di Dario Valori - «Rinascita», a. XXXVII, n. 30, 25 luglio 1980, p. 25.

In questi ultimi anni sono andate moltiplicandosi la ricerca e la discussione attorno alla personalità di Rodolfo Morandi; è un segno importante che si sono superati i tempi nei quali a occuparsene erano soprattutto studiosi della storia del movimento operaio fra le due guerre, preziosi nel ricostruire quelle fasi di un impegno di grande portata e di grande valore, ma con la tendenza, da alcuni oggi riconosciuta, a sfuggire all’esame dei tempi più recenti, e quindi dell’opera del dirigente socialista che abbiamo direttamente conosciuto e col quale abbiamo lavorato.
Ci si è trovati di fronte a un «enigma Morandi» e a un «mito Morandi», come è stato detto. L’enigma nasceva dalle analisi e dalle valutazioni degli anni ’45-’55, talvolta contrastanti con il periodo precedente della sua vita. Il mito era il «partito morandiano», degli anni fra il ’49 e il ’55, ossia il Partito socialista italiano, solidamente impegnato sul terreno delle lotte unitarie delle masse popolari. A venticinque anni dalla morte, possiamo accostarci all’opera di Morandi senza ammettere né enigmi né miti.
Per dirla con Spriano, in termini semplici ma efficaci, «Morandi è stato Morandi», ossia un dirigente socialista unitario, un combattente, un militante di partito, cui, in momenti decisivi della vita nazionale, spettarono decisioni e scelte di grande portata e dalle grandi conseguenze. Ciò vale per Morandi come vale per tante altre grandi figure del movimento operaio, che si affidano a un giudizio complessivo, senza che si possa isolare la valutazione di un periodo ristretto di tempo.
È Morandi stesso, del resto, ad averci offerto la chiave per comprenderlo e per valutarlo, nel testamento scritto a Mantova poco tempo prima di morire. «Al di sopra del partito ho sempre posto la causa dei lavoratori, la causa del popolo, nella convinzione che il partito non avesse diritto di chiedermi di più». Da questa concezione scaturiscono le analisi morandiane, in ogni momento della sua vita.
Morandi si forma le due convinzioni politiche all’indomani della grande rottura del movimento operaio. Dal 1917 al 1921. Non vive nel partito socialista le drammatiche vicende di quegli anni. Ne vive, invece, nel paese, gli eventi successivi, e la sua scelta socialista è determinata dal delitto Matteotti, ma senza vincoli organici fino al 1931.
«Per la causa dei lavoratori, per la causa del popolo» Morandi sa quanto decisivo sia il problema dell’unità da riconquistare. Ma appunto perché non muove da dogmatismi di partito, è ad un processo generale di rinnovamento che pensa, con un’analisi complessiva cui si cimenta, non si limita all’idea di trattative diplomatiche. Di qui lo scritto del 1937 su Il socialismo integrale di Otto Bauer: «Bauer sembra pensare che a mettere in comunicazione il sistema sanguigno della Seconda con quello della Terza Internazionale, nuova vita affluisca al socialismo. Non s’avvede che sono due corpi logorati irrimediabilmente dalla lotta che li ha divisi, che guasto è il sangue nell’uno e nell’altro. Che è nuovo sangue proprio, quello di cui abbisogna il socialismo per rinnovarsi».
Molti anni dopo, nel 1951, vi è lo stesso modo di collocarsi di fronte alla divisione del movimento operaio mondiale e italiano. «La frattura del movimento operaio in Italia interviene nel gennaio del 1921, a poco più di tre anni di distanza dalla grande esplosione rivoluzionaria cui aveva portato, in sul finire, la prima guerra mondiale. Ma da un decennio già, il socialismo europeo, oggetto delle manovre di avvolgimento che si sviluppavano collateralmente ai preparativi di guerra, era entrato in crisi. Il movimento veniva spezzato nei vari paesi europei sotto la pressione reazionaria, tra il ’19 e il ’21, nell’atto in cui stava per operarsi la rigenerazione dei vecchi partiti, spezzati duramente dal termine della guerra… Il grosso delle forze operaie viene tagliato fuori, senza avere consapevolezza di essere contrapposto alle forze della Rivoluzione… I partiti di vecchia denominazione continueranno pertanto a conservare una larga base operaia. Ma per lunghi anni la polemica che in termini virulenti si sviluppa tra essi e i partiti comunisti tende, da una parte come dall’altra, a ignorare il problema dei rapporti che possono intercorrere tra organizzazioni politiche diverse della classe operaia… La prima scissione intervenuta nel ’21, e la seconda succeduta nel ’22 non operarono una netta demarcazione tra correnti rivoluzionarie e correnti gradualiste, la separazione non era in altre parole tra comunisti e socialdemocratici. La frattura operaia ai vertici non trovava comunque rispondenza alla base».
C’è qui un punto molto importante dell’analisi morandiana: «l’ideologia, le forme organizzative, i metodi adottati dai partiti comunisti sono maturati nel seno del movimento operaio e della sua organizzazione in Italia molto tempo avanti che l’unità si spezzi. Essi non sono dunque un prodotto della Rivoluzione russa, ne sono piuttosto il fattore». Questa valutazione a me sembra all’origine della stessa scelta leninista di Morandi nel 1950: «Noi oggi riconosciamo tutta la validità dell’attacco rivolto a svellere le due potenti remore poste al movimento di emancipazione dei lavoratori: l’umanitarismo ecologico… e la localizzazione nazionale della lotta di classe… Ideologicamente, senza riserva alcuna, noi assumiamo il leninismo come interpretazione e sviluppo del marxismo. Praticamente noi ribadiamo il superamento della socialdemocrazia nella sua duplice espressione di riformismo e massimalismo». Si è discusso a lungo sui «limiti» della scelta leninista di Morandi e mi pare che queste lunghe citazioni confermino la sua adesione alla critica leninista della socialdemocrazia, più che l’adesione, per quanto riguardava l’Italia, alla piena teoria leninista del partito, dello Stato, della rivoluzione.
Quale risposta dava infatti Morandi al problema italiano? «Le componenti del moto di classe sono oggi gli interessi dei contadini del Sud e degli operai settentrionali. Sono nel contempo la rigenerazione di una società arretrata, il risollevamento delle zone economicamente depresse e la difesa del livello di vita e dell’occupazione nelle regioni e province socialmente ed economicamente più avanzate… L’unità della nazione… è la più grande conquista della classe lavoratrice italiana. Le lotte che i lavoratori italiani sostengono si illuminano sotto una nuova luce e si profilano in unico tratto. In esse oggi trova espressione lo sforzo solidale e possente di tutto un popolo recato a sicura coscienza della sua unità».
Metodo di lotta e mezzo per ricostituire l’unità più larga era l’azione unitaria di massa, la grande unificante battaglia per le riforme di struttura e per la democrazia. Essa non si contrapponeva all’azione parlamentare, ma ne superava i limiti; non echeggiava vecchie teorie sull’unità dal basso, ma indicava il terreno sul quale ogni tentativo unitario andava condotto. In questa visione, con realismo e con rigore Morandi impostava non solo il rapporto tra Psi e Pci, ma anche quello che si apriva fra Psi e Dc, e quello fra socialisti e masse cattoliche.
Si comprenderà da questi accenni la forza di rinnovamento che Morandi arrecava nel partito socialista, e come quindi essa non fosse chiusa in indirizzi organizzativi, ma parlasse allo spirito di lotta e alla coscienza dei militanti; come essa fosse originata da una profonda ricerca, e quindi si esprimesse in uno sforzo di superamento da parte della classe, e non solo del partito, di errori e insufficienza di vecchia data.
A che cosa portava l’analisi morandiana della storia del movimento operaio, delle nuove condizioni di lotta, degli obiettivi da perseguire, dell’azione di massa cui tendere? Portava al superamento di un male dal quale il socialismo italiano in varie epoche era stato afflitto: al superamento del «massimal-riformismo». «Era una singolare altalena tra fatti e parole: 1) tra il parlamentarismo seguito negli atti e la fraseologia rivoluzionaria; 2) tra la pratica limitazione dell’azione al piano nazionale e le postulazioni astratte di internazionalismo; 3) tra la radicata mentalità piccolo-borghese informante l’azione e le ideali suggestioni operaistiche; tra il sindacalismo gradualista di categoria e i pronunciamenti internazionali». «Posizioni terminali di una stessa linea» diceva Morandi.
Fu il superamento di questa linea a consentire la grande ripresa, dovuta non solo a Morandi, del partito socialista dopo il 1948.
A venticinque anni dalla morte, la più recente e interessante testimonianza su Rodolfo Morandi è nell’Isola di Giorgio Amendola. Si riferisce al suo viaggio a Milano nel 1931, diretto a prender contatto con Giuseppe Boretti e, attraverso lui, con alcuni giovani antifascisti milanesi. «Morandi – scrive Amendola – era entusiasta di prender contatto con il partito comunista. Già repubblicano, poi collegato a Giustizia e libertà, era apertamente critico della concentrazione e dei due partiti socialisti, e accusava Rosselli di essersi fatto intrappolare dalle manovre dei fuoriusciti. Soltanto all’interno del paese – affermava – si poteva condurre con efficacia una lotta contro il regime. Perciò aveva salutato con favore la svolta del partito comunista. “Assieme – sosteneva – possiamo fare grandi cose”. Egli era pronto ad accettare la direzione operativa del Pci, ma concentrava le sue riserve sul modo in cui si veniva attuando nell’Urss la costruzione del socialismo. “È necessario – diceva – un comunismo nazionale che parta dalle condizioni concrete esistenti nel nostro paese”. Così per la prima volta sentii parlare di “comunismo nazionale”.
… Quell’indicazione “comunismo nazionale” rimase vivissima nella mia memoria» Amendola ricorda poi la discussione con Morandi: «Era una discussione che anticipava nel tempo temi ancor oggi più che mai attuali. Certo egli avrebbe salutato con favore il XX Congresso del Pcus, la denuncia di Krusciov, la rottura di ogni legame organizzativo centralizzato, la ricerca delle vie nazionali, l’eurocomunismo».
Amendola aveva ragione, nel senso che Morandi è venuto a mancare quando più necessario era il suo apporto. Ma resta il suo insegnamento unitario e resta l’esigenza unitaria, la chiave di volta per avanzare in Italia.

Dario Valori