di Alberto Scandone - «Il Contemporaneo», in «Rinascita», a. XXIXI, n. 13, 31 marzo 1972, pp. 20-23.
1. Negli ultimi anni si è registrata una crescita tumultuosa di idee ed ipotesi nuove e di riflessioni critiche radicali tra i teologi cristiani, molti dei quali hanno rimesso in discussione dottrine insegnate per secoli dalle Chiese, e ritenute sino a ieri essenziali. Jacques Maritain, un filosofo cattolico che negli anni ’30, ’40 e ’50 agiva da «novatore» (e rimasto poi disorientato e attardato di fronte agli sviluppi del post-concilio) ha detto che, in confronto a quello che scrivono oggi i teologi più arditi, le stesse posizioni moderniste dell’alba di questo secolo appaiono solo «moderatamente riformistiche». Rispetto alla salute (o all’ortodossia) della Chiesa, la differenza – secondo Maritain – sarebbe quella che passa tra un «raffreddore» (il modernismo) e «una polmonite» (la «nuova teologia» dei nostri giorni.
La verità, che un osservatore esterno può facilmente cogliere accostandosi al dibattito dei teologi contemporanei, è che siamo di fronte ad un travaglio per molti aspetti senza precedenti, dal carattere interconfessionale e dalle dimensioni teoretiche notevoli. Esso non si spiegherebbe senza tener conto dei rivolgimenti e delle conquiste della cultura e della storia moderna, di cui il movimento rivoluzionario è parte così larga e così influente, senza chiamare in causa il complessivo mutamento degli orizzonti umani intervenuto nell’ultimo mezzo secolo.
A questo proposito appare molto significativo che praticamente in tutti i pensatori di quella che chiameremo – con una prima e necessariamente imprecisa definizione – la teologia cristiana «di sinistra», sia dato di cogliere un modo profondamente nuovo di prospettare la posizione cristiana di fronte alle principali questioni teoriche che hanno sempre diviso il credente dall’umanista laico e dal marxista.
Quello a cui assistiamo è in effetti anche uno sforzo, assai impegnativo, di «risposta cristiana positiva» alle istanze umanistiche in generale, ed in particolare ai penetranti giudizi di Marx sulla natura delle religione come «coscienza del mondo rovesciata» e come riflesso di un «mondo rovesciato». Si potrebbe dire – con una osservazione verificabile per molti pensatori cristiani – che i teologi «di sinistra» si separano da quelli «classici» perché non difendono più la religione come «espressione naturale e inalienabile dell’uomo», o almeno non ne difendono quella che la filosofia hegeliana e posthegeliana chiamava l’«essenza», e perché condividono in pieno la aspirazione ad un mondo che non chieda al cielo la soluzione dei suoi diversi problemi: scientifici, politici, etici, ecc.
Per questo (con riferimento del tutto pertinente solo ad un gruppo di pensatori americani come Hamilton, Altizer e Von Buren) si è parlato persino di una teologia della «morte di Dio», dando adito a domande ben precise di una certa opinione pubblica: «Se Dio è morto, perché fare teologia?». E ancora: «In che cosa può consistere la specificità cristiana di un pensiero che fa propria la critica laica e umanistica della religione?».
Le diverse risposte fornite a questi interrogativi – che variano notevolmente da teologo a teologo – permettono di tracciare una sorta di sommaria carta geografica della «sinistra teologica», partendo dalle sue origini storiche, le quali, per quanto riguarda l’ambito culturale tedesco-riformato, racchiudono ancora tutti i termini essenziali del dibattito attuale.
Le premesse di Barth e Bultmann
È ben logico che le prime radici di tutto questo movimento di idee affondino nel terreno del protestantesimo, che prima e più largamente di quello cattolico ha subìto il «dissodamento» del contatto diretto con la cultura moderna. Si deve però aggiungere che una partecipazione impegnata (anche se, in genere, non estremistica) a questa ricerca di un cristianesimo non più collegato al «senso religioso» della vita e del mondo, è oggi propria di molti qualificati ed influenti teologi cattolici europei ed americani.
