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Discussione: Così eravamo (1981)

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    di Gastone Manacorda - «Rinascita», a. XXXVIII, n. 1, 9 gennaio 1981, pp. 31-32.

    L’Istituto Gramsci di Firenze organizza un convegno di studi sull’esperienza di “Società”, la rivista che per oltre un quindicennio (dal 1945 al 1961) è stata importante centro di collegamento degli intellettuali della sinistra italiana. Ce ne parla un protagonista.

    «La guerra delle armi è cessata in Europa (…) Il destino degli uomini era minacciato ed essi lo hanno ripreso nelle loro mani e si sono incamminati sulla via della salvezza. La parola “pace” sembra insufficiente a indicare quanto ora li attende: non il godimento di un bene acquisito, ma un immenso lavoro, un’operosa ricostruzione, uno sforzo costante verso un mondo nuovo e migliore». Con queste righe si apriva l’editoriale del primo numero di Società, rivista trimestrale, apparso a Firenze ai primi di giugno del 1945. Era trascorso quasi un anno dalla liberazione di Roma e di Firenze, poche settimane dall’insurrezione del Nord.
    La rivista nasce per iniziativa di un gruppo di intellettuali fiorentini – Ranuccio Bianchi Bandinelli, Romano Bilenchi, Marta Chiesi, Maria Bianca Gallinaro, Cesare Luporini -, con una chiara connotazione politica che la colloca nell’ambito della sinistra e del movimento operaio, con un’implicita accettazione delle posizioni unitarie del Pci senza tuttavia essere espressione né diretta né riconosciuta del partito. La scelta di campo e l’impegno militante si qualificano nel rifiuto di ogni forma di intellettualismo. Nell’immenso lavoro da compiere – continuava l’editoriale - «s’inserisce come elemento essenziale e vitale l’attività degli intellettuali», ma qui seguiva subito una precisazione di grande rilievo: «Essi (gli intellettuali) sono il sale della terra; tuttavia non costituiscono una classe a sé. E guai per loro, per la loro vocazione, se tendono a costituire casta o categoria». Non era certo per mero gusto di definizione sociologica che questi concetti venivano posti in epigrafe di Società. Nella fioritura di idee che si esprimeva in giornali, riviste, libri, opuscoli, tumultuosamente all’indomani della liberazione, gli eccessi di intellettualismo si manifestavano doviziosamente come improvvisazione velleitaria, come pseudocritica, come proposta moralistica con tutte le possibili varianti, insomma, dell’astrattezza. L’antintellettualismo di Società era, invece, bisogno di concretezza, raggiungibile – si affermava – solo attraverso «l’attento, disinteressato, scrupoloso esame del reale», e quindi non rinnegando nulla del passato recente, vale a dire il fascismo. Intellettualisticamente astratto veniva giudicato il giudizio di Croce sul fascismo come elemento estraneo alla storia d’Italia, ma non meno viziate nello stesso senso erano giudicate certe costruzioni arbitrarie che proponevano una sorta di condanna di tutta la storia del nostro paese come quella che sarebbe sfociata necessariamente nel fascismo.
    A queste premesse programmatiche – rigore specialistico, non separatezza sociale dell’attività intellettuale – Società rimase sostanzialmente fedele lungo tutta la sua durata. È, questo, un elemento distintivo, un carattere originale della rivista, un fine che dalle sue pagine fu consapevolmente perseguito. Il che non significa che il fine sia stato raggiunto sempre pienamente. Quale sia stato il grado di approssimazione dei risultati ai programmi può dirlo solo una rilettura analitica e una riflessione complessiva. È questa, appunto, la proposta dell’Istituto Gramsci di Firenze, che ha indetto per il 9-10 gennaio un convegno di studi su «Politica e cultura nell’esperienza di Società 1945-1961». Con questa nota si vuole soltanto fornire qualche notizia tratta dalla memoria di chi ha avuto qualche parte nella vicenda.
