di Franco Della Peruta – In G. Cingari (a cura di), “Garibaldi e il socialismo”, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 81-95.
Generalmente gli storici che si occupano del problema Garibaldi e socialismo partono dalla fase storica che si apre con la Comune di Parigi e con le ripercussioni della stessa Comune in Italia. Io credo però che per spiegare questo rapporto e per comprendere storicamente e valutare quindi l’importanza degli atteggiamenti assunti da Garibaldi nei confronti della Comune, nei confronti dell’Internazionale e delle sue dichiarazioni poi di fede socialista, sia necessario partire da un po’ più indietro perché la cosa principale che va spiegata è la funzione che il mito di Garibaldi ebbe in generale nel corso della storia italiana dal 1848, dal 1860, in avanti e poi cercare di comprendere e spiegare sulla base della funzione di questo mito anche la mitizzazione che si fece in una qualche misura delle dichiarazioni di tipo socialista dello stesso Garibaldi. Il mito di Garibaldi quindi è il primo tema sul quale vorrei soffermarmi rapidamente.
È un mito che si era già delineato prima del 1848 quando Garibaldi era guerriero e corsaro nelle lagune, nelle paludi e nei monti dell’America latina, è un mito testimoniato da una fioritura poetica già prequarantottesca su Garibaldi stesso. Sono abbastanza noti i versi stampati a Lugano nel 1847 da un mediocre verseggiatore piemontese, Giuseppe Bertoldi, come inno per i ragazzi delle scuole, in cui si legge: «Sappiano i nostri pargoli il nome del campione, in ogni seno palpiti il cuor di Garibaldi». Più rilevante forse come testimonianza del delinearsi di questo mito è il successo che ebbe la sottoscrizione per una spada d’onore al Nizzardo fatta in Italia tra il 1846 e il ’47, quindi in condizioni ancora estremamente dure per quanto riguardava la libertà di stampa, di associazione, di pensiero; sottoscrizione che venne firmata da uomini di diversa parte politica, di diverso orientamento ideale, da Massimo d’Azeglio come da Carlo Pisacane; sottoscrizione che Mazzini, in una lettera del 1847 alla madre, disse, «avrebbero dovuto firmare anche i sassi».
Venne poi il 1848, con l’adesione anche se temporanea di Garibaldi alla causa, diciamo così, sabauda – l’adesione cioè all’apporto dell’esercito piemontese nei confronti della causa nazionale, accordo presto rotto dopo la conclusione dell’armistizio Salasco -, la breve fase di guerra di tipo partigiano tra Luino e Morazzone e poi la grande esperienza della difesa della Repubblica romana nel 1849. E proprio nel corso della difesa della Repubblica romana credo che emerga con estrema chiarezza una divergenza tra Mazzini e Garibaldi, i due eroi esponenti della democrazia risorgimentale, che poi sarebbe diventata negli anni successivi contrasto insanabile, rottura profonda con implicazioni anche gravi per la storia della democrazia risorgimentale.
Il nodo di questa differenza apparentemente è una questione militare: Garibaldi avrebbe voluto portare la guerra al di fuori delle mura della città per tentare una guerra di popolo, invece Mazzini riteneva che fosse politicamente più producente difendere le mura di Roma fino all’ultimo e quindi la Repubblica morisse, ma morisse bene. Ma al di là, dicevo, di questo contrasto militare, che è un contrasto poi di linea, di interpretazione, di concezione strategica della guerra, c’era anche un contrasto politico che si enuclea nel tema della dittatura. Garibaldi bruscamente nel giugno del 1849 pose una sorta di ultimatum a Mazzini, che era il capo politico della Repubblica romana mentre Garibaldi era di fatto il capo militare, anche se soltanto di fatto e non di diritto perché il capo di diritto era Roselli e il suo subordinato Carlo Pisacane, capo di stato maggiore in quel momento della stessa Repubblica romana.
