Prima di tutto, per incidere in quel momento storico, era necessario combattere, avere coscienza che la guerra da fare era quella per la liberazione nazionale. Perciò bisognava respingere lo schematismo di una guerra di classe (lo schematismo classista avrebbe precluso la funzione egemonica della classe operaia), capire che la funzione della classe operaia non era quella di determinare, e tanto meno di scegliere, un’altra guerra ipotetica, ma quella di assumere una funzione di primo piano, di direzione e di partecipazione alla guerra di liberazione come forza capace di attrarre altre forze. Alla classe operaia e al suo partito si poneva così il problema dell’unità democratica e antifascista che poteva essere raggiunta superando lo schematismo e aiutando, per esempio, repubblicani e azionisti a superare quel settarismo che li portava ad anteporre il problema istituzionale a quello, per noi – e non solo per noi – essenziale, della priorità della guerra contro i tedeschi e i fascisti da combattere insieme a tutte le forze che in Italia potevano combatterla e che in altre parti del mondo da tempo già combattevano.
Richiamarsi alla funzione egemonica della classe operaia in un vasto movimento nazionale di unità democratica e antifascista, voleva dire naturalmente porsi il problema dell’unità di classe e quindi, da una parte, meditare sulla tragica esperienza del primo dopoguerra, riflettere su quanto era costata la divisione e, dall’altra, rifarsi all’esperienza del fronte popolare e del patto di unità d’azione tra comunisti e socialisti. Si trattava soprattutto di riconoscere la realtà nuova nella quale i comunisti si erano impegnati. Era una realtà, per tanta parte, determinata dalla presenza del mondo cattolico, che aveva conservato non solo le sue tradizioni, ma anche una sua organizzazione, la sola che avesse potuto vivere una sua vita organizzata parallelamente al fascismo. Mentre altri considerava questa esistenza parallela solo un fatto da «condannare», per noi esso significava una realtà con la quale era necessario fare i conti. E bisognava fare i conti anche con ciò che il fascismo aveva creato, nel paese, con le sue organizzazioni, con la sua attività nel campo dell’educazione della gioventù e, quindi, porsi il problema del recupero dei giovani, e anche dei non più giovani, che il fascismo aveva conquistato. I comunisti si trovavano a lavorare in una situazione di crisi nuova: non bastava più una presa di posizione, un manifestino, una mano tesa; non bastava più una politica che trovasse qualche interlocutore, e non bastava più neppure un richiamo ai fascisti sul terreno della riconciliazione nazionale come era avvenuto qualche anno prima, ed era sembrato retorico e velleitario, ma era necessario riconoscere tutti i momenti di una situazione nuova, in cui questi problemi offrivano nuove, diverse e più ampie e concrete possibilità di lavoro. Affrontandoli, se ne coglieva tutto il significato. I comunisti si trovavano di fronte a una realtà che essi erano pronti a esplorare, ma via via che la esploravano si trovavano di fronte alla necessità di una nuova elaborazione politica che insegnava loro ciò che ancora non sapevano. Il partito comunista fu il più pronto a intendere e ad apprendere nell’impatto con la nuova realtà.
Questo è dunque il quadro d’insieme nel quale i comunisti si trovano ad operare nel momento della Resistenza: che ha inizio con l’8 settembre, ma che può già contare sull’esperienza dei quarantacinque giorni di Badoglio, su quel breve periodo in cui il partito si presenta di nuovo alla luce del sole sia pure con un numero di aderenti che non supera i quindici-ventimila. Ma proprio nel momento in cui ha inizio la Resistenza, si può constatare come il partito possa contare su un elemento che lo pone immediatamente in prima fila. I comunisti, è vero – come spesso ha detto Ferruccio Parri -, sono un’avanguardia di ufficiali e di sottufficiali, ma soprattutto sono una forza che ha già maturato la profonda convinzione che la Resistenza si può attuare come movimento di massa e soltanto come movimento di massa. Perciò essi sono subito in azione ovunque possano incontrarsi con forze che, fino a quel momento, non si erano manifestate. I comunisti, che erano stati relegati ai margini e isolati, si trovano di colpo a operare in mezzo a grandi masse, in un nuovo spessore della realtà italiana. Qui l’accento torna sui cattolici, sulla Chiesa, e sui contadini, che del mondo cattolico erano tanta parte. Noi non pensammo allora che vi fossero, per la Resistenza, delle zone «bianche» solo perché influenzate e anche organizzate dalla Chiesa; non pensammo che vi fossero zone sorde al richiamo della Resistenza: pensammo invece che il mondo cattolico, con le sue organizzazioni, e gran parte della Chiesa stessa sarebbero stati disposti a combattere o ad aiutare. Nella realtà, verificammo che in queste masse c’era disponibilità a lottare per una riscossa nazionale che avesse per obiettivo la democrazia.
