di Biagio de Giovanni - «Rinascita», a. XXXII, n. 26, 27 giugno 1975, pp. 31-32.

Il centenario di Giovanni Gentile, filosofo in ritardo e interprete di un regime politico reazionario.

1. È da qualche anno, ormai, che si va sviluppando e definendo un’attenzione nuova per la storia degli intellettuali italiani del novecento, guardata in non pochi saggi e interventi, con occhi diversi che nel passato; con l’attenzione, voglio dire, rivolta soprattutto al loro rapporto con la politica e con l’organizzazione civile della società nazionale. Che Eugenio Garin abbia avvertito l’esigenza di riunire in volume parecchi suoi scritti aventi ad oggetto quel tema; che Luisa Mangoni abbia guardato al rapporto intellettuali/fascismo – in un volume assai ricco, che per molti aspetti segna una rilevante novità nell’analisi dei problemi relativi a quella vicenda – attraverso l’intreccio di storia degli intellettuali e storia dello Stato; che interventi di impegno e di peso differenti – di Paggi, di Turi, di Racinaro e di altri ancora[1] - abbiano aggiunto, sul tema, spunti di idee e notizie; tutti questi elementi lasciano intravedere le linee di una ricerca che, pur se solo avviata, tende a spostare il terreno tradizionale di analisi, per addensarsi intorno alle linee concrete, di ricostruzione dell’esercizio di un’egemonia di classe. Il modo con il quale Gramsci ha guardato, nei Quaderni, al rapporto fra gli intellettuali e la società italiana, incomincia a diventare l’orizzonte vivo di una ricerca da approfondire e da portare avanti.
D’altra parte, su un versante diverso, con un taglio più tradizionale ma non per questo privo di indicazioni su quella che appare un’esigenza sentita, negli ultimi due-tre anni si son registrati interventi abbastanza costanti – e non certo spiegabili con la sola ricorrenza del centenario gentiliano che cade quest’anno – su Giovanni Gentile in particolare e su problemi relativi alla filosofia politica del Croce[2]. Anche per Gentile, del resto, l’attenzione tende a spostarsi, in modo prevalente, sull’orizzonte della politica. Credo che in un articolo dedicato ad una breve riflessione su Gentile, si possa tentare anzitutto di trovare una motivazione di questi atteggiamenti che hanno, come s’è visto, almeno un punto di convergenza.

2. Senza che sia possibile generalizzare il significato di una scelta tematica molte volte guidata da criteri non facili a individuarsi schematicamente, la mia impressione è che si vada facendo strada il convincimento – in se stesso, del resto, di significato non certo univoco – che nella dimensione politica di Gentile sia da rintracciare la possibile sua «modernità» e quasi il recupero di una sua attualità. A specificare il tema, dico francamente che non penso a letture paradossali come quella proposta, recentemente, da V. Mathieu sul Corriere della Sera: Gentile teorico ante litteram della contestazione. Nell’accennare alla dimensione politica, la individuo sotto un duplice aspetto: 1) quello che coglie il rapporto fra Gentile e la società italiana, la capacità che egli ebbe di comprensione di una crisi, gli strumenti che apprestò per la costruzione di un’egemonia; 2) quello che tocca più immediatamente lo sviluppo teorico del pensiero gentiliano in rapporto al tema della politica e dello Stato. Trasferire in questi confini – del resto assai ampi e ricchi di problemi – un interesse, oggi, per Gentile non credo che nasca da un’ossessiva riduzione di ogni brano di passato (e di presente) allo spazio offerto dalla lente del «primato della politica» quanto dalla persuasione – e qui la riflessione diventa più personale – che la «filosofia» di Gentile propriamente detta nasca già, fra 800 e 900, in un ritardo profondo rispetto ai tempi della cultura europea.
Questo ritardo si può provare a definirlo non tanto affermando, in generale, il carattere ristretto e per molti aspetti retorico-umanistico della «rinascita idealistica» di fine secolo e l’isolamento profondo che seguì per la cultura italiana, quanto fermando l’attenzione per un solo momento sulla incidenza che in un pensatore come Gentile ha il carattere sistematico e tradizionale della filosofia e la ricerca delle forme assolute del conoscere, pur se apparentemente negate dall’apparenza di fluidità dell’atto. Va detto con chiarezza: Gentile nasce come un filosofo che è in ritardo profondo e originario rispetto a quei livelli dell’esperienza europea che contribuirono a porre definitivamente in crisi – entro forme di coscienza costruite sui livelli di egemonia toccati dallo sviluppo capitalistico – l’immagine tradizionale della filosofia come sistema. Su altri versanti, è immediato il richiamo alle esperienze, pur così differenziate, di Max Weber e di Edmund Husserl.
La rilettura che oggi si possa fare dei testi gentiliani lascia, in questo senso, l’impressione di una vicenda ristretta, destinata ad essere vissuta nei confini di una società in cui la filosofia tout-court è ancora la forma ideologica diretta di unificazione della storia degli intellettuali.

3. Sul terreno della dimensione politica, il discorso da fare è tutto diverso. Preciserò alla fine il senso di questa affermazione che non giudico incoerente. L’idealismo come livello di unificazione della storia degli intellettuali risponde, in Gentile, alla individuazione di una strategia politica che offre una risposta possibile alla crisi italiana di quegli anni. Mi riferisco specificamente qui al modo come Gentile taglia, a questa altezza, il rapporto fra gli intellettuali e la politica. Ma in una veduta più complessiva, il riferimento – in questa fase preliminare di uno schizzo di ricostruzione analitica – andrebbe esteso al Croce, giacché sia Croce sia Gentile, attraverso la conquista della dimensione dell’etico-politico – in Gentile forse anticipata rispetto al Croce, e comunque spinta assai più avanti relativamente alla comprensione dei movimenti reali e dell’organizzazione degli intellettuali – conquistano il terreno dello Stato come il terreno di definizione dell’egemonia, e come il luogo di unificazione reale della storia della società e dei suoi intellettuali organici.
Vorrei tentare, su questo punto, qualche specificazione. Intanto, avvierei il discorso con un richiamo alla recensione che il giovane Togliatti scrisse nel 1919 alle pagine gentiliane di Guerra e fede. Togliatti metteva in evidenza proprio il modo in cui Gentile deduce la priorità dello Stato come luogo privilegiato di svolgimento della lotta politica e di costruzione della ragione concreta. «Ora l’attività nella quale culmina il dovere che nel dare ordine alla realtà crea sé e la sua legge, è la attività politica, i suoi scopi cerca esso di raggiungere soprattutto mediante la creazione dello Stato. Non vi è perciò nessun motivo per cui alcuno possa appartarsi dalla lotta politica, anzi, soltanto partecipando mediante essa, alla vita del proprio tempo, concorrendo in tal modo con il comune lavoro di tutti gli uomini, si può raggiungere la pienezza della personalità». L’urgenza polemica di queste pagine conduce subito Togliatti a chiedersi: dov’è oggi lo Stato?, e la sua risposta è, nel merito, profondamente lontana da quella di Gentile. Ma Gentile stesso aveva scritto – e scriverà anche dopo – che lo Stato non è il governo, bensì si ritrova in germe ogni volta che si costruisce e si ricompone il rapporto fra la comunità e l’autocoscienza. Dietro questa formula, si nascondeva un’attenzione reale sia ad una sorta di priorità del politico – che del resto Gentile afferma nel modo più esplicito proprio nell’opera postuma, ora ristampata, che ha per titolo Genesi e struttura della società – sia all’estremo allargamento del rapporto Stato-società, che già scontava la crisi senza ritorno della forma dello Stato liberale cui, nel frattempo, rimaneva fermamente legata la ricerca di Croce.
In questa chiave, e nella delineazione di questo problema, si può rileggere e recuperare in un suo significato «moderno» larga parte dell’itinerario di Gentile relativo al problema dell’organizzazione dall’alto della società e alla unificazione del «sociale» nel cielo generale dello Stato, vera forma dell’autocoscienza. A questo itinerario voglio ora appena accennare con un riferimento alle ristampe recenti di Sansoni che individuano punti-chiave di quella vicenda: 1897-1899: La filosofia di Marx; 1913: La riforma della dialettica hegeliana; 1920: La riforma dell’educazione; 1943: Genesi e struttura della società.
La dissoluzione del marxismo, negli scritti gentiliani di fine secolo, viene perseguita alla luce dell’individuazione del carattere subalterno della prassi economica, e della necessità di liberare, dal groviglio dell’oggettività, una dimensione generale del soggetto come prassi. Sintomatica, in questa direzione, la rilettura delle Glosse a Feuerbach, che par qui necessario richiamare come punto più definito di quella intuizione. E non solo: anche punto di avvio di una tradizione non semplicemente accademica, se da essa si muove la linea di Mondolfo e se, per tanti aspetti, il marxismo, come «filosofia della prassi» penetra nella storia anche politica della tradizione italiana, pur se in proposito andrebbe subito richiamato e definito il complesso intreccio di problemi che riconduce ad Antonio Labriola, all’orizzonte di lettura di Marx che il Labriola aveva in modo preciso fissato.
