di Rosario Battaglia – In G. Cingari (a cura di), “Garibaldi e il socialismo”, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 69-77.

La Sicilia degli anni immediatamente precedenti la ‘storica’ spedizione, ci porta quasi naturalmente a considerare con maggiore attenzione taluni aspetti della realtà nella quale Garibaldi si trovò ad agire dall’11 maggio 1860.
L’aspetto politico è noto nel suo ruolo determinante[1]. Ma è proprio l’interpretazione del nodo socio-economico che può meglio chiarire le ragioni della rapidità della marcia garibaldina in Sicilia e le origini del forte contrasto che, instaurata la dittatura, si determina subito tra le forze moderate e quelle democratiche di ispirazione mazziniana, le quali di fatto miravano a ritardare il plebiscito fino alla completa liberazione della penisola e così determinare un assetto economico e amministrativo più rispondente ai bisogni dei siciliani[2].
La borghesia siciliana non era né tutta nuova, né era estranea ai cosiddetti comportamenti ‘gattopardeschi’ e ‘rivoluzionari’. Tuttavia c’era un contrasto duro tra le due ali, così come resistevano posizioni reazionarie, magari ammantate di ‘sicilianismo’. Essa in buona parte proveniva dalla nobiltà che, spinta da nuovi bisogni, s’era rivolta agli affari, imborghesendosi; e questi gruppi, detentori della maggiore ricchezza dell’isola, erano conservatori e tradizionalisti e ogni qual volta era stato minacciato un rivolgimento sociale, aveva fatto sempre ogni sforzo per conservare la sua preminenza e il suo prestigio nella vita del paese. Un tale atteggiamento era emerso nella rivoluzione del 1820 e soprattutto nel 1848, in un processo d’identificazione dei propri interessi con quelli generali dell’isola; e perciò si era scontrato con l’altra linea, pure a contenuto borghese, che propugnava l’allargamento della base sociale del potere, l’unitarismo e, in molti casi, un modello di unità decentrata su basi regionali e comunali[3].
Ma le masse popolari siciliane, e specialmente quelle contadine, rappresentano un elemento del quadro che entra in azione ancor prima dei dirigenti e prima dello sbarco di Garibaldi. Fin dai primi di aprile si diffondeva infatti nell’isola un vasto movimento insurrezionale contadino, «politicamente antiborbonico e socialmente inteso a chiedere l’abolizione di alcune tasse fra le più odiose e pesanti», come la tassa sul macinato, e la distribuzione delle terre demaniali. Tale moto, sebbene represso, si conserverà vivo nelle campagne, costringendo le autorità borboniche e i funzionari del dazio sul macinato a preoccuparsi che il fenomeno potesse sfociare in una violenta sollevazione e in una vasta insurrezione[4].
Questa situazione preoccupava seriamente i Borboni. Pertanto appare chiara l’importanza politica di quelle motivazioni di carattere economico e sociale, soprattutto quando l’agitazione patriottico-popolare, durante la campagna garibaldina pigliava anche la direzione che era quella della distruzione, da parte dei contadini, dei locali degli uffici daziari e della persecuzione dei suoi agenti; e Garibaldi, del resto, pochi giorni dopo lo sbarco, decretava fra l’altro l’abolizione del dazio d’importazione del grano chiesta dalla borghesia, e quella della tassa sul macinato reclamata dalle classi popolari, «procacciandosi anche in tal modo quel vasto seguito che a molti sembrò un miracolo rispetto alla presunta inerzia politica del ceto rurale siciliano», mentre «lotta politica e lotta sociale vennero saldandosi fra di loro, e il patriottismo divenne nei ceti popolari un’espressione delle loro aspirazioni sociali»[5].