Un discorso analogo si può fare per le generazioni influenzate dal fascismo. I comunisti furono capaci di far loro da maestri, ma seppero anche, quando era necessario, imparare da loro. La guerra partigiana reclutò i suoi combattenti e i suoi quadri non solo tra coloro che avevano combattuto in Spagna dalla parte della Repubblica, o tra coloro che avevano organizzato la lotta clandestina, ma anche tra quanti avevano imparato a organizzare e a fare la guerra militando nell’esercito e nelle organizzazioni fasciste. Non ci presentammo come missionari, ma come politici capaci di cogliere l’essenziale in un processo che in tanti avevano già raggiunto la svolta della consapevolezza e che in tanti altri si svolse fino alla maturazione durante la lotta. La classe operaia poteva affermare la propria egemonia soltanto se riusciva ad afferrare la prospettiva del processo storico, a presentarsi come classe nazionale e a fondare una politica di alleanze. In mancanza di questa politica, vi sarebbe stata contrapposizione là dove era possibile la collaborazione, e i comunisti sarebbero caduti in un isolamento che avrebbe loro precluso la possibilità di agire come protagonisti.
Se è vero che la Resistenza poteva realizzarsi solo come movimento di massa, il primo compito del movimento operaio e del partito comunista era dunque quello di fondare una politica di alleanze che allargasse la partecipazione delle masse alla lotta. A questo punto, ecco porsi con evidenza il problema della democrazia e dell’unità. I comunisti furono i promotori del Comitato di liberazione non come semplici luoghi di incontro ai vertici tra i partiti, e tanto meno come luoghi di incontro di notabili, ma come punti di partenza di un processo in atto, che restituiva o dava per la prima volta una coscienza nazionale a masse che non l’avevano avuta, o l’avevano concepita in modo distorto, se non subita come una sorta di costrizione. Ne consegue che quando i comunisti affrontano il problema dell’unità e della democrazia, non parlano del dopo, ma della necessità della democrazia per il lavoro e per la lotta quotidiani. Del resto, la democrazia, in quel momento, era il solo strumento per organizzare una guerra che permettesse una reale partecipazione delle masse. E questo è il carattere specifico della partecipazione dei comunisti: il partito comunista è l’anima della democrazia che si va affermando nel nostro paese. È una democrazia che, in parte, si riafferma, ma che per quegli strati della nostra popolazione che non l’avevano conosciuta sotto nessuna veste, si afferma per la prima volta. Perciò i comunisti si adoperano per l’articolazione dei Comitati di liberazione in tutto il paese, nelle città, nei borghi, nelle frazioni, nei quartieri, nelle fabbriche. Il loro obiettivo è quello di immettere nella vita nazionale una unità articolata, un pluralismo effettivo. È significativo che, in gran parte delle fabbriche, i comunisti vadano a cercare gli altri partiti perché si costituisca il Comitato di liberazione. Altrimenti, ci sarebbero state soltanto le cellule comuniste. Analogamente essi sono per i «comitati di agitazione» e, non appena è possibile, per l’organizzazione del movimento sindacale e, infine, per la partecipazione alla lotta, in modo unitario ma autonomo, delle donne e dei giovani, che non avevano mai partecipato alla vita democratica del paese. Mentre per altri la democrazia consiste soltanto nel rifarsi al modello prefascista, per i comunisti la democrazia è partecipazione continua, giorno per giorno, alla costruzione di un regime democratico contrassegnato dal pluralismo e dall’unità.
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