Ma ancora un momento su questo testo, e su quello che esso lascia intravedere del futuro Gentile. La rivendicazione del carattere generale del soggetto/educatore – l’individuazione della dialettica marxiana in questo schema: «educatore, educato, educato-educatore. Tale lo sviluppo necessario della prassi» - astraendo violentemente la prassi dall’oggettività, spinge già verso un sistema di dominio del soggetto. A questo livello, la priorità ancora inesplicata della politica si intravede attraverso la lente di un attivismo mistico che consente di tracciare quasi un arco ideale di continuità con il momento in cui tutto ciò si specificherà nella forma sia dell’impegno politico dell’intellettuale sia della funzione egemonica di uno Stato che trasforma la propria funzione sulla dimensione di massa della società contemporanea.
1913: Hegel riletto, anzi «riformato» da Gentile. Quella riforma «reazionaria» cui accenna Gramsci nei Quaderni. Perché reazionaria? La risposta è nel quadro generale in cui si muove. In essa si definisce teoricamente la concentrazione della dialettica nel soggetto, la sottrazione al processo di ogni logica obiettiva che non sia quella compresa nel dominio della mente. Una cesura profonda con Hegel e con le linee dominanti dello stesso hegelismo meridionale; un taglio, che staccando l’hegelismo dalla funzione che pure aveva esercitato in Italia di tramite per l’individuazione di una tradizione nazionale laica, e accentuando l’attivismo del soggetto-coscienza (più Fichte, più Gioberti che Hegel, come s’è ripetuto), s’avviava a rispondere alle esigenze emergenti del «giacobinismo» politico e, a un tempo, preparava il terreno alla unificazione della storia nel cielo della soggettività politica.
Il problema esplose senza reticenze nello scritto del 1920, nei discorsi ai maestri di Trieste sulla riforma dell’educazione; e giunse a conclusione matura nell’ultimo scritto su Genesi e struttura della società. Di mezzo, c’è l’adesione di Gentile a fascismo e la funzione egemone che egli svolse, almeno fino all’inizio degli anni 30; ma la continuità ideale non è spezzata, e ciò è indicativo dello sviluppo, nella società italiana fra il 1910 e il 1920, di forme di coscienza e di organizzazione della cultura entro le quali matura la successiva adesione degli intellettuali al fascismo. Lo scritto pedagogico del 1920 si può cogliere già tutto nell’individuazione netta di un rapporto «totalitario» degli intellettuali con lo Stato e nella concentrazione dell’educazione e della scienza nell’unità della nazione/Stato. Del concetto di Nazionalità del sapere e della scuola, Gentile accentua l’aspetto di «totalità» che spinge a chiudere nella comunità politica («forma dell’universalità») l’unico livello reale di costruzione della cultura e di formazione della personalità.
Qui è un elemento decisivo, che spinge a guardare più avanti, ai saggi del 1928 su Cultura e fascismo e ancora più in là, fino a Genesi. Non genericamente il tema dell’impegno politico dell’intellettuale, ma l’individuazione – in un’ottica definita dal trinomio Stato-filosofia-lavoro – di alcune linee di scorrimento della società nello Stato che rendono il discorso di Gentile profondamente organico all’esperienza di uno Stato reazionario di massa che si andava prefigurando nella crisi italiana degli anni 20. La collocazione dell’intellettuale rispetto alla costruzione di uno Stato in cui è concentrata tutta la potenza dell’eticità, e in cui la totalità è la forma generale del dominio («l’incontro dello Stato con la filosofia è reso necessario dalla natura etica dello Stato», scrive Gentile in una pagina di Genesi), s’incontra, da un lato, con una nuova dislocazione reale degli intellettuali rispetto alla dimensione di massa della società, e spinge, dall’altro lato, a promuovere un tipo d’incontro politica/intellettuali tendente «obiettivamente a collocare il loro ruolo nella prospettiva di una politica di massa», come ha scritto Leonardo Paggi.
In questa interpretazione del primato della politica («la politica in ogni forma di attività umana», scrive Gentile ancora in Genesi) è il senso della critica di Gentile alla vecchia forma dello Stato liberale, che rende il suo discorso presente e unificante in una fase intera della storia del fascismo (Mangoni scrive: fino al 1929, l’anno del concordato, ma va ricordato che Gentile fu in buona parte raccolto e interpretato da Bottai), e capace inoltre di battere, su questo versante, l’egemonia di un Croce rimasto legato all’ipotesi della vecchia destra storica.