In realtà la Sicilia pre-unitaria aveva stentato a ritrovare un nuovo spazio economico-commerciale che la compensasse del danno subìto per il mutato equilibrio istituzionale e per i nuovi vincoli doganali dettati da Napoli nel periodo della Restaurazione. L’isola aveva perduto la sua centralità al momento della nuova legge demaniale, ed ora – alla vigilia del 1860 – era alla ricerca di nuovi più soddisfacenti equilibri[6].
Non è che l’isola fosse davvero un’area di profondissima stagnazione nel mezzo di un mondo circostante in pieno sviluppo. Questo può esser vero rispetto all’Europa oppure ad alcune, molto limitate, sezioni della penisola. Mentre, ad esempio, Palermo restava essenzialmente una città burocratica, Messina e Catania, e soprattutto Marsala, registravano una spinta demografica rilevante e, nel contempo, erano centri a prevalente carattere industriale-commerciale. Ma, di contro, pesava la Sicilia del latifondo cerealicolo e dei rapporti semifeudali in campagne arretrate. E tutto questo, non solo non consentiva alla realtà più avanzata di egemonizzare aree esterne al loro naturale hinterland, ma creava conflitti violenti di linea politica[7].
D’altra parte, nella Sicilia di quel periodo «un rapporto assai stretto legava le vicende della terra alla formazione di quell’ambiente cittadino» nel quale andavano sviluppandosi, con il contributo degli imprenditori stranieri, «le forze più vicine allo spirito e ai problemi del Risorgimento» e, nel contempo, alle concezioni delle nuove esigenze manifestarsi in Europa. Così, la diminuzione della rendita fondiaria, connessa ai molti onerosi trapassi di proprietà, si ripercuoteva sull’influenza e sul prestigio di molte grandi famiglie nobiliari, le quali si mostravano all’opinione pubblica come una classe in netto declino[8].
C’è poi da ricordare che, accanto alle professioni liberali e agli impieghi, un contributo degno di nota era dato al rafforzamento della borghesia cittadina dalle attività commerciali e industriali, sebbene il basso tenore di vita dei contadini e la carenza del sistema stradale e dei mezzi di trasporto terrestri frantumassero il paese in una miriade di minuscoli mercati. E, infine, che il traffico dei porti siciliani, pure in forte crescita, restava lontano (con la parziale eccezione di Messina, favorita dall’antica tradizione e dalla presenza di una numerosa colonia commerciale straniera) dal ritmo di sviluppo dei porti più direttamente interessati alla nuova via marittima[9].
Il commercio dunque era certamente in ascesa in quegli anni, ma naturalmente ciò non voleva dire corrispondente crescita di un moderno ceto mercantile indigeno. «Pochi Siciliani – osservava un contemporaneo – esercitano nel più alto grado di energia il commercio. La maggior parte dell’utile proveniente da questa industria va nelle mani de’ negozianti esteri»[10]. Di fatto l’esportazione dello zolfo, il settore più importante, era stato monopolizzato da una quindicina di ditte inglesi; ed altrettanto può dirsi per il vino, dove dominavano i grandi mercanti-imprenditori britannici di Marsala, Woodhouse e Ingham[11].