In campo protestante la distinzione netta tra fede cristiana e religiosità risale già alle forti pagine del grande teologo svizzero Karl Barth che, nel 1922, rilesse la Lettera ai Romani dell’apostolo Paolo in chiave di scoperta della distanza abissale tra Dio e l’uomo, una distanza non colmabile con le pratiche umane – e varie – della religione (rispetto alle quali, per Barth, poteva aver ragione e buon gioco la critica materialistica di Feuerbach), ma unicamente dalla fede nella rivelazione cristiana contenuta nella Bibbia. Il passo di Barth era in sé suscettibile di sviluppi dai riflessi umani e politici più vari. La sua stessa esistenza di antifascista e di pacifista coerente, nel corso di decenni di blocchi reazionari e di «crociate» per l’Occidente, ha largamente testimoniato della presenza di valenze progressive in una rottura così drastica tra il divino e l’umano. Il pensiero di Barth ha indubbiamente contribuito – nel vasto mondo influenzato dalla Riforma – a eliminare dalle catene degli oppressi i fiori mistificanti del pietismo religioso, e a privare l’ordine civile borghese di una parte almeno della tradizionale unzione sacrale. Il Cesare del Vangelo a cui era giusto pagare il tributo – precisava coraggiosamente il teologo svizzero nel primo convulso dopoguerra – poteva ben essere Lenin, mentre l’Anticristo non poteva che essere Hitler, il quale voleva imporre ai cristiani tedeschi l’apostasia dalla radici semitiche della loro fede, e cioè la proclamazione di un «falso Vangelo». D’altra parte – come hanno osservato dei marxisti così diversi tra loro come Lukács e Ernst Bloch – l’affermazione della assoluta trascendenza di Dio e della fondamentale incapacità dell’uomo a partecipare alla sua opera, fanno sì che il pensiero barthiano, anche nelle formulazioni più tarde tese a salvare una certa dialettica tra fede e storia, collochi le fatiche umane (quelle dello Stato come quelle della Chiesa) ad un livello assai basso, e finisca per legittimare ogni ripiegamento nel pessimismo irrazionalista tipico dell’esistenzialismo.
C’è comunque da rilevare che un cristianesimo tutto costruito sull’ascolto di una «parola di Dio» tratta (pressoché acriticamente) dal Vecchio e dal Nuovo Testamento, non poteva che presentarsi come dogmaticamente sordo ai rilevanti sviluppi della moderna critica biblica, alla rigorosa demitologizzazione dei testi sacri, avviata in questo secolo da Albert Schweitzer (fu proprio il celebre medico filantropo a sollevare nella sua brillante gioventù teologica i primi argomentati dubbi sulla «coscienza di sé» che Gesù ebbe come Dio!) e sistematicamente elaborata dal grande esegeta protestante Rudolf Bultmann nel corso degli anni ’40 e ’50 il quale tese a dare ai soliti nuclei filologicamente più «sicuri» dei Vangeli di Marco, Luca e Matteo il carattere di pure testimonianze (pressoché coeva ai brani più antichi delle lettere di Paolo) di ciò che le comunità cristiane dei primi tempi credevano e narravano sulla vita del Messia.
I nuovi orizzonti di Bonhoeffer
È toccato a Dietrich Bonhoeffer – pastore e teologo tedesco impiccato nel 1945 dai nazisti per la sua partecipazione rilevante alla Resistenza – il compito di sviluppare (essenzialmente negli estremi scritti della prigionia) il primo tentativo di ripensamento non religioso del cristianesimo fuori dagli schemi di Barth (da lui stesso definiti viziati da pessimismo e da una sorta di «positivismo della Rivelazione», cioè da un vincolo rigido alla lettera, ogni lettera, della Bibbia).
La raccolta delle sue ultime carte costituisce per i teologi radicali contemporanei di ogni tendenza la lettura più stimolante e suggestiva: la forza e, al limite, la ambiguità stessa di certe formulazioni scaturite da una intuizione cui la morte ha negato la possibilità di un completo svolgimento, hanno fatto di questo martire della Chiesa luterana e dell’antifascismo europeo, un «padre» e un «profeta» dalla influenza molto larga. L’ultima ricerca di Bonhoeffer è ben consapevole del punto di arrivo del dibattito del protestantesimo moderno e della stessa antitesi Barth-Bultmann. Nella importante lettera dell’8 giugno 1944 si legge che il maggior merito di Barth è stato quello di aver fatto «scendere in campo il Dio di Gesù Cristo» contro «la religione», mentre il suo limite maggiore è stato quello di non aver saputo far scaturire dalla Bibbia quella «interpretazione non religiosa dei concetti teologici» che sopra ogni altra cosa occorre trovare. Bultmann d’altra parte – aggiunge subito Bonhoeffer – compie un lavoro di critica del Nuovo Testamento che «sottrae» dal cristianesimo i suoi elementi mitologici, perdendone il senso: si deve invece considerare che il Nuovo Testamento «non è una vestizione mitologica di una verità generale» perché «questa mitologia (resurrezione, ecc.) è la cosa stessa». Il problema che Bonhoffer pone per andare oltre Barth e oltre Bultmann è dunque quello di una interpretazione di tutti i concetti che emergono dai Vangeli, realizzata «in una maniera che non presupponga la religione come presupposto della fede».
