Gli azionisti
di Enzo Santarelli - «Il Contemporaneo», in «Rinascita», a. XXXII, n. 17, 25 aprile 1975, pp. 32-34.
Un solo partito antifascista, il Partito d’Azione, così immerso nella Resistenza da esserne ritenuto se non il principale protagonista il più emblematico e nobile da una tradizione storiografica che ne ha ereditato lo spirito, si è dissolto poco dopo la prova del 25 aprile, nella crisi degli schemi unitari del Cln, all’indomani della fondazione della repubblica. A differenza delle altre formazioni pur confluite nel Cln (la Democrazia del lavoro era piuttosto un movimento senza struttura di partito e per di più prevalentemente meridionale) gli «azionisti» si erano raggruppati e dati un programma, sulla base della precedente tradizione di Giustizia e Libertà e del liberalsocialismo, nel corso del 1942: un partito anagraficamente giovane e nato per la lotta. Ma già nel corso del ’44 si determina nel suo seno un sintomatico e decisivo divario fra l’ala democratica e l’ala socialista, per cui la storia istituzionale del partito non abbraccerà che il periodo dal ’42 all’inizio del ’47, quando la maggior parte dei suoi militanti farà il suo ingresso nelle file socialiste. Emilio Lussu scriverà che era un partito «costruito in pieno fascismo e allineato agli altri partiti dell’opposizione al regime»; ed Elena Aga Rossi osserva e ribadisce che «il Partito d’Azione, come Giustizia e Libertà, si costituì perché vi era il fascismo». Può sembrare poco ed è già moltissimo: un dato di fatto preliminare, a cui conviene attenersi. Quando il problema del fascismo da combattere a viso aperto si allontana, e cominciano a predominare le questioni della direzione politica del paese, l’unità della tradizione giellista si dissolve rapidamente.
Elena Aga Rossi sostiene che la svolta di Salerno «rappresentò una grossa sconfitta per la linea del Partito d’Azione, che nel rifiuto di ogni continuità con lo Stato prefascista e nella condanna – sorretta da una esigenza morale – di ogni forma di compromesso con le forze del vecchio ordine vedeva la premessa necessaria all’attuazione di una rivoluzione democratica e la prima garanzia delle istituzioni che essa avrebbe generato». La svolta di Salerno – e in definitiva il confronto con i partiti «storici» italiani – avrebbe dunque dimostrato «l’astrattezza e la debolezza della impostazione politica del partito, che non accettò d’inserire la sua azione dell’ambito delle effettive condizioni del paese e dei limiti imposti dagli alleati, ma cercò costantemente di agire sulla situazione secondo considerazioni più moralistiche che politiche». Secondo questa tesi, in linea principale, la crisi del Partito d’Azione sembra derivare in primo luogo da una iniziativa esterna, che muove dal campo comunista e toglie spazio agli azionisti, in secondo luogo dalle contraddizioni interne, dai limiti peculiari del partito, ma sempre nell’ambito di un ruolo storico fissato dalla presenza del fascismo: abbattuto il regime, le ragioni politiche di sopravvivenza e rinnovamento della compagine azionista non hanno più presa nella società italiana, e la tradizione di Giustizia e Libertà, fondata nel 1929 intorno a Carlo Rosselli, si disperde in più rivoli. Ne discenderà tuttavia una molteplice scuola di critica politica, economica e storica, che giunge fino a noi, con le necessarie e inevitabili trasformazioni imposte dal procedere dei tempi.
Ma quale è stato il ruolo del Partito d’Azione e dei suoi ascendenti ideali e politici, della sua aggregazione sociale, nel quadro del processo rivoluzionario antifascista? Leo Valiani ha giustamente sottolineato che «la storia delle origini e della nascita del Partito d’Azione è anche la storia della politicizzazione d’un gran numero di intellettuali italiani durante il fascismo»; ed ha precisato che, al tempo del liberalsocialismo (grosso modo fra il ’37 e il ’42) si trattò di una «politicizzazione etica, socialmente progressista». A partire dal ’29, Giustizia e Libertà raccoglie ed unifica le correnti liberaldemocratiche di sinistra dell’ex-opposizione aventiniana battuta dal fascismo: da allora, fino alla guerra di Spagna, esperienza per tanti versi risolutiva, gli uomini di Giustizia e Libertà, pur nella polemica e nell’emulazione con l’ala comunista (e socialista) dell’antifascismo, costituirono un gruppo e una rete cospirativa improntati ad un forte attivismo. Negli anni della crisi mondiale e dell’espansione fascista su scala europea, Giustizia e Libertà rifletteva la radicalizzazione, insieme programmatica e volontarista, dei vertici dell’intellettualità italiana. Di qui l’incontro con il «liberalsocialismo» di Guido Calogero e Aldo Capitini, stadio transitorio di questa radicalizzazione, che erodeva e tendeva a superare i limiti conservatori e tradizionalisti dell’idealismo gentiliano e crociano, mentre Giustizia e Libertà raggiungeva le sponde di un socialismo non marxista, fortemente polemico nei confronti dei partiti operai tradizionali. Ma proprio in ciò consisteva la originalità dei due movimenti, dal cui intreccio doveva nascere il Partito d’Azione. Ad accrescere l’eterogeneità di queste più corpose e centrali derivazioni, non si possono d’altra parte tacere i contributi più lontani e gli ingrossamenti successivi: l’associazione «Italia libera» e il Non mollare di Salvemini e Rosselli, connessi all’opposizione degli ex-combattenti, in cui si colloca la presenza di Ferruccio Parri; il piccolo gruppo ma qualitativamente importante di Ferdinando Schiavetti e dei repubblicani-socialisti; l’impatto con le élites più aggiornate ed attive dei repubblicani storici rimasti nella penisola, a contatto ravvicinato con un certo ambiente popolare. Si tornava, per questa via, al di là dei programmi socialistici, delle influenza laboriste e dirigiste che erano un portato della crisi occidentale a più precise radici nazionali, al ceppo del democratismo illuminato ed avanzato quale era apparso in Italia fra Giolitti e Mussolini. Parri, cui toccò il momento di più alta rappresentatività del Partito d’Azione come uno dei capi del Cvl e come presidente del governo uscito dal 25 aprile, si raccordava all’esperienza dell’ex-interventismo democratico e antifascista.
Nello schieramento delle opposizioni, nella preparazione di un’alternativa democratica, gli azionisti ed ex-giellisti venivano quindi a costituire una sorta di cerniera fra il movimento operaio classico, di impostazione marxista, e quei gruppi moderati, liberali e cattolici, che nel 1943 sarebbero riapparsi in forze sulla scena e nella lotta politica. Lo stesso nome di «Partito d’Azione», allora prescelto, non solo rievocava e attualizzava una tradizione risorgimentale, ma per un verso insisteva sul patrimonio attivistico e volontarista già sperimentato da Giustizia e Libertà, per l’altro metteva in ombra le dispute ideologiche e le incertezze politiche che ancora gravavano e avrebbero continuato a gravare sempre più sul suo programma, inizialmente steso da Ugo La Malfa. Lussu testimonia che la confluenza degli elementi giellisti, al loro rientro in Italia, alla immediata vigilia della lotta armata, avvenne non senza la consapevolezza di un dissenso rispetto a quel programma, che pure non escludeva alcune basilari ma limitate nazionalizzazioni. Era appunto il momento dell’azione, e il dissenso rimase latente. Il primo compito non poteva non essere ormai quello di dare il via alla presa delle armi, innestandovi i compiti più immediati della lotta politica. La stessa affluenza del quadro intellettuale preparatosi nei gruppi liberalsocialisti non avvenne senza discussioni e riserve; da Firenze uscirono infatti alcune puntualizzazioni al primitivo programma, che ponevano al centro della cornice democratica un più saldo nucleo di riformismo sociale. Partito dunque di estrazione medio e piccolo borghese, ma con una ideologia che si prestava a notevoli divaricazioni. Valiani sottolinea la modernità dell’impianto lamalfiano, fatto esperto dalle elaborazioni programmatrici dell’economia keynesiana; tanto che giungerà a parlare di «eccezionale modernità, per quel periodo, del suo meridionalismo». Posizioni che forzavano la mano al capitale finanziario, collocandosi alla sua sinistra, nell’ipotesi ancora lontana di una revisione e modernizzazione delle sue politiche. Per contro, Lussu, che era stato e rimaneva il teorico di Giustizia e Libertà dopo la morte di Rosselli, rappresentava nel partito l’ala socialista. «Contro il fascismo italiano non c’è, in prima linea, che una classe: il proletariato; che una tattica: la rivoluzione», aveva scritto nel 1936, prima della guerra civile di Spagna, in capo alla sua Teoria dell’insurrezione.
La disponibilità di un notevole quadro intellettuale e la molla rivoluzionaria e intransigente del partito costituirono la forza principale dell’azionismo nel ciclo della resistenza armata, una forza che gli consentì di orientare le minoranze più generose ed avanzate del ceto medio nella rivolta patriottica contro l’oppressione nazifascista. Il rovescio della medaglia era dato ciononostante da un accentuato radicalismo dalle scarse basi di massa, che contribuiva, quasi istintivamente, a coprire il divario fra una base sociale piccolo-borghese ed un programma ad indirizzo socialistico. E tuttavia questa organica dialettica, giustificata dalle contingenze in cui il partito era sorto e dagli obiettivi che si era dato fra il 1942 e il 1943, doveva consentirne una relativa espansione in quegli ambienti capaci di abbracciare ed elaborare i presupposti di una prospettiva repubblicana e rivoluzionaria. Di qui un duplice scontro: interno ed esterno al partito, e l’immedesimarsi del destino di questo con le antinomie proprie della società italiana; in definitiva il Partito d’Azione si rivolgeva essenzialmente ai ceti medi, ipotizzandone una quasi illimitata egemonia nella rivoluzione antifascista. L’Italia del ’43-’45 era, nell’insieme un paese arretrato, gravato da una questione meridionale non connessa allo slancio rivoluzionario del Nord, artificiosamente chiuso dalla dittatura fascista nell’involucro di una esperienza e cultura di massa in cui prevaleva il tratto provinciale, e sul quale pesava, oltretutto, l’ipoteca degli alleati. Il nuovo partito, in queste condizioni, rappresentava il meglio di una cultura urbana, molto più avanzata di un ceto medio ancora spoliticizzato e conservatore, e rispecchiava nel suo seno questa fondamentale contraddizione.
Uomini come Lussu, Trentin, Dorso Galimberti meglio di altri avrebbero potuto rivolgersi agli strati più disponibili delle masse contadine nelle rispettive regioni, e in un certo senso in essi si ritrova qualche elemento di questo tipo; ma i programmi e soprattutto la prassi del Partito d’Azione per le ragioni indicate non si orientavano certo verso una riforma agraria capace di dare vita a nuove e diffuse forme di democrazia rurale; al massimo, con Dorso, rivive la polemica interna ai ceti medi, di origine salveminiana e raccordata allo schema della Rivoluzione meridionale, che mirava a spezzare nelle sovrastrutture il cordone ombelicale del vecchio trasformismo clientelare trapassato nel fascismo. Bisogna, a questo proposito, fare un passo indietro e tornare alle origini culturali del Partito d’Azione, del liberalsocialismo, e della stessa Giustizia e Libertà, alla matrice laica di tutti questi movimenti sviluppatisi l’uno nell’altro sulla base di un’esperienza fortemente caratterizzata dal patto fra Stato e Chiesa stretto nel ’29 con la mediazione del regime fascista; alle delusioni provocate dall’Aventino e radicalizzate nelle istanze e pregiudiziali repubblicane delle sinistre democratiche che si erano disperse negli anni venti, da cui doveva rinascere una nuova classe politica di cui si postulava la centralità; al distacco sociale