4. È qui, dunque, l’attualità di un discorso su Gentile. È possibile che esso oggi sia riportato fortemente all’analisi di questo rapporto con la politica, che certamente lascia scorgere una veduta significativa per la storia degli intellettuali del 900. Che cosa significa, allora, registrare il carattere «arretrato» della sua filosofia senza cadere in una astratta separazione dei campi d’intervento? Credo che l’unità del discorso si ritrovi riflettendo sul modo specifico attraverso il quale Gentile celebrò il primato dell’etico-politico, combinando insieme l’esigenza vecchia di costruzione di un sistema, che lo collocava nella continuità di una linea già battuta pur dalla debole tradizione del positivismo italiano, con l’individuazione dell’unità dello Stato, come livello attualissimo di unificazione del sapere e spazio dell’egemonia: che fu pure una forma per esprimere il primato della politica nell’età dell’imperialismo. Ma se il fascismo, nei suoi caratteri più determinanti, visse in questa forma, Gentile fu espressione del significato storico di quel regime e contribuì a dargli unità e coerenza. La semplificazione e l’astrattezza ancora tutta «speculativa» nell’interpretazione del carattere produttivo della cultura, l’insofferenza e la disattenzione, ma – ancora meglio – l’incomprensione profonda per le forme teoriche e i metodi di analisi che pur s’andavano facendo strada in altri livelli dell’organizzazione capitalistica occidentale, riflettevano i caratteri dominanti del capitalismo italiano e le forme di mediazione del consenso per esso prevalenti, il legame di Gentile con un’interpretazione determinata del movimento fascista e del blocco di forze che ne era alla base, il suo rapporto organico con un tipo storicamente determinato di intellettuale – di cui egli esprimeva il «tipo» ideale – la cui dislocazione sul terreno della politica avveniva – pur in un livello «nuovo» quale quello che Gentile maturò – entro l’eredità oratoria e retorico-umanistica che quella figura, soprattutto nel Mezzogiorno, si trascinava con sé dalla dissoluzione della cultura tardo-romantica.
Ma qui il problema diventa diverso e si complica ancora. Si tratta di rappresentare l’ulteriore specificità del rapporto fra Gentile e la società (la cultura) italiana e, più a fondo, la funzione di organizzazione reazionaria delle masse intellettuali che quella filosofia ebbe negli anni del fascismo. Qui, la cultura fu anche fascismo. In questo senso, né il fascismo fu solo «anticultura», né la cultura fu semplicemente altro dal fascismo. Fuori da questa specificità politica, il discorso rischia di smarrirsi nei rivoli dell’individuazione astratta dei «caratteri» di un’ideologia.

Biagio de Giovanni

https://musicaestoria.wordpress.com/...fascismo-1975/


[1] G. Turi, «Il progetto dell’Enciclopedia italiana, l’organizzazione del consenso fra gli intellettuali». In Studi storici, XIII, 1972, pp. 93-152; L. Paggi, «Gli intellettuali nella rivoluzione antifascista» in Rinascita – Il Contemporaneo, settembre 1973, pp. 27-29; R. Racinaro, «Intellettuali e fascismo», in Critica marxista 1975, 1, pp. 177-214. Inoltre: D. Corradini, Croce e la ragion giuridica borghese, Bari, 1974; B. de Giovanni, «Il revisionismo di B. Croce e la critica di Gramsci all’idealismo dello Stato», in Lavoro critico, 1975, 1, pp. 131-166.

[2] H. S. Harris, La filosofia sociale di Giovanni Gentila, Roma 1973; S. Zeppi, Il pensiero politico dell’idealismo italiano e il nazionalsocialismo, Firenze, 1973; D. Faucci, La filosofia politica di Croce e di Gentile, Firenze, 1974; G. Capozzi, Individuo, società e Stato nella dialettica della politica come forza, Napoli, 1974.