Bonhoeffer nota che «l’uomo ha imparato a cavarsela da solo in tutte le questioni importanti senza ricorrere all’ipotesi di lavoro: Dio». Si tratta di un lato scontato nelle questioni scientifiche, artistiche ed anche etiche. Dopo aver capitolato in tutte le questioni mondane, in seguito alla vittoria del movimento per l’autonomia dell’uomo inaugurato verso il XIII secolo, l’apologetica cristiana si àncora ormai alle cosiddette «questioni ultime» (la morte, la colpa, ecc.) per rilanciare le quali occorre però persuadere gli uomini della precarietà estrema della loro condizione. Bonhoeffer descrive con tratti assai felici lo sforzo di un certo pensiero religioso decadente e borghese destinato a sviluppi anche negli anni successivi alla sua morte: «Arrivano le filiazioni secolarizzate della teologia cristiana, la filosofia dell’esistenza e gli psicoterapisti, che dimostrano al mondo, sicuro e soddisfatto di sé, felice, che in realtà è infelice e disperato e che non vuole ammettere di trovarsi in un vicolo cieco da cui non sa uscire e dal quale essi soltanto potrebbero salvarlo. Dove c’è salute, forza, sicurezza, semplicità essi fiutano il dolce frutto cui attaccarsi per roderlo o deporvi le loro uova malefiche…».
Ma per il padre della teologia radicale questo tentativo non ha raggiunto e non potrà raggiungere che «un piccolo numero di intellettuali, di degenerati, di personaggi che ritengono se stessi la cosa più importante del mondo, e che quindi si occupano con grande piacere di se stessi. L’uomo semplice, che passa i suoi giorni tra casa e lavoro, senza dubbio con ogni sorta di deviazioni, non ne viene toccato. Non ha tempo né voglia di occuparsi della propria disperazione esistenziale, e di prendere in considerazione la sua forse modesta felicità sotto l’aspetto del vicolo cieco, della preoccupazione o della sventura». Bonhoeffer giudica la manovra contro l’uomo moderno assurda (perché gli sembra «un tentativo di ricondurre alla pubertà un individuo ormai uomo»), scadente (perché «si tenta lo sfruttamento delle debolezze di un uomo a un fine che gli è estraneo, e che non ha sottoscritto liberamente»), non cristiana (perché «Cristo viene scambiato per un determinato grado di religiosità umana, quanto dire con una legge umana»).
È sul terzo rilievo della polemica bonhoefferiana che si appuntano, ovviamente, gli interrogativi maggiori. Qual è il Cristo della nuova proposta? Gli accenni delle lettere dal carcere sono solo embrionali, e mettono l’accento su certe «facce nascoste» della narrazione dei Vangeli, e soprattutto sul fatto che i seguaci di Gesù non aderiscono ad una determinata pratica religiosa e non pensano di fare di se stessi qualcosa (un peccatore, un penitente, un santo) ma si lasciano trascinare «sul cammino di Gesù Cristo nell’evento messianico» dimenticando «i propri problemi, peccati, angosce». E difatti, osserva Bonhoeffer, la metanoia cristiana non ha niente di religioso, cioè di collegato al senso schiacciante dell’onnipotenza di Dio e della miseria dell’uomo, almeno in una serie di episodi evangelici (dalla conversione di Zaccheo, «all’atto – dove è assente qualsiasi confessione di colpa – della grande peccatrice», all’incontro con il centurione di Cafarnao, con l’eunuco, con Natanaele, con Giuseppe di Arimatea, con i re Magi, personaggi questi che «sono tutto fuorché creature sull’orlo dell’abisso»).
Le controversie interpretative sono nondimeno quanto mai aperte, ma a noi pare più corretto, almeno sulla base delle testimonianze abbondanti che abbiamo della preghiera del teologo negli ultimi mesi della sua vita, riconoscere che il suo messaggio è inclusivo di una tensione dialettica tra identificazione nel mondo secolarizzato, e identità cristiana di carattere escatologico (cioè fatta solo di fede stimolante nella resurrezione finale, nel senso ultimo e cristiano della storia, scevra quindi di riverenze, inibizioni, limitazioni ed apologetiche di carattere tradizionale). Forse il miglior testo di spiegazione delle pagine che fondano, in senso proprio, la teologia radicale è costituito da questo brano bonhoefferiano del 21 luglio 1944: «Non homo religiosus, ma uomo, semplicemente, è il cristiano, come Gesù – a differenza certamente del Battista – era uomo. Non il piatto e banale essere di questo mondo degli illuminati, degli indaffarati, degli indifferenti, dei lascivi, ma il profondo essere di questo mondo che è pieno di disciplina e in cui la conoscenza della morte e della resurrezione è in ogni momento presente. Lutero è vissuto, io penso, in questa mondanità».
La spinta che proviene da questo filone teologico – anche nelle sue espressioni più recenti – è infatti fedele al senso del motto luterano del «via dal chiostro!» che esso approfondisce fino a consumare gran parte dei residui «sacrali» del pensiero di Lutero, e fino ad assumere atteggiamenti e posizioni proprie della critica della religione successiva alla Riforma. Non si può non rilevare però che «l’uomo moderno» che Bonhoeffer raggiunge e pienamente ascolta, ha compreso soltanto la rivoluzione borghese, di fronte alla quale si definisce come un figlio coerente e come un fautore radicale dei suoi programmi originari. Il suo «umanesimo» è quello di una «coscienza privata», inconsapevole della portata decisiva della lotta tra le classi nell’età dell’imperialismo.
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