In queste condizioni i fenomeni di crescita erano divenuti fattori di grave instabilità sociale, e i Borboni nulla facevano per correggere la situazione. Pur nel vincolo del regime economico prevalente, i cambiamenti si erano registrati sia nella limitata area industriale-commerciale (Messina, Catania, Marsala e in parte Palermo), sia nella dominante area rurale. Non nasceva un ceto operaio in senso proprio, sebbene migliaia di siciliani lavorassero nella fabbrica o integrassero il loro salario con attività artigianali legate all’industria; e altre migliaia trovassero misero e duro impiego nelle attività della marina mercantile, nelle saline, nelle miniere di zolfo[12].
Nel caso siciliano, pesavano dunque fattori quali lo spietato accaparramento delle terre comuni, che aveva immobilizzato capitali e ricomposto alla fine il grande possesso latifondistico; e ciò mentre i patti agrari non avevano subito alcuna evoluzione positiva e le classi rurali erano state ulteriormente espropriate dei residui usi civici[13]. Sotto il profilo dei traffici, poi, lo slancio del commercio con l’estero era gravemente limitato dalla strozzatura monopolistica, dominata peraltro dalle ditte straniere. E i ceti rurali, specie i braccianti, sebbene con salari che restavano stazionari in periodo di prezzi calanti, scontavano la parte più onerosa di quella crisi «di più accelerata selezione economica e sociale; e la sovrapposizione, che non poteva essere riciclata dal gracile apparato industriale, accentuava l’estrema povertà generale e produceva i conosciuti fenomeni di vagabondaggio, di mendicità, di reati agrari, di brigantaggio». E, d’altra parte, «anche nei centri dell’isola in cui si era conosciuto un processo industriale non mancavano segni visibili» di quella miseria, spesso dovuta ai bassi salari, alle «periodiche crisi che intervenivano per investimenti sbagliati» e, non ultimo, alla mancanza di materia prima o di mercato[14].
Alla vigilia dell’Unità, sulla base del contrasto fondiario, erano andate formandosi nell’isola due correnti contrapposte: i ‘comunisti’ o contadini, e i proprietari. I primi, che rivendicavano le terre da sfruttare in comune, miravano ad un rivolgimento dell’assetto sociale e politico; i secondi, «conservatori liberali o addirittura filo-borbonici, erano per lo più politicamente rappresentati da quel ceto nobiliare-borghese che più degli altri aveva fornito elementi alla emigrazione dopo il 1849»[15].
Con lo sbarco di Garibaldi sembrò prevalere la linea democratico-rivoluzionaria, e i suoi elementi, nei comitati patriottici formatisi presso i vari municipi, avevano preso il sopravvento sugli elementi conservatori-liberali. Sicché il temporeggiare dei proprietari (a partire dalla seconda metà di giugno), che resistevano ai vari decreti dittatoriali, provocava l’inizio di una vasta insurrezione funestata da episodi sanguinosi. Queste dimostrazioni miravano ad ottenere, con una forte pressione popolare di massa sulle autorità municipali – che nel frattempo erano state nominate dai governatori assumendo un carattere conservatore -, o sui gruppi avversari che vi si opponevano, la ripartizioni delle terre demaniali o, almeno, che fossero nuovamente concessi ai contadini gli antichi usi civici su quelle terre[16].
Questa vasta agitazione – come si è ricordato -, aveva una base concreta nella struttura della proprietà fondiaria, sulla quale aveva esercitato la sua influenza anche la propaganda politica, che si era svolta per tutto il decennio ad opera dei comitati di esuli siciliani di Malta, Parigi e Londra. Pertanto, osserva Alatri:

Tra quegli esuli non pochi avevano tendenze democratico-socialiste; come Giuseppe La Farina, che più tardi si convertirà fondando la Società Nazionale; Pasquale Calvi, che aveva capeggiato la corrente democratica durante la rivoluzione del ’48 e che era un vero e proprio giacobino e tale rimase anche dopo il 1860, accentuando anzi il proprio orientamento socialistico; il palermitano Francesco Milo Guggino, che si dichiarava apertamente socialista e perciò criticava con asprezza il Mazzini per la sua indifferenza verso i problemi economici e sociali; Giuseppe Oddo, che aveva avuto parte di iniziatore nel moto popolare palermitano del 12 gennaio 1848; Saverio Friscia, che dalle fila mazziniane e garibaldine passerà in quelle del socialismo anarchico bakuniniano, divenendo attorno al 1870 uno dei più attivi propagandisti in Sicilia[17].

Questa era dunque la situazione nell’isola durante il ‘decennio di preparazione’ e nei primi tempi dell’impresa dei Mille, che impose a quella composita classe dirigente siciliana di tenere in un certo conto le aspirazioni dei contadini. Da qui l’ardore con cui, ancor prima dello sbarco garibaldino, la Sicilia si preparava al grande appuntamento. Si trattava di un fermento diffuso che coinvolgeva direttamente la borghesia ma con proiezione nei ceti popolari. Accanto ai ‘gattopardeschi’ si muovevano gruppi medio piccolo borghesi, si agitavano i popolani di città e campagna. E, in taluni casi, quel fermento si colorava di umanitarismo e socialismo. Certo il ceto che meglio si preparava all’evento rivoluzionario era quello più fornito di mezzi e che già, con la guardia armata alle sue dipendenze[18], vigilava a che il moto non ‘traboccasse’ e il nuovo ordine prendesse i colori dell’ordine e della moderazione. Ma una valida organizzazione erano riusciti a darsi anche le squadre raccolte da Rosolino Pilo e Corrao, sbarcati in Sicilia clandestinamente per organizzare la resistenza fino all’arrivo di Garibaldi; e, fatto importante, con una intensa presenza nelle campagne e nei comuni rurali, dove la manifestazioni di ribellione contro il governo preparavano di fatto l’apporto popolare all’avanzata garibaldina[19].
Ma anche qui non vi era coincidenza «tra linea interna e linea esterna»; e non sempre gli stimoli di tipo socialistico trasmessi dai fuorusciti «trovavano consenso o facile rispondenza all’interno». In realtà l’evoluzione delle fasce democratiche più estreme era accelerata dalle contemporanee vicende del capitalismo, dell’industrialismo e del ceto operaio in espansione; di contro, in Sicilia il momento congiunturale era stagnante e «dominato da un ben diverso rapporto tra masse contadine espropriate e plebi a livello di mera sussistenza e ceti conservatori, disponibili certo ad un mutamento ma nella permanenza del sistema economico-sociale vigente». E da questo versante, i gruppi costituzionalisti aristocratico-borghesi, «benché meno attivi, trovavano in Sicilia risposte più precise e, sul terreno della direzione politica concreta, più potenti». Lo mostrerà il 1860 e, si può dire, la vicenda post-unitaria[20].
È certo però che Garibaldi corrispose alle aspettative popolari. L’abolizione della tassa sul macinato (decreto del 19 maggio 1860), l’indennizzo dei danni cagionati dalle truppe borboniche, il soccorso, da parte dei comuni, alle famiglie di coloro che si fossero battuti in difesa della patria (decreto del 18 maggio 1860) e soprattutto quello del 2 giugno che lasciava intravedere il sicuro possesso di una quota dei terreni demaniali da dividersi «giusta le legge» già emanata nel 1849, a coloro che si fossero arruolati nella milizia: questi e altri decreti mostrano una tendenza democratica ben spinta[21]. Che le cose abbiano preso un altro verso coinvolge certo anche la coerente linea garibaldina dei mesi successivi. Ma il discorso è più complesso e la «sciagura» di Bronte non lo esaurisce affatto.
Il vecchio sogno della «terra ai contadini» sembrava realizzarsi. Nessuno, neppure lo stesso Crispi, allora si accorse della straordinaria portata sociale di quel decreto e delle conseguenze che avrebbe determinato nel paese.

Rosario Battaglia

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[1] Sotto l’aspetto politico generale, dal moto della Gancia al Plebiscito, cfr. R. Moscato, La fine del Regno di Napoli. Documenti borbonici del 1859-1860, Firenze 1960; A. Saladino, L’estrema difesa del Regno delle Due Sicilie: aprile-settembre 1860, Napoli 1960; D. Mack Smith, The Peasant’s Revolt of Sicily in 1860, in Studi in onore di G. Luzzatto, vol. III, Milano 1950 (trad. it. di U. Gargano, in «Quaderni del Meridione», 1958, pp. 132-55 e 253-75); Id., Garibaldi e Cavour nel 1860, Torino 1958; E. Passerin d’Entrèves, La politica nazionale e i problemi siciliani nel 1860, in Scritti di sociologia e di politica in onore di Luigi Sturzo, vol. III, Bologna 1953; D. Demarco, Il crollo del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1960; G. Giarrizzo, La Sicilia nel 1860: un bilancio, in «Arch. stor. per la Sic. Orient.», 1960, pp. 34-52; Id., Alle origini della questione meridionale: il 1860 in Sicilia, in «Annali del Mezzogiorno», Università di Catania, 1962, pp. 11-34; inoltre, di più recente pubblicazione sul periodo pre-unitario, v. G. Cingari, Gli ultimi Borboni, in Storia della Sicilia, vol. VIII, Palermo 1977, pp. 3-83; e, post-unitario, F. Brancato, Dall’Unità ai Fasci dei lavoratori, in Storia della Sicilia, vol. VIII, Palermo 1977, pp. 87-172. Sulla Sicilia nella politica internazionale cfr. F. Valsecchi, La politica europea e la spedizione dei Mille: le potenze conservatrici, in «Il Risorgimento», 1960, pp. 153-80; Id., Le potenze e la spedizione dei Mille, ivi, pp. 181-200; F. Brancato, L’insurrezione siciliana del 1860 nei dispacci dei consoli di Francia. Dal moto della Gancia alla liberazione di Palermo, in «Arch. stor. siciliano», 1961, pp. 123-238.

[2] Cfr. F. Brancato, Dall’Unità ai Fasci dei lavoratori cit., pp. 87-8.

[3] Per queste considerazioni cfr. C. Cingari, Gli ultimi Borboni cit., pp. 61 sgg; R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Roma-Bari 1973³, pp. 346 sgg; F. Brancato, Dall’Unità ai Fasci dei lavoratori cit., pp. 91 sgg.; inoltre più in particolare M. Gaudioso, I democratici siciliani nell’emigrazione, Palermo 1970, pp. 61 sgg.; G. Berti, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento, Milano 1962; M. Ganci, Il caso Crispi, Palermo 1976, p. 61.

[4] Su tutto ciò cfr. S. F. Romano, I contadini nella rivoluzione del 1860, in Momenti del Risorgimento in Sicilia, Messina-Firenze 1953; inoltre P. Alatri, Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della destra (1866-1874), Torino 1954, pp. 21-2.

[5] Ivi, pp. 21 sgg.

[6] Sulla questione doganale in generale e le sue implicazioni merceologiche cfr. A. Graziani, Il commercio estero del Regno delle Due Sicilie dal 1832 al 1858, in «Arch. economico dell’unificazione italiana», Roma 1960, serie I, vol. X, fasc. I; inoltre sulla questione v. anche R. Romeo, Il Risorgimento cit., pp. 176 sgg.; G. Cingari, Problemi del risorgimento meridionale, Messina-Firenze 1965, pp. 7 sgg.; F. De Stefano, Storia della Sicilia dall’XI al XIX secolo, Roma-Bari 1977, pp. 268 sgg. Per un’ampia analisi del conflitto degli interessi trasposti nel dibattito antagonistico tra protezionisti e liberisti v. G. C. Marino, Neoguelfismo e ideologia borghese nel ’48 siciliano, in «Nuovi Quaderni del Meridione», 1970, nn. 29 e 31, pp. 18 sgg. dell’estratto.

[7] Cfr. per queste considerazioni G. Cingari, Gli ultimi Borboni cit., pp. 37-9 e la bibliografia ivi citata.

[8] Per tali osservazioni v. il sempre ampio ed esauriente R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., p. 203.

[9] Sulle trasformazioni economico-sociali e sull’attività commerciale e industriale cfr., assieme a R. Romeo, Il Risorgimento cit. e G. Cingari, Gli ultimi Borboni cit., anche F. Brancato, L’industria in Sicilia, in «Nuovi Quaderni del Meridione», 1981; R. Giuffrida, La Camera Consultiva di Commercio di Palermo e i problemi dell’economia siciliana dal 1819 al 1860, in Centocinquanta anni della Camera di Commercio di Palermo – 1819-1969, Palermo 1970; Id., Aspetti dell’economia siciliana nell’Ottocento, Palermo 1973. Sulle carenze del sistema stradale e dei mezzi di trasporto terrestri v. R. Giuffrida, Il problema della strade in Sicilia e la Casa di Soccorso per le opere pubbliche dal 1843 al 1888, in «Economia e Storia», I, 1968; inoltre V. E. Sergio-G. Perez, Un secolo di politica stradale in Sicilia, a cura di C. Trasselli, Caltanissetta-Roma 1962; infine il più recente O. Cancila, Viaggi e trasporti (secc. XVIII-XIX), in Storia della Sicilia, vol. IX, Palermo 1978, pp. 67 sgg. Sul traffico commerciale e marittimo dell’isola v. R. Battaglia, Sicilia e Gran Bretagna. Le relazioni commerciali dalla Restaurazione all’Unità, Milano 1983 e R. Romeo, Il Risorgimento cit., pp. 207 sgg., e di Messina in particolare R. Battaglia, Porto e commercio a Messina nei rapporti del console francese, inglese e piemontese (1840-1880), Reggio Calabria 1977.

