di Michele Ciliberto - «Rinascita», a. XXXVIII, n. 32, 7 agosto 1981, pp. 23-24
1. Nel corso degli ultimi anni sono stati messi a disposizione degli studiosi documenti assai interessanti per lo studio della cultura filosofica italiana fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Dalle lettere di Gentile a Croce, a quelle di Omodeo a Croce e Gentile, per non dire del materiale eccezionale raccolto nel volume di lettere di Antonio Labriola a Benedetto Croce, si dispone oggi di una serie di fonti che permettono di riaccostarsi a quelle vicende e a quegli anni con occhi in parte diversi (nel caso di Labriola con occhi anche nuovi). Sono testi utilizzabili su vari terreni: dalla ricostruzione dell’ambiente culturale, accademico e politico di quel periodo, alla ricognizione della storia interna della cosiddetta «riforma intellettuale e morale» idealistica, alla individuazione della genesi di posizioni che troveranno poi un consolidato punto d’approdo negli scritti «pubblici» ai quali, in primo luogo, occorre continuare a far riferimento, al di là di sterili contrapposizioni fra editi e inediti, lettere private e opere a stampa.
È in questo quadro che ora si collocano le Lettere a Giovanni Gentile di Benedetto Croce, pubblicate per i tipi dell’editore Mondadori, a cura di Alda Croce, con una sobria ed acuta introduzione di Gennaro Sasso. Lettere, va notato: non epistolario scelto e curato dall’autore secondo criteri risalenti a una fase diversa da quella nella quale le lettere furono scritte e corrispondenti a un’immagine che s’intende consapevolmente presentare al pubblico, per il quale l’epistolario è preparato (come farà appunto Croce, mettendo insieme, fra il ’34 e il ’35, il volume edito nel 1967 dall’Istituto italiano di studi storici). È questo carattere – raccolta di lettere, non epistolario – che rende il materiale ora disponibile più interessante. Tranne l’omissione di alcune lettere e di alcuni brani segnalati, peraltro con punti sospensivi in parentesi quadre, sono qui raccolte tutte le lettere di Croce a Gentile, in massima parte inedite (se ne conosceva solamente un gruppo degli anni 1896-1899 pubblicato nel 1969 sul Giornale critico della filosofia italiana). Sono lettere che vanno dal 1896 al 1924, più di un quarto di secolo, segnato da eventi decisivi e anche traumatici: dai moti di fine secolo alla rivoluzione industriale, dalla guerra di Libia alla guerra mondiale, all’avvento del fascismo. Eventi che incisero profondamente nel mondo storico e in quello storiografico, e anche nel rapporto di Croce e Gentile. Del quale, leggendo queste pagine, conviene avere sotto gli occhi i quattro volumi delle Lettere a Benedetto Croce (1896-1914), edite dalla Sansoni, sia per seguire il movimento effettivo della discussione, sia, talvolta, per sciogliere le omissioni delle lettere di Croce consultando le ampie note dell’edizione sansoniana.
2. Dunque materiali che consentono di guardare con occhi in parte diversi a quelle vicende e ai suoi protagonisti. Da queste pagine esce in primo luogo corrosa l’immagine di un Croce macchina perfetta da lavoro, in perenne movimento, impassibile scrutatore degli eventi del suo tempo: in sintesi l’immagine oleografica dell’ortodossia crociana. Riemergono i lineamenti veri di un uomo in carne ed ossa, sensibilissimo, come sottolinea efficacemente Sasso, insidiato da crisi e depressioni nervose di cui avverte permanentemente l’inquietante possibilità: «Debbo confessarvi che il sudicio libro del Porena mi ha fatto del male – scrive il 21 agosto del 1905 – (…). E sono ormai dieci giorni che io soffro di una fortissima depressione nervosa, con insonnia, umor nero, impossibilità di occuparmi in un qualsiasi lavoro». E ancora, nel 1913: «Io non riesco ancora a concludere nulla; sono affatto dissipato, e fisicamente non sto bene: spesso non dormo l’intera notte, e temo di fatti neurastenici che potranno affliggermi se continuo così. – Procurerò di ripigliar macchinalmente qualche lavoro: forse, a poco a poco, nascerà l’interessamento che ora manca del tutto». Alle «malinconie» reagisce proclamando sempre l’etica «umanistica» del lavoro, dell’operosità, come sola scelta possibile, unica condizione d’esistenza positiva.
Ma sono richiami, prima che a Gentile, a se stesso; moniti che non gli impediscono di sentirsi, a volte, condannato ai «lavori forzati», a un lavoro non «gioioso», e di piombare, di fronte a eventi che ne toccano le radici civili e umane, in un’astenia che non gli riesce di superare, per la difficoltà di ordinare e governare, come vorrebbe, le «passioni» che lo scuotono. Esce incrinata da queste Lettere anche quell’immagine di Croce «moderno Erasmo» che ha avuto notevole fortuna (ma che nasceva, per la verità, da un’idea tradizionale sia d’Erasmo che dell’umanesimo). A quella data l’etica «umanistica» del lavoro intellettuale non è un fatto scontato; è, per Croce, una conquista costantemente in bilico di fronte alle «disarmonie» personali e agli avvenimenti politici e sociali che ne insidiano le strutture, e la minacciano, mettendone infine in discussione, col fascismo, non tanto la praticabilità, ma la sopravvivenza, la sua medesima possibilità.
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