falangismo joseantoniano traeva alcuni fondamentali elementi dal tradizionalismo cattolico – valorizzazione e difesa dei corpi intermedi, patriottismo, concezione spirituale ed etica dell’uomo e della nazione, tutela non assoluta della piccola proprietà, riconoscimento della Libertas Ecclesiae e del Cattolicesimo come fondamento della coscienza nazionale – eppure per altri versi esso se ne discostava avvicinandosi ad una visione più modernamente tipica del “socialismo fascista”.

    Infatti, nello Stato nazional-sindacalista, propugnato dai “27 punti”, i sindacati sarebbero stati sindacati di Stato per assurgere, più che a luoghi di partecipazione personale e comunitaria alla vita della Nazione, a veri e propri organi di direzione e controllo dell’economia nazionale. Se l’intento era quello di realizzare una vitale “democrazia organica”, il rischio, però, nel tentativo di coordinare e dirigere ad unità i corpi sociali della nazione, stava nel pericolo di irreggimentare in un apparato burocratico e sclerotico la spontaneità naturale non solo dei sindacati ma anche degli altri corpi intermedi.

    Allo stesso modo il riconoscimento della proprietà – della piccola proprietà, in particolare agricola, della quale il programma falangista proclamava la difesa contro l’usura bancaria, il latifondo ed il grande capitalismo – era contemplato in un quadro di funzione e servizio alla comunità nazionale nel quale forti sarebbero state le limitazioni all’autonomia dei singoli e dei corpi intermedi.

    Non è chiaro nel programma originario del Falangismo – ed è forse questo il punto più delicato a cui le diverse concezioni del corporativismo hanno dato risposte fra loro diverse – fin dove sarebbe stata lasciata, ed in quale misura, una legittima autonomia comunitaria nel quadro unitario e direttivo dello Stato. Come ogni piattaforma corporativista, anche il programma falangista correva due opposti rischi: da un lato, quello della fagocitazione totalizzante dei corpi intermedi in uno Stato “panteista” e, dall’altro lato, quello del particolarismo anarchico, settario, egoista e liberista delle comunità minori a scapito del bene comune nazionale.

    Chiara, invece, nel pensiero di José Antonio, era la distinzione tra la proprietà, intesa come legittima dimensione umana del lavoro, ed il capitalismo predatore: «Quando parliamo del capitalismo – egli scriveva in “Filosofia dissidente” – non parliamo della proprietà privata. La proprietà privata è il contrario del capitalismo; la proprietà è la proiezione diretta dell’uomo sulle sue cose: è un attributo elementare umano. Il capitalismo ha sostituito questa proprietà dell’uomo con la proprietà del capitale, dello strumento tecnico della dominazione economica. Il capitalismo, mediante la concorrenza terribile e diseguale del grande capitale contro la piccola proprietà, ha annullato l’artigianato, la piccola industria, la piccola agricoltura: ha collocato – e va più che mai collocando – tutto in potere dei grandi trusts, dei grandi gruppi bancari».

    Anche la concezione della Nazione come “sovrana comunità di destino nell’Universale” poteva essere letta quale affermazione legittima di identità patria in un contesto universalistico, garantito dall’adesione al Cattolicesimo, e tuttavia, ciononostante, era suscettibile di una esegesi piuttosto panteista ed assoluta – quasi “metafisica” – della nazione che, così, sarebbe stata imposta sopra tutto, sopra la stessa Trascendenza dello Spirito, al modo di una monade chiusa, impenetrabile e con pretesa di onnipotenza.

    Da questa ambiguità, provenivano, poi, anche due diverse letture dei rapporti auspicati tra Stato nazional-sindacalista e Chiesa. Una possibile lettura, pur nell’affermazione di una giusta autonomia dello Stato sì da rigettare ogni invadenza clericale o “teocratica”, era quella che ammetteva non solo la libertà della Chiesa ma anche la sua natura ontologicamente superiore tanto allo Stato quanto alla Nazione. Una lettura, questa, che si avvicina alle posizioni del tradizionalismo cattolico. L’altra, invece, limitandosi soltanto al riconoscimento storico dell’identità cattolica della Nazione, era suscettibile di proclamare, magari implicitamente, la superiorità dello Stato sulla Chiesa.

    José Antonio era, personalmente, fin troppo buon cattolico per lasciare che il delicato equilibrio tra gli elementi tradizionalisti e gli elementi fascisti del falangismo fosse messo in discussione da eccessi di radicalismo in un senso o nell’altro. La dimostrazione sta proprio nella quasi immediata rottura con Ledesma Ramos ma non con Onesimo Redondo. D’altro canto, il continuo rimarcare, nei suoi discorsi, nei suoi articoli e nelle sue circolari interne (con le quali, anche dal carcere, comandava alle sue “camicie azzurre” di non collaborare, se non da posizioni di supremazia, con i “partiti nazionali” e con i generali rivoltosi), la assoluta distanza tra il falangismo e la destra tradizionalista, compromessa con la difesa dei privilegi di casta e di classe, dimostra senza alcun dubbio una sincera volontà politica di modernizzazione sociale da parte di José Antonio e della sua Falange.

    La “fascistizzazione” joseantoniana del tradizionalismo – ovvero l’aspirazione a tenere unite in una nuova sintesi le radici cattolico-tradizionaliste e quelle vitaliste-sindacaliste del suo pensiero sociale – è evidente non solo nella sua convinzione per la quale, come affermava intervistato dal quotidiano ABC nel 1934, «Il fascismo è un’inquietudine europea. È una maniera nuova di concepire tutto – la storia, lo Stato, l’accesso del proletariato alla vita pubblica; una maniera nuova di concepire i fenomeni della nostra epoca e di interpretarli» ma anche nel discorso da lui tenuto nel teatro “La Comedia” di Madrid il 29 ottobre 1933 laddove, ricostruendo lo scenario storico della nascita della modernità dalle rivoluzioni borghesi del XVIII secolo, affermò «Da ultimo lo stato liberale venne ad offrirci la schiavitù economica, col dire agli operai con tragico sarcasmo: “Siete liberi di lavorare come volete, nessuno può imporvi di accettare queste o quelle condizioni, ma perché noi siamo ricchi, vi offriamo le condizioni che crediamo; voi cittadini liberi, se non le volete, non siete obbligati ad accettarle; però voi, cittadini poveri, se non accettate le condizioni che noi imponiamo, morirete di fame, armati della massima dignità liberale”. Così, nei paesi ove si è giunti ad avere i più brillanti parlamenti e le più accurate istituzioni democratiche, non avete che da allontanarvi di qualche centinaio di metri dai quartieri lussuosi, per trovarvi fra tuguri infetti, ove vivono affastellati gli operai e le loro famiglie, in un ambiente disumano… Da tutto ciò doveva nascere, e fu giusta cosa la sua nascita (noi non mascheriamo alcuna verità), il socialismo. Gli operai dovettero difendersi contro quel sistema che offriva solo promesse di diritti, ma non si curava di procurar loro una vita giusta. Ora il socialismo fu una legittima reazione alla schiavitù liberale, ha finito con lo sviarsi, perché s’é diretto prima all’interpretazione materialista della vita e della storia, poi ad un sentimento di rappresaglia e infine alle proclamazioni del dogma della lotta di classe».

    Non a caso questo discorso madrileno gli alienò le simpatie della destra monarchica, che lo accusò di essere “socialista”, mentre gli acquistò quelle del socialista rivoluzionario Indalecio Prieto e di un vasto fronte intellettuale, non escluso Federico Garcìa Lorca, composto soprattutto da giovani.

    Verso la tragedia nazionale con la faccia al sole

    La Falange, che alle elezioni corse sempre da sola senza alcuna alleanza con la coalizione delle destre spagnole, iniziò a radicarsi tra la piccola borghesia ed i ceti operai. I suoi militanti, sfidando socialisti e comunisti, penetravano nei quartieri popolari per farvi propaganda. Tuttavia essa non superò mai le migliaia di militanti restando una piccola formazione minoritaria, sebbene agguerrita ideologicamente, fino al 1936 quando, a seguito del radicalizzarsi della situazione politica, alla vigilia della guerra civile i suoi ranghi furono infoltiti dall’ingente afflusso di appartenenti ai ceti reazionari, transfughi dalle formazioni della destra spagnola. Essa in quei frangenti raggiunse il mezzo milione di aderenti ma a prezzo dello snaturamento della originaria composizione sociale popolare e dell’iniziale fondamento ideologico rivoluzionario. D’altra parte è doveroso ricordare che, un po’ per opportunismo, un po’ per sincera adesione ideale, corsero ad arruolarsi nella Falange anche moltissimi ex anarchici della Federazione Anarchica Iberica (FAI) e moltissimi militanti della Confederacion Nacional del Trabajo, sindacato operaio di sinistra.

    Ben prima dell’Alzamiento nazionale del 18 luglio 1936, che ebbe occasione dall’assassinio per mano repubblicana di José Calvo Sotelo esponente della monarchica “Accion Española” (un politico conservatore ma aperto in parte ad una prospettiva riformatrice e modernizzante), José Antonio fu arrestato, con motivazioni pretestuose, dal governo socialista il 14 marzo precedente. Fu rinchiuso nel carcere di Alicante. Pare che Manuel Azaña lo avesse avvertito anticipatamente dell’arresto, onde permettergli di fuggire, ma che José Antonio, ringraziandolo, gli rispose di non poter fuggire in quanto sua madre stava male. Ad uno stupito Azaña – la madre di José Antonio era già morta da tempo – spiegò che “sua madre” era la Spagna.

    Consapevole che quella di Franco era la sollevazione della parte più socialmente retriva, quella latifondista, della Spagna, José Antonio tentò disperatamente dal carcere di inviare ai suoi falangisti circolari intese a metterli in guardia da alleanze con i “reazionari”, sollecitandoli a mantenere l’autonomia politica e militare delle milizie falangiste persino nei simboli e nelle bandiere. Fu fucilato il 20 novembre 1936, in prigione, insieme al fratello Miguel, ad altri due falangisti ed a due requetés carlisti. Ai membri del plotone di esecuzione disse a mo’ di ultimo testamento: «Vi hanno detto che sono un avversario da uccidere, ma voi ignorate che il mio sogno era “Patria, pane e giustizia” per tutti gli spagnoli, specie per i miseri e diseredati. Credetemi! Quando si sta per morire non si può mentire».

    L’anno successivo all’assassino di José Antonio quel che egli temeva, ossia l’assorbimento della Falange in uno schieramento “reazionario”, accadde. Così mentre in campo repubblicano i comunisti, su ordine di Stalin, si davano alla mattanza di anarchici e troskisti, il 19 aprile 1937, con un proprio decreto, Franco fuse, nella “Falange Tradizionalista de las Jons”, la Falange joseantoniana, la Comunion Tradicionalistas carlista, con i suoi reperti militari dei requetés, i monarchici di Renovación Española, la CEDA (Confederacion Española de Derechas Autonomas, una specie di “democrazia cristiana” di destra capeggiata da Gil Robles, un politico che amava atteggiamenti “fascisteggianti” più nella coreografia che nelle idee e nei programmi) ed altri gruppi della destra conservatrice.

    La fusione scontentò sia i vecchi falangisti, quelli rivoluzionari della prima ora, sia i tradizionalisti ed i conservatori. Manuel Hedilla, successore di José Antonio a capo della Falange, si rifiutò di accettare la fusione e di riconoscere l’autorità di Francisco Franco. Fu arrestato dai franchisti e condannato a morte. Condanna poi commutata in prigionia. Uscì dal carcere nel 1947. Molti dei vecchi falangisti scelsero la clandestinità e, per tutta la durata del regime franchista, la “Falange Autentica” restò un movimento fuorilegge, responsabile persino di alcuni falliti tentativi di attentato contro la persona del Generalissimo.

    Lo Stato nazional-conservatore franchista strumentalizzò la memoria di José Antonio facendone il suo eroe nazionale. Altrettanto, sebbene con minor tono, fece con Ledesma Ramos ed Onesimo Redondo, anch’essi caduti durante la guerra civile. Ma si trattò di una pantomima offensiva della memoria dei tre. Il regime di Franco altro non fu che un Stato autoritario, nazional-conservatore, espressione dell’egemonia dei latifondisti e della borghesia spagnola, che del programma politico e sociale avanzato della Falange joseantoniana non realizzò nulla né tentò minimamente di porre le basi dello Stato Nazional-Sindacalista sognato da José Antonio. Si limitò, agli inizi, ad adottare la ritualità politica della Falange dal saluto romano alle bandiere rosso-nere croci-frecciate fino agli slogan “Arriba España” ed “Una, Grande, Libre”.

    Alla fine degli anni quaranta, con il fascismo sconfitto in Europa, Franco pensò bene di cambiare anche il “look” falangista – mettendo in sordina bandiere rosse e nere ed il giogo con le frecce, simboli della Falange, nonché le parate miliziane – per riciclarsi, agli occhi degli Stati Uniti d’America, nel clima della “guerra fredda”, come combattente anticomunista. Quei falangisti che, a differenza degli altri, tentarono la strada della collaborazione con il regime franchista, nella speranza di condizionarlo dall’interno, come ad esempio lo stesso cognato del Caudillo ed ultimo leader falangista Ramón Serrano Súñer, furono estromessi da ogni posizione di governo. Negli anni sessanta, inoltre, il regime franchista avviò un processo di modernizzazione della Spagna che non seguì affatto i parametri sindacalisti e dirigisti della vecchia Falange originaria ma quelli liberisti suggeriti dai tecnocrati dell’Opus Dei.

    La “fascistizzazione” del tradizionalismo tentata da José Antonio non era attuabile in una Spagna ancora socialmente arretrata ed appena avviata allo sviluppo industriale. Questo contesto di arretratezza, secondo alcuni storici come Gino Germani ed Eugene Weber, è stata la causa della sconfitta del falangismo joseantoniano. Nello scenario di società ancora prevalentemente e fortemente legate alle vecchie gerarchie sociali premoderne, il fascismo, espressione della rivoluzione sociale della giovane piccola borghesia insofferente tanto verso il conservatorismo quanto verso il marxismo, si è inevitabilmente scontrato con l’establishment destinandosi alla sconfitta.

    Accadde in Spagna nel 1936 come in Romania nel 1938. Anche nel Paese balcanico un movimento, espressione degli studenti piccolo-borghesi e del contadinato rumeno, religiosamente cristiano ortodosso e più mistico-esoterico che politico, con forti venature giudeofobiche (non antisemite, come si dice erroneamente) e di mistica della stirpe, la Legione dell’Arcangelo Michele, più tardi Guardia di Ferro, per il quale manifestò simpatia ed adesione quasi l’intera intellighenzia intellettuale nazionale – aderirono o civettarono, tra gli altri, con la Legione, Mircea Eliade, futuro storico delle religioni di fama internazionale, lo storico Nicolae Iorga, lo scrittore Vintilia Horia (amico di Giovanni Papini, Adolfo Oxilia e Attilio Mordini), il drammaturgo Eugene Ionescu, il filosofo esistenzialista nicciano-heideggeriano Emil Cioran – si scontrò con l’establishment terriero capitalista riunito attorno al governo reazionario di re Carol II, Il capo della Legione, il “mistico” Corneliu Zelea Codreanu, fu fatto arrestare e poi assassinare dal re, il quale quindi perseguitò nel sangue la Legione dell’Arcangelo Michele. Nel 1940, quest’ultima ebbe una effimera rivincita, quando re Carol dovette cedere il potere alla dittatura opportunista del generale Antonescu a sua volta, poi, travolta dall’invasione dell’armata rossa nel 1944-45.

    Come i legionari rumeni, animati dalla loro mistica religiosa, con connessioni di tipo esoterico, stretti dagli eventi sfavorevoli, non indietreggiarono abbandonandosi, più da membri di un sodalizio spirituale che da militanti politici, ad un vero e proprio martirio, così anche i miliziani falangisti preferirono il carcere franchista o la marginalizzazione pur di non compromettersi con un regime reazionario. Essi avevano combattuto cantando l’inno della Falange ed erano caduti nella tragedia nazionale della loro patria ma non si erano immolati per la Spagna di Franco.

    Il loro inno, “Cara al Sol” ossia “Faccia al Sole”, coautore del quale fu lo stesso José Antonio che volle un testo scevro da espressioni di odio per il nemico, declamava versi come questi: «Faccia al sole, con la camicia nuova/che tu ricamasti in rosso ieri,/mi troverà la morte se mi porta via,/e non ti rivedrò … Torneranno le insegne vittoriose,/al passo allegro della pace;/e porteranno cinque rose rifulgenti,/le frecce del mio fascio./Tornerà a sorrider la Primavera,/che per cielo, terra e mare è attesa”».

    C’è persino chi, sulla base di questo inno, ha collegato la dottrina falangista alla concezione solare, quindi romano-imperiale, del Cristianesimo, quella nata dalla visione della Croce nel Sole – “in hoc Signo vinces” – che Costantino ebbe, come egli stesso confidò ad uno scettico Eusebio di Cesarea, a Ponte Milvio nel 312 d. Cr.

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    Predefinito Re: La Spagna tra Franco, i rossi e Josè Antonio

    PROSECUZIONE DEL MESSAGGIO PRECEDENTE

    Eredità della Falange

    Nonostante la sua sconfitta storica, è possibile tuttavia considerare il falangismo joseantoniano non una utopia, come qualcuno ha pensato, ma piuttosto un tentativo di non recedere dall’ispanicità senza per questo allinearsi alla conservazione sociale o alla modernizzazione neocapitalista.

    Del resto i percorsi carsici della storia sono imprevedibili ed anche affascinanti. Sconfitto ed emarginato dal regime franchista in Spagna – dove la dottrina autentica di José Antonio fu preservata soltanto nei circoli femminili del Movimiento Nacional non a caso guidati dalla sorella di José Antonio, Pilar Primo de Rivera, e nei Circoli degli Universitari Nazional-Sindacalisti, dai quali provenivano gli apparati degli insofferenti sindacati irreggimentati negli apparati burocratici del franchismo (molti di quegli studenti, durante il periodo della cosiddetta “Transizione”, dopo la morte di Franco nel 1975, passarono alla sinistra) – il Falangismo joseantoniano fu l’anima profonda del peronismo di sinistra, quello dei montoneros, dal quale emerse Ernesto Guevara de la Verna, agli inizi rivoluzionario nazional-populista che solo in un secondo momento diventò comunista, mentre Fidel Castro, giovane rampollo della buona borghesia cubana, fu allevato dai gesuiti negli ideali “militari” di Ignazio de Loyola e del nazionalismo di popolo joseantoniano. Il futuro lider maximo, infatti, come il Che, non era inizialmente un comunista ma un nazional-rivoluzionario, un combattente per la liberazione nazionale di Cuba dall’imperialismo americano, e tra le sue giovanili letture, consigliate dai suoi direttori spirituali gesuiti, c’erano anche “Gli scritti e discorsi di battaglia” di José Antonio Primo de Rivera. Non a caso il socialismo cubano, più un populismo latinoamericano che un regime comunista in senso marxista o leniniano o staliniano, ha fatto propri, riempendone tutti i muri degli edifici pubblici dell’isola caraibica, slogan di derivazione falangista come “Patria o muerte” o “Patria libre”.

    Naturalmente anche in Spagna l’eredità joseantoniana è ancora forte ma non si tratta, o almeno non si tratta soltanto, della continuazione della monumentalizzazione strumentale che José Antonio subì dal regime franchista. Benché fuori dalle Cortes e benché minoritari, e politicamente insignificanti, sussistono tuttora in Spagna diversi gruppi, tra il culturale e la militanza politica, che si richiamano al nazional-sindacalismo originario dell’esperienza falangista. Ma quel che è forse più sorprendente, benché non inaspettato, è il cripto-falangismo che serpeggia nei movimenti della Izquierda ispanica, compreso Podemos.