[10] Il commento è di E. Estiller, cit. in R. Romeo, Il Risorgimento cit., p. 224.

[11] Sull’attività dei mercanti-imprenditori stranieri in Sicilia e sulle loro attività prevalenti cfr. R. Giuffrida, Aspetti dell’economia siciliana nell’Ottocento cit.; F. Brancato, L’industria in Sicilia cit. Sul più grande imprenditore straniero che operava nell’isola, l’inglese Benjamin Ingham, oltre Tina Whitaker-Scalia, Benjamin Ingham of Palermo, Palermo 1936, in chiave biografica, l’ampio saggio di I. D. Neu, An English Businessman in Sicily, 1806-1861, in «Business History Review», 1957 (31). Sui Florio e la loro vicenda imprenditoriale uno studio di carattere generale è quello di M. Taccari, I Florio, Caltanissetta-Roma 1967. Su particolari aspetti del ‘caso’ Florio si sono di recente soffermati R. Giuffrida, Un capitano d’industria dell’800. Vincenzo Florio (1799-1868), in «Economia e Storia», 1975; Id., Vincenzo Florio Governatore del «Banco Regio» di Sicilia, in «Annuario dell’Istituto Magistrale Pascasino», VIII, Marsala 1968-69; R. Lentini, La Fonderia Oretea di Ignazio e Vincenzo Florio, in «Nuovi Quaderni del Meridione», 1977 (57); per la ‘preistoria’ dei Florio v. ora l’ampio e documentato saggio di M. D’Angelo, Alle origini dei Florio, in «Nuovi Quaderni del Meridione», 1978 (64).

[12] Cfr. G. Cingari, Gli ultimi Borboni cit., pp. 38-9 e R. Romeo, Il Risorgimento cit., pp. 233 sgg. Sullo sviluppo della marina mercantile siciliana cfr. L. A. Pagano, L’industria armatoriale siciliana dal 1816 al 1880, in «Archivio Economico dell’Unificazione Italiana», serie I, vol. XIII, fasc. 3. Sulla produzione, al commercializzazione, i lavoratori dello zolfo v. F. Squarzina, Produzione e commercio dello zolfo in Sicilia nel secolo XIX, in «Archivio Economico dell’Unificazione Italiana», serie II, vol. VII.

[13] Per tutta la questione v. Discorso sull’agricoltura in Sicilia letto da A. Coppi all’Accademia Tiberina di Roma, 1837; A. Genoino, La Sicilia al tempo di Francesco I (1777-1830), Napoli 1914; R. Romeo, Il Risorgimento cit., pp. 176 sgg.; e il fondamentale N. Palmieri, Saggio sulle cause ed i rimedi delle angustie attuali dell’economia agraria di Sicilia, Palermo 1826, ora ristampato a cura di R. Giuffrida, Caltanissetta-Roma 1962.

[14] Cfr. G. Cingari, Gli ultimi Borboni cit., pp. 39-40 e la bibliografia ivi citata.