L’ultimatum di Garibaldi era: o dittatore illimitatissimo o milite semplice. Mazzini rispose negativamente e Garibaldi non insisté; però questa dichiarazione di Garibaldi in funzione della dittatura è una spia, credo, di un corso di pensiero che poi in Garibaldi si radicalizzò e divenne proprio un’acquisizione definitiva della teoria politica, diciamo così, di Garibaldi. La teoria politica della dittatura in Garibaldi non credo che gli venisse da un filone giacobino, come era accaduto per i neo-giacobini in Francia, i neo-babuvisti o anche per lo stesso Mazzini che, in linea di principio, era per la dittatura transitoria nella fase della insurrezione italiana, fino a quando il paese non fosse stato cioè completamente unificato; una dittatura però per Mazzini di più persone, mentre Garibaldi invece era per un dittatore unico. E io credo che al fondo ci fosse una riflessione sulle esperienze politiche delle repubbliche sud-americane e in particolare un’attenzione per la figura di Bolivar. Questo contrasto fra Mazzini e Garibaldi è importante anche perché su questo stesso punto Pisacane, che sarà poi il primo comunista della storia italiana, collettivista anarchico che non finì soltanto i suoi giorni a Sapri, ma consegnò una lucida teorizzazione di una rivoluzione nazionale che fosse anche rivoluzione sociale, e che fosse quindi una rivoluzione tendenzialmente comunista e collettivista – Pisacane, dicevo, nel 1850, consegnando alle stampe la sua opera di grande rilievo, La guerra combattuta in Italia nel ’48-49, insisterà proprio sulla concezione della dittatura di Garibaldi criticandola violentemente e dicendo che in questo modo si sarebbe potuta aprire in Italia la strada alla dittatura militare. Ma siccome la rivoluzione italiana, continuava Pisacane, doveva essere fatta per il vantaggio delle masse popolari, puntando sui loro interessi materiali, la prospettiva di una dittatura personale di tipo militare sarebbe stata pericolosissima per il paese, e aggiungeva che sarebbe stato meglio tenersi il sistema dei governi esistenti, governi oppressivi della seconda restaurazione postquarantottesca, piuttosto che arrivare all’estremo di una dittatura come quella che proponeva o pensava Garibaldi, il quale non è nominato esplicitamente ma è indubbio che il riferimento è seccamente a Garibaldi.
Dicevo quindi, contrasto all’interno della democrazia, che poi si amplifica nel corso del decennio di preparazione tra il 1854 o ’55 e il 1859. E anche a questo punto io credo che sia da riflettere sul fatto che il contrasto tra Mazzini e Garibaldi – che apparentemente verte sulla funzione da attribuire al Piemonte e all’esercito piemontese – è in realtà un contrasto più profondo sul quale credo sia bene soffermarsi brevemente.
Garibaldi nel ’54-55-56 fa in sostanza la scelta Italia e Vittorio Emanuele; Mazzini, nonostante le sue concessioni apparenti all’altare dell’unità, la bandiera neutra, e via dicendo, è mosso dalla convinzione profonda che il Piemonte non muoverà mai in maniera autonoma, e quindi le sue concessioni sull’altare della concordia, l’agnosticismo istituzionale al quale sembra indulgere in certi momenti, è in realtà soltanto una copertura tattica perché Mazzini si riserva di riprendere la propria libertà d’azione in qualsiasi momento e di puntare di nuovo sulla iniziativa repubblicana. Ecco, il dissenso di fondo fra Mazzini e Garibaldi è su questo problema; però quali sono le ragioni di Garibaldi?
Apparentemente, giudicato su un metro astratto della logica formale, della purezza di principi, della coerenza interna, della adesione ad un sistema di pensiero politico o di pratica politica o di programma politico, ha ragione Mazzini; ma io credo che invece proprio in questa svolta che Garibaldi opera dal 1854-55 si riveli in lui quel fiuto politico, quella capacità di fare politica pratica che in genere non gli viene molto riconosciuta oggi, e penso per esempio al biografo inglese, al Mack Smith, il quale dice che Garibaldi politicamente non aveva le idee lucide; penso anche allo stesso Mazzini che, quando Garibaldi ebbe la trionfale accoglienza a Londra nel 1854, la sera ospitò un inglese il quale gli raccontò, con termini molto caldi, di questa clamorosa accoglienza popolare del popolo londinese a Garibaldi e Mazzini lo guardò freddamente e gli chiese: «Hai mai visto la faccia di un leone? – Sì – gli fa l’inglese. – Non trova che è una faccia particolarmente stupida? – Sì – fa ancora l’inglese. – Ebbene, è la faccia di Garibaldi».
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