    Sembra che il governo di Pedro Sanchez abbia deciso di non rimuovere la salma di José Antonio dal santuario della Valle de los Caidos ma soltanto di porla in un punto più nascosto. Alla base di questa decisione sta la motivazione per la quale José Antonio, alla pari degli altri sepolti nel santuario, è stato una vittima, e non un carnefice, della guerra civile. Sarebbe bello e molto più onorevole per Sanchez se la vera, ed inconfessata, motivazione risiedesse in un silenzioso riconoscimento del carattere socialista del patriottismo di José Antonio. Ma senza, purtroppo, sperare in tanto, molto più probabilmente la diversa decisione di Sanchez, nei confronti di José Antonio, trova spiegazione nella concorrenza che, a sinistra, Podemos fa al Psoe. Pablo Iglesias, il leader di Podemos, è un dichiarato ammiratore di José Antonio, sicché Sanchez sta cercando di ricompattare la sinistra spagnola nel nome di un anti-franchismo che, in Spagna, fa il paio con l’antifascismo strumentale della sinistra italiana alle prese con il sovranismo.

    Ma – ecco il punto! – chi conosce la storia e va a fondo delle cose, senza rimanere alla superficie delle apparenze, facilmente strumentalizzabili – è ben consapevole che l’operazione di Sanchez, in fondo inutile, anzi dannosa, per la salvaguardia della memoria storica nazionale della Spagna quando prende di mira la salma di Franco, diventa addirittura un plateale falso nei confronti di José Antonio. E forse proprio perché conscio di giocare sporco, nel caso di José Antonio, Sanchez ha deciso per la marginalizzazione della sua tomba piuttosto che per la sua rimozione dalla Valle de los Caidos.

    Per chi frequenta un poco lo spagnolo riporto qui i passi salienti di un articolo, apparso nel 2015 sulla rivista spagnola “La Gaceta”, reperibile anche sul web. Si tratta, comunque, di passi comprensibili anche a chi non conosce l’idioma ispanico. L’articolo mette in evidenza la grande simpatia che la figura e le idee di José Antonio riscuotono, non da ora, nella Izquierda.

    «En los últimos años parece haber reverdecido el interés por la figura de José Antonio Primo de Rivera. Han aparecido multitud de libros, se le han dedicado textos en medios generalistas y hace pocos días se estrenaba un musical inspirado en su vida – Mi Princesa Roja –; incluso El Gato al Agua dedicó un programa a desentrañar los enigmas de un personaje que, a día de hoy, sigue siendo un gran desconocido para la inmensa mayoría de los españoles. Precisamente uno de los aspectos menos conocidos del líder de la Falange es el respeto y hasta admiración que despertaba entre las izquierdas. Las que compartieron tiempo y país, pero también las contemporáneas. Gaceta.es desveló, en exclusiva para sus lectores, la admiracion que el lìder de Podemos, Pablo Iglesias, le profesa a la figura de José Antonio Primo de Rivera. De hecho, según desvelaba El Confidencial Digital, Iglesias usaba incluso frases literales del que fue conocido come “El Ausente”. (…). Uno de los grupos musicales más representativos de la Transición, autores quizá de su himno oficioso (Libertad sin ira), Jarcha, dedicó también una cancion a su figura. Y entre sus contemporáneos, son incontables las alusiones elogiosas que le dedicaron desde la izquierda. El dirigente anarquista Diego Abad de Santillán dijo que fue “un error” su fusilamiento porque “patriotas como él no son peligrosos ni siquiera en las filas enemigas”. Otro anarquista, Buenaventura Durruti, consideró la sentencia de muerte “una insensatez” y “un error capital”. “Con su muerte, si llega a consumarse (Durruti murió el mismo día que José Antonio), morirá también toda esperanza de reconciliar a los españoles antes de muchas décadas”. Manuel Portela Valladares, presidente del Gobierno republicano exclamó: “¡Qué diferente habría sido la política española si (José Antonio) se hubiese sentando en el Congreso!”. Y Julián Zugazagoitia, ministro de gobernación con Negrín, se refirió a su conducta en prisión como “cariñosa con los demás presos. En las horas de encierro tejía sueños de paz: esbozaba un gobierno de concordia nacional. Temía una victoria de los militares. Ése era, para él, el pasado, lo viejo, la España del siglo XIX prolongándose, viciosamente, en el XX”. Más no fueron los únicos. Indalecio Prieto, Salvador de Madariaga, Victoria Kent o Claudio Sánchez Albornoz también se refirieron a José Antonio en términos laudatorios».