[15] Si possono distinguere tre correnti nell’emigrazione siciliana: una estremista e giacobina, che intendeva appellarsi direttamente al popolo e che chiedeva l’espropriazione dei beni dei borbonici, considerati nemici della patria; una corrente democratica moderata, guidata da Francesco Crispi, che si proponeva di porre alcuni validi limiti al moto; una terza di conservatori, che faceva capo al Torrearsa e che voleva la realizzazione dei comuni fini politici nel più assoluto rispetto delle forme tradizionali e della esistente struttura sociale; cfr. P. Alatri, Lotte politiche cit., p. 21; F. Brancato, Dall’Unità ai Fasci cit., pp. 91 sgg.; ma su tutto ciò S. F. Romano, I contadini nella rivoluzione del 1860 cit., assai ricco di indicazioni su questo momento della storia siciliana.

[16] A questo riguardo cfr. P. Alatri, Lotte politiche cit., p. 23; ma su tutto ciò ancora S. F. Romano, I contadini nella rivoluzione del 1860 cit.,; D. Mack Smith, The Peasant’s Revolt of Sicily ini 1860 cit.; Raccolta degli Atti del Governo Dittatoriale e Prodittatoriale in Sicilia, Palermo 1861; Cronaca degli avvenimenti di Sicilia da aprile 1860 a marzo 1861, Italia 1863; 1860. Documenti riguardanti la Sicilia (di parte borbonica), 1861; S. Corleo, Garibaldi e i Mille in Salemi, in «Nuova Antologia», IX, 1886; Id., Storia della enfiteusi dei terreni ecclesiastici di Sicilia, Palermo 1871; G. La Masa, Fatti e documenti della Rivoluzione dell’Italia Meridionale del 1860, Torino 1861; F. Crispi, I Mille, a cura di Palamenghi-Crispi, Roma 1911.

[17] Cfr. P. Alatri, Lotte politiche cit., pp. 23-4; su questo punto, oltre S. F. Romano, I contadini nella rivoluzione del 1860 cit., pp. 178 sgg., v. pure, per gli anni successivi al 1860, F. Brancato, Origini e caratteri della rivolta palermitana del settembre 1866, in «Archivio stor. sic.», 1953, serie III, vol. V. Su Saverio Friscia, ma anche sulle vicende del socialismo e del radicalismo siciliano prima e dopo l’Unità il sempre valido G. Cerrito, Radicalismo e socialismo in Sicilia (1860-1882), Messina-Firenze 1958.

[18] Sul carattere conservatore della Guardia nazionale nel 1848, cfr. A. Caldarella, La Guardia nazionale in Sicilia nel 1848, in «Atti del Congresso di studi storici sul ’48 siciliano», Palermo 1950, pp. 279-308; inoltre F. Brancato, Dall’Unità ai Fasci cit., pp. 91 sgg.

[19] Sui «precursori» dei Mille, Rosolino Pilo e Corrao, cfr. G. Paolucci, Giovanni Corrao e il suo battaglione alla battaglia di Milazzo, in «Arch. stor. sic.», 1899, pp. 210-48; F. Guardione, La spedizione di Rosolino Pilo nei ricordi di Giovanni Corrao, in «R.S.D.R.», 1917, pp. 810-44; U. De Maria, Pagine ignorate della vita di G. Corrao precursore dei Mille, estr. «Atti della R. Acc. di Sc., Lett. ed arti di Palermo», 1941; G. Falzone, Rosolino Pilo nel Risorgimento italiano, in «Arch. stor. sic.», 1948-49, pp. 7-261; G. Sunseri Rubino, Il primo dei picciotti: Rosolino Pilo, Palermo 1959.

[20] Per queste osservazioni G. Cingari, Gli ultimi Borboni cit., p. 71. Inoltre E. Casanova, Il comitato centrale siciliano di Palermo (1849-52), in «Rass. stor. Ris.», 1925, pp. 293-398; 1926, pp. 15-50; 1927, pp. 63-122.

[21] Dittatura della Sicilia 1860, «Raccolta degli atti del Governo dittatoriale e prodittatoriale in Sicilia 1860», Palermo 1861; Dittatura della Sicilia 1860, «Collezioni delle leggi, decreti e disposizioni governative compilata dell’avv. Nicolò Porcelli a cura del tipografo Carini», II, ed., Palermo 1861.