    Nel corso dei diciassette anni della sua durata Società non fu sempre la stessa. Mutò direzione cinque volte, ed a ciascuno di questi mutamenti corrisposero scelte di indirizzo e di contenuti, diverse accentuazioni di interessi, prevalenza di questa o quella forma consolidata di approccio ai problemi. Varia anche, con il variare dei direttori, l’ampiezza, la qualità, la provenienza della cerchia dei collaboratori, ma varia soprattutto il modo di intendere e di realizzare il collegamento con il movimento politico in generale e in particolare con il partito e con i suoi organi dirigenti. Ecco, per chiarezza, la distinzione dei periodi ai quali ci riferiremo in seguito: primo periodo fiorentino, 1945-’46; secondo periodo fiorentino, 1947-’49; primo periodo romano, 1950-’52; secondo periodo romano, 1953-’56; periodo milanese, 1957-’61. La distinzione non è estrinseca, e va tenuta ben presente se non si vuole entificare la testata. È invece evidente la corrispondenza, non meccanica ma sostanziale, dei periodi sopra indicati con la storia politica generale. Le scansioni più importanti sono il 1947 (inizio della guerra fredda, fine dell’unità nazionale resistenziale) e il 1956 (crisi del movimento comunista internazionale).
    Nel primo periodo fiorentino Società fu completamente autonoma. La sua formula si segnalava per originalità nel panorama delle riviste esistenti. L’impegno comune si realizzava con varietà di voci in un ambito largamente «umanistico»: filosofico, storico, giuridico, economico, letterario (non solo critico, ma anche creativo). L’attualità era affrontata con uno sforzo notevolissimo di documentazione del passato recente, guerra e Resistenza. Il dialogo con la cultura italiana e internazionale si concretava attraverso la critica argomentata e precisa, condotta con rigore esemplare (penso soprattutto alle recensioni di Delio Cantimori, che furono modelli insuperati di critica storiografica). L’insieme era manifestazione di una grande vivacità intellettuale congiunta a grande serietà. Ma durò poco.
    All’inizio del 1947 si inaugurò la Nuova serie, caratterizzata dalla dichiarata scelta politica di partito: «I redattori di Società – si leggeva nell’editoriale – sono quasi tutti comunisti, e in parte comunisti sono i suoi collaboratori. Quelli che non lo sono, per il fatto stesso di scrivere su Società, mostrano di voler collaborare con noi sul piano culturale e di avere in simpatia il nostro spazio». Così il punto di riferimento che si era offerto all’intellighentia di sinistra per iniziativa di un nucleo che fidava nelle proprie risorse come polo di attrazione, veniva riproposto, ora, nei termini di un rapporto tra egemoni organizzati e loro alleati.
    Il richiamo generico al mutamento dei rapporti politici non spiega, da solo, una svolta così repentina e radicale. Vi concorsero, in realtà, varie circostanze. Il gruppo fiorentino e quello romano che con esso collaborava strettamente avevano la caratteristica comune di essere costituiti da antifascisti di sinistra provenienti dall’interno, da uomini cioè che erano vissuti in patria durante il fascismo. Fu l’incontro con i quadri comunisti provenienti dall’esilio che determinò il salto di qualità, ma il mutamento non sarebbe stato così netto e repentino se quell’incontro non fosse stato cercato dal nucleo dirigente della rivista anche come un aiuto per superare difficoltà obiettive che l’angustiavano. L’immissione della cultura dell’esilio fece precipitare una crisi già latente, tolse coraggio ed entusiasmo al gruppo fondatore, portato a ritirarsi in secondo piano dallo stesso valore intellettuale di quegli uomini che, già circondati dal prestigio di protagonisti della lotta antifascista, si rivelavano ora anche studiosi e pensatori di alta statura. I saggi di Berti e di Sereni che apparvero in Società, sebbene scritti e in parte anche pubblicati precedentemente, furono una rivelazione. Gli intellettuali diventati comunisti durante la guerra e la Resistenza avevano, infatti, una scarsissima informazione sulla storia del Pci. Venne poi, a cominciare dal ’47, la conoscenza degli scritti del carcere di Gramsci, alcuni dei quali furono pubblicati per la prima volta in Società. Dunque, il partito comunista non era soltanto l’eroica formazione di combattenti che aveva sfidato carcere, confino, esilio, che aveva combattuto in Spagna e guidato la Resistenza armata, ma era anche un patrimonio di idee, che occorreva assimilare prima di procedere oltre sulla via che la rivista si era tracciata. Quel ripensamento della nostra storia recente, che era nei propositi già avviati a realizzazione nelle pagine della rivista, subiva ora una sorta di brusca accelerazione che ebbe un effetto quasi traumatico. Fu un caso particolare, ma cospicuo proprio per il terreno sul quale si verificava, dell’incontro non sempre facile tra la cultura dell’esilio e la cultura antifascista dell’interno. La fusione non poteva avvenire rapidamente. La natura stessa dei problemi non lo consentiva. E le difficoltà materiali della redazione, che preesistevano, si trovarono accresciute anziché diminuite, tanto più che c’era il rovescio della medaglia. Ci fu, infatti, una pressione per un più diretto impegno politico della rivista che rischiò di snaturarne il carattere e obliterare le sue tavole di fondazione.