    Se la rimozione della salma di Franco è comunque una imbecillità rispetto alla memoria storica della Spagna – della quale l’ex dittatore fa comunque parte: a Mosca ho potuto di persona constatare che, giustamente rispetto a ciò che appartiene in ogni caso alla storia russa, il simbolo della falce e martello nella metropolitana fatta costruire da Stalin così come le statue di Marx non sono state rimosse ed altrettanto la salma di Lenin dalla ex Piazza Rossa – farebbe bene a Sanchez rileggere il giudizio su José Antonio Primo de Rivera di Julio Anguita, ex segretario generale del Partito Comunista Spagnolo nonché coordinatore generale di Izquierda Unida

    «Quando penso a José Antonio sono colto dal sentimento tragico della vita. La sua figura, usurpata da alcuni, e per quello odiata dagli altri, permane in un luogo della memoria collettiva che non merita. Un gran pensatore, un rivoluzionario, un uomo da seguire, … punito dal destino e dalla storia. Mi rallegra vedere che il suo eco veritiero non si è ancora spento e che siamo tra coloro che ancora chiedono il riscatto della figura di José Antonio da una falsa Falange e dal regime franchista. Per questo, quando sento alzarsi le voci che reclamano l’abbattimento del monumento a José Antonio nella mia città, non posso evitare di essere preso dalla tristezza: un monumento rimosso da coloro che hanno tradito, non perverte in alcuna maniera la sua figura piuttosto che onorarla, e coloro che invocano la memoria storica per abbatterlo ignorano chi fosse realmente questo uomo e ciò che predicava»

    E’ anche, del resto, possibile che, con la rimozione della salma di Francisco Franco dalla Valle de los Caidos ed il riposizionamento di quella di José Antonio Primo de Rivera, il governo globalista (che di socialista non ha più nulla!) di Pedro Sanchez abbia inteso gettare nell’agone politico attuale, strumentalizzando la storia, un chiaro segnale anti-sovranista cercando di far passare l’equazione sovranismo = fascismo. Una equazione inconsistente sia perché, come si è visto, il franchismo non era un fascismo, dove fascista era semmai piuttosto la Falange originaria joseantoniana, sia perché l’attuale sovranismo è difesa proprio della volontà popolare, ossia della democrazia, tradita dai globalisti al servizio permanente ed effettivo del capitalismo transnazionale nel miraggio ultimo della realizzare della globalizzazione delle culture favorevole alla globalizzazione dei capitali.

    Se poi la volontà è quella di rafforzare la falsa equazione nel senso di sovranismo = fascismo = razzismo, Sanchez dimentica, o fa finta di dimenticare, che, come già detto, la Spagna di Franco, insieme all’Italia di Mussolini, fu luogo di rifugio per gli ebrei in fuga dall’Europa nazificata nel 1940 e che nello stesso falangismo originario non si ritrova affatto nessuna traccia di antisemitismo razziale o di altra forma di razzismo, del quale, quindi, non può proprio parlarsi neanche sul piano storiografico.

    Luigi Copertino

    BIBLIOGRAFIA MINIMA

    Per chi volesse approfondire suggeriamo, come minimo, i seguenti testi:

    Adolfo Muñoz Alonso, Un pensatore per un popolo, Volpe editore, 1972,

    Bernd Nellessen, La rivoluzione proibita (Falange spagnola), Volpe editore, 1965,

    José Antonio Primo de Rivera, Le basi del falangismo spagnolo, Sentinella d’Italia, 1986,

    José Antonio Primo de Rivera, Scritti e discorsi di battaglia, Settimo Sigillo, 1993,

    Armando Romero Cuesta, Obbiettivo: uccidere Franco, Seb, 1996,

    Vicente Càrcel Ortì Buio sull’altare. 1931-1939: la persecuzione della Chiesa in Spagna, Città Nuova, 1999.
    FASCISMO MESSIANICO E DISTRUTTORE. PER UN MONDIALISMO FASCISTA.

    "NELLA MIA TOMBA NON OCCORRE SCRIVERE ALCUN NOME! SE DOVRO' MORIRE, LO FARO' NEL DESERTO, IN MEZZO ALLE BATTAGLIE." Ken il Guerriero, cap. 27. fumetto.

 

 

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