che negli anni trenta continuava a dividere profondamente gli intellettuali ormai avviati all’impegno politico e sociale dalle grandi masse del popolo e dalle stesse avanguardie proletarie già politicizzate. Soltanto Lussu, in questo senso, con la sua esperienza sardista, faceva eccezione. Di qui una caratteristica eminente della prassi politica degli azionisti, il loro accentuato programmismo, che si scioglierà soltanto in parte nella cospirazione e quindi, soprattutto, nel momento dell’azione diretta, nell’impatto, già preannunziato dall’esempio di Rosselli, con le esigenze immediate dell’organizzazione armata, dell’insurrezione nazionale. I programmi del partito ponevano in primissimo piano, nella loro ispirazione e nell’azione condotta in seno al Cln di Roma e di Milano, il momento di una rottura senza ritorno e senza compromessi con lo Stato monarchico. Un riflesso di queste posizioni, come del socialismo autonomo e federalista che era stato una caratteristica precipua di Giustizia e Libertà, è nella configurazione del nuovo ordine repubblicano, che infatti sarà incentrato sulle autonomie. E anche questo sarà un contributo peculiare, anche se non esclusivo, del Partito d’Azione alla svolta o al tentativo di svolta democratica, che lascerà la sua impronta sul processo antifascista di rinnovamento della società italiana e dei suoi istituti. Più spiccato, in tal senso, l’apporto della sinistra del partito e dei gruppi meridionalisti; ma istanze analoghe – con accenti e formule diverse – erano condivise e scontate anche dalle altre frazioni.
Ma la formidabile contraddizione in cui gli azionisti si vennero a trovare nel paese, praticando la linea quasi pregiudiziale di una totale opposizione alla monarchia, finiva col riflettere il loro isolamento in parte dalle grandi masse che si liberavano dalla gabbia del regime, in parte dal processo di riorganizzazione del movimento cattolico, e dei partiti socialista e comunista. Forse le stesse istanze di tipo giacobino sulla questione istituzionale erano un derivato di questa singolare e pur necessaria e comprensibile collocazione del partito fra gli schieramenti prima di tutto sociali del paese. Così, nel corso dell’azione e della lotta politica, mentre il radicalismo repubblicano non poteva non riscuotere, specie nelle condizioni create dagli eventi dell’8 settembre e dalla fuga di Pescara, un successo immediato relativo, ponendo anzi in difficoltà le diverse o avverse posizioni degli altri partiti antifascisti, l’incertezza fondamentale sul piano del programma e quindi del metodo e dei mezzi per realizzarlo rimaneva intatta, intrinseca alla natura del partito. Tendeva a sfuggire la possibilità di una più chiara scelta di campo: almeno nel senso che per un partito nuovo, nato per combattere il fascismo e «costruito in pieno fascismo», si riproponevano – tutte insieme e talvolta confusamente – le classiche alternative fra riforme e rivoluzione, fra rivoluzione liberale, se si vuole, e socialismo libertario, fra penetrazione molecolare nei ceti medi più avanzati ed espansione negli strati più accessibili degli operai e dei contadini.
L’accentuata tensione programmatica, che mirava ad una «rivoluzione dello Stato» per opera delle sinistre, ma con una ambiziosa funzione di pilota, lo spirito di emulazione che ne derivava con le risorte formazioni della sinistra operaia e marxista, il cui ruolo Rosselli e i liberalsocialisti avevano dato troppo presto per invecchiato e superabile, e la stessa alleanza antimoderata, che nonostante i contrasti tattici e teorici, era venuta emergendo almeno agli occhi dell’opinione pubblica, tendevano a dislocare il partito piuttosto verso il campo della classe operaia che non ad ancorarlo ad un lavoro molto più improbo, e che forse alla fine avrebbe potuto risultare più efficace e meno effimero, nel campo del ceto medio da riscattare e inquadrare in una duratura e stabile prospettiva democratica. D’altra parte, sia la democrazia cristiana per la sua ideologia interclassista, sia i socialisti per certe tradizioni risalenti al prefascismo, sia infine i comunisti, ormai orientati verso la costruzione di un partito di massa di tipo nuovo (che era non soltanto il corollario ma il punto chiave della svolta di Salerno) si presentavano sul fronte dei ceti medi in aperta concorrenza. La questione delle alleanze strategiche, in termini politici, fu invece negletta o non risoluta: l’accento batteva piuttosto sull’intransigenza che sulla conquista, sull’accelerazione dei tempi che sulla costruzione organica, e di lunga durata di un complessivo schieramento di classe, all’interno del quale il partito avrebbe potuto definire meglio le sue basi. Una riprova di questo travaglio, che poi si dimostrò non superabile, oltre che nei dibattiti di tipo congressuale, è nei tentativi di impianto della questione operaia. Dal punto di vista teorico fu fatto uno sforzo per ricollegarsi a istanze autonomistiche e consiliari, fu dato rilievo, sull’Italia libera, agli scioperi del ’43 e del ’44, si cercarono e in parte si realizzarono collegamenti con gli ambienti operai di fabbrica (da cui l’esperienza di Voci d’officina che riprendeva la testata torinese del ’31) specialmente nel Nord; ma una debolezza grave consisté alla fine nella mancata individuazione di una sfera propria nel campo sindacale. Da un lato gli azionisti si trovarono esclusi dalla ricostituzione della Cgil, dall’altro tentarono nel Mezzogiorno liberato a Napoli, di convogliare sotto la loro egemonia, in un effimero esperimento, le tendenze marginali del vecchio movimento operaio, che erano riaffiorante, scambiandole per un fermento rinnovatore.
Nonostante queste difficoltà e oscillazioni, in parte di natura politica in parte condizionate da un oggettivo contesto sociale, il Partito d’Azione conquistò di slancio un posto di avanguardia nella lotta armata come nella lotta ideale che animarono la Resistenza: nella prima fu secondo soltanto ai comunisti, nonostante la sua più debole consistenza numerica e organizzativa, nella seconda si distinse proprio grazie al suo radicalismo istituzionale che lo oppose, nella grande maggioranza, con l’eccezione significativa degli azionisti meridionali, al primo governo Badoglio di unità nazionale, e lo fece poi allineare ai socialisti nell’opposizione al secondo governo Bonomi. Furono comunque gli azionisti, in seno allo schieramento del Cln, a privilegiare la questione della repubblica su ogni altro obiettivo intermedio o strategico del movimento di liberazione. Il punto più alto di questa linea fu forse toccato dalla vigilia della preparazione insurrezionale, con le proposte presentate al Clnai, che costituirono un elemento di coagulo e di stimolo, per i partiti di sinistra, nella prospettiva di un deciso rilancio del programma di rinnovamento sociale e politico del paese, al momento dell’imminente trapasso dalla guerriglia antifascista agli obiettivi della ricostruzione e riforma dello Stato. Ma dietro questi meriti e contributi, pur essenziali e certo fruttuosi, anche se in parte frustrati da una diversa concezione del processo resistenziale e soprattutto dallo sviluppo degli avvenimenti, permaneva l’alternativa originaria: partito egemone del rinnovamento democratico del paese, quanto meno su un periodo abbastanza lungo, nella presupposta capacità di esprimere ed equilibrare forze sufficienti alla bisogna, o movimento in qualche modo metapolitico, di riforma e unificazione socialista, secondo le elaborazioni e i principi di Giustizia e Libertà e della dottrina liberalsocialista? La dialettica interna al partito, dal primo convegno del 5-6 settembre del ’43 alle ultime assise che furono anche il primo vero ed unico congresso nazionale, quello di Roma tenuto poco dopo la caduta del governo Parri, dimostra come i problemi di ideologia e di tattica corrispondessero puntualmente a più vaste e complesse inevitabili questioni di schieramento rispetto ai partiti depositari di grandi tradizioni ideali e di ben più articolati e presumibilmente solidi interessi.
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