    Il secondo periodo fiorentino fu, dunque, un triennio di transizione, in cui l’elemento di novità è la presentazione alla cultura italiana del patrimonio ideale dei comunisti (Gramsci soprattutto) a prezzo però di una diminuita iniziativa dei nuovi intellettuali comunisti. Ci volle qualche anno perché il processo di fusione fra le due culture, o piuttosto fra le due mentalità, si compisse. Alla fine del ’49 il gruppo fiorentino rimise la rivista nelle mani della direzione del partito. Ne fu deciso il trasferimento a Roma, e la direzione fu affidata al sottoscritto. Einaudi, richiesto dalla direzione del partito, accettò di malavoglia di figurare in copertina come editore. La redazione fu sistemata presso la Fondazione Gramsci. Fu dato, insomma, alla rivista un assetto organizzativo che garantiva la possibilità di lavorare.
    Il primo periodo romano di Società (1951-’52) raccolse, accanto agli antichi, molti nuovi collaboratori e fra questi molti giovani che erano cresciuti nel frattempo. Ricordo, fra i giovani studiosi di storia, Caracciolo, Della Peruta, Procacci, Ragionieri, Villani, Zangheri: una leva davvero promettente. La storia, non soltanto politico-sociale, ma anche letteraria (Sapegno, Trombatore) e filosofica (Luporini, Badaloni, Gerratana, Colletti), fu posta al centro della rivista, con un consapevole sforzo di allargamento del campo di interessi, con l’attenzione verso la storiografia di altri paesi, con la pubblicazione di contributi originali di ricerca in maggior copia che per il passato. Un campo nuovo a cui fu dato impulso fu quello delle scienze fisiche e naturali, che ebbe poi considerevoli sviluppi nel periodo successivo dal ’53 al ’56 per opera soprattutto, nel campo della biologia, di Massimo Aloisi (ma è da ricordare il grande aiuto che ci diede Gianfranco Ferretti) e, nel campo della fisica, di Ettore Pancini, Carlo Castagnoli, Marcello Cini. Questa collaborazione fra «umanisti» e «scienziati», era un esperimento ardito per la difficoltà obiettiva di trovare un linguaggio comune, ma più ancora per la carenza di quei settori di ricerca (storia della scienza, filosofia della scienza) che avrebbero potuto mediare fra i due campi. Ciò nonostante fu compiuto uno sforzo che diede risultati apprezzabili nel rinnovamento del pensiero filosofico, sul quale ancora gravava (ed era proprio questo che avevamo in mente) la svalutazione idealistica delle scienze della natura.
    L’autonomia della rivista nei confronti degli organi dirigenti del partito era rispettata, e qualche tentativo, che non mancò, di risospingerla sul terreno della propaganda, non ebbe fortuna. Piuttosto, al dignitoso e anche prestigioso livello culturale faceva riscontro una mancanza di vivacità, di presenza continuativa e tempestiva nel dibattito culturale, di dialogo con altre sponde. Ancora una volta tutto ciò è spiegabile solo in parte con il clima generale, che era quello della guerra fredda e del parziale riflusso del movimento operaio all’interno. Forse si può caratterizzare questo triennio all’insegna del raccoglimento, della ricostituzione e riorganizzazione delle forze, ma anche della sperimentazione di nuove vie di ricerca.
    Alla fine del ’52 Giulio Einaudi prese l’iniziativa di proporre a Carlo Salinari, allora responsabile della commissione culturale presso la direzione del partito, un riassetto della rivista. L’editore l’avrebbe assunta in proprio, non più solo di nome ma di fatto. La rivista sarebbe stata sganciata dalla Fondazione Gramsci e inserita nell’attività della casa editrice. Sciolto il comitato di redazione, la direzione di Società fu affidata al sottoscritto e a Carlo Muscetta. Fu una svolta salutare, dalla quale ebbe inizio il secondo periodo romano (1953-’56), durante il quale, mutatis mutandis, Società ritrovò una vivacità intellettuale pari a quella delle sue origini. In quegli anni, che vanno della morte di Stalin al XX Congresso del Pcus, alla grande crisi della fine del ’56, l’atmosfera era più favorevole all’avvio di un libero confronto critico all’interno del partito e più in generale nel paese, e Società tornò ad essere il principale centro di collegamento degli intellettuali della sinistra italiana: un posto che le spettava non più in virtù di un’investitura, ma per il prestigio consolidato da un decennio di attività. Lungo il decennio non era mai venuta meno la fedeltà al convincimento che il modo non solo il più serio ma il più fecondo di fare politica culturale fosse quello di operare rigorosamente con gli strumenti propri degli studi e della ricerca. È significativo quello che in un saggio su Gramsci e l’unità della cultura, a firma dei due direttori, Società scriveva in apertura dell’anno 1954: che il lungo «discorrere di crisi della cultura e di autonomia della cultura, di dramma degli intellettuali e di indipendenza degli intellettuali» fosse condannato alla sterilità finché chi si angosciava in simili genericità non avesse preso «esatta nozione innanzi tutto di quel pensiero che ha avuto, per non dir altro, il merito di porre la questione nei suoi termini storici». E forse ancora più importante era l’affermazione che la discussione spesso era stata «mal posta come problema di rapporti tra “politica e cultura”». Quel rapporto, insolubile in termini di intellettualismo etico, veniva scavalcato col richiamo al «concetto marxista della funzione attiva della sovrastruttura». Era una «riscoperta» che circolava largamente in quegli anni, in implicita polemica contro il determinismo economicistico del «materialismo dialettico» staliniano, al quale tuttavia non era ancora stata tolta l’autorità. (Anzi Società aveva persino tentato di rileggere Stalin in questa chiave: un’operazione sbagliata, concettualmente impossibile, ma che va capita in questo quadro). In realtà, per segni minori non dubbi, che investivano anche Società e il suo ambiente, il conflitto tra ragion di stato e ragione critica si veniva riacutizzando a mano a mano che ci si avvicinava alla dura resa dei conti sulle conseguenze dello stalinismo non solo a livello delle idee, ma a livello degli Stati e dei partiti.
    La crisi del ’56 segnò la fine del periodo romano di Società, e certo fra tante cose che accaddero in quell’anno memorabile, questo può apparire, ed è, un episodio marginale, ma non privo di significato e capace di illuminare in parte anche gli eventi più grandi. La rivista, punto d’incontro e vivace centro di scambio d’idee degli intellettuali di sinistra, era un punto sensibile, e si dimostrò infatti particolarmente vulnerabile, al cospetto di una crisi che nelle sue origini e nella sua portata la trascendeva, e ne fu travolta. Il grosso dei collaboratori, dopo un atto politico di protesta nel culmine della crisi di novembre, si dissolse. L’autonomia di Società faticosamente costruita, difesa, rinnovata attraverso gli anni, rischiò di concludersi in una sorta di suicidio politico essendo venute a mancare, così parve, le premesse sulle quali, alla fine del ’52 si era stabilito l’accordo fra l’editore e il partito. Le scelte politiche dei due direttori non furono le stesse, ma essi furono concordi fra loro e con l’editore, nel constatare l’impossibilità di continuare. La rivista seguitò a uscire, tuttavia, ancora per cinque anni a Milano sotto la direzione di Mario Spinella, ma in questa nota, deliberatamente circoscritta nei limiti di una testimonianza, non può entrare la storia di un periodo che chi scrive non ha direttamente vissuto.
    Attraverso Società è passata gran parte dell’intelligentsia di sinistra del secondo dopoguerra. Mi sono soffermato sulla differenza dei vari momenti della storia di Società ma credo di averne indicato anche gli elementi di continuità. La continuità, del resto, è visibile nella presenza, anche nel periodo finale, delle firme dei fondatori, ma la vera continuità si realizzò nell’arricchimento che alle pagine della rivista venne dalle forze nuove che erano cresciute in quegli anni. Società fu, infatti, per dirla nel nostro gergo, uno «strumento di organizzazione» degli intellettuali comunisti, e tale poté essere perché, attraverso vicende non sempre idilliache, anche attraverso contrasti, coloro che la fecero non smarrirono mai la coscienza di essere parte integrante di un movimento più vasto.

    Gastone Manacorda

    https://musicaestoria.wordpress.com/2021/04/11/cosi-eravamo-1981/
    Ultima modifica di Frescobaldi; 11-04-21 alle 23:27
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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