Vincenzo Vitiello, De Amicitia. Derrida critico di Schmitt

BY GABRIELLA

Traggo dal Centro studi Campostrini questo studio sul confronto di Derrida con Carl Schmitt.

È in Politiques de l’amitié [1], ancor più che in Spectres de Marx[2], che l’orientamento politico, direi: la ‘destinazione’ politica, della filosofia di Derrida, anche delle analisi teoriche più astratte ed apparentemente lontane da ciò che si è soliti indicare col termine ‘politica’ – un singolare che a Derrida non piaceva, come già il titolo del libro rileva –, ha trovato la sua più convinta espressione. La politica, infatti, non è stata per il filosofo francese un tema di riflessione accanto ad altri; è stata anzitutto fonte di ‘responsabilità’. Lo attesta il confronto con Schmitt, che di questo libro costituisce la struttura portante, la cui motivazione originaria è nella dichiarata ‘esigenza’ di comprendere perché
«questo giurista ipertradizionalista della destra cattolica»
ha suscitato tanta simpatia
«in certi circoli del pensiero politico di sinistra».
Derrida si sente chiamato a ‘rispondere’ dell’amicizia degli ‘amici di sinistra’ di Carl Schmitt, perciò non riduce il fenomeno:
«questi ‘amici di sinistra’ non corrispondono ad una formazione fortuita o psicologica, nata da una qualche confusione interpretativa». Al contrario: «Si tratta qui di un immenso sintomo storico-politico, di cui dobbiamo ancora pensare la legge» (PA, p. 162; it. 166).
Il confronto col giurista tedesco è un atto di responsabilità teorico-politica: è serrato ma non ‘polemico’, al limite anche generoso, se, nel ‘decostruire’ la teoria del politico, sorvola sulla difesa che Schmitt, polemizzando con Kelsen, fece dei concetti di “sostanza” e di “persona”[3], collocandosi così alle spalle non dico di Nietzsche e di Hegel ma di Galilei. Ma andiamo zu der Sache selbst, alla ‘cosa’ che Derrida pone in questione: la celeberrima, e sin troppo celebrata, definizione schmittiana del ‘politico’.
Definizione ‘formale’, ‘concettuale’, e non di ‘contenuto’, si affretta a precisare il suo autore, ché la distinzione amico/nemico (Freund/Feind) stabilisce un ‘criterio’, non derivabile da altri, per determinare lo spazio autonomo del ‘politico’. Schmitt non si è mai interrogato sull’origine di tale ‘logica opposizionale’[4], che a lui doveva apparire ‘naturale’, dal momento che la riscontrava nell’estetica – che si basa sulla separazione del bello dal brutto –, nell’etica – che si fonda sul contrasto bene-male –, nell’economia – che oppone l’utile al dannoso –, e nella logica stessa che neppure sarebbe pensabile senza la distinzione-opposizione del vero dal falso [5]. È questa la base teorica su cui Schmitt fonda l’autonomia del ‘politico’ – non più salda, dal punto di vista della ‘fondazione logica’, della crociana filosofia dei distinti! La fragilità di questa dottrina si mostra non appena Schmitt tenta di chiarire il concetto di “nemico”. In senso politico, dice, nemico non è l’inimicus, ma l’hostis, non l’echthrós, ma il polémios. Quindi esemplifica:
«nemico è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere. Nemico è solo il nemico pubblico» (CP, p. 111).
Definizione di ‘nemico’ e definizione di Stato si co-appartengono. V’è Stato se vi è (poi ci soffermeremo su questo “vi è”) nemico, ma non c’è nemico, hostis, polémios, se non per lo Stato. Da qui la distinzione ‘essenziale’ per Schmitt tra pólemos e stásis, guerra tra Stati e guerra civile – distinzione da lui ripresa da Platone, ma attribuendole ben altra estensione semantica e storica (cfr. CP, p. 111-112 e passim). Essenziale perché laddove il conflitto del pólemos costituisce e rafforza lo Stato, le discordie della stásis lo indeboliscono e lo distruggono. Quello, dunque, è positivo, ‘naturale’, katà physin, quelle negative, innaturali, parà physin . Nella Repubblica platonica, da cui Schmitt l’attinge, questa terminologia è legittima: guerra, pólemos, essendo quella che i Greci combattono con i barbari, con i non-Greci, stásis, invece, è la guerra che il Greco combatte contro il Greco, la lotta intestina. La guerra fratricida. Ma, quale legittimità ‘storica’ può pretendere l’estensione di questa distinzione al mondo moderno? Fu ‘guerra esterna’, ‘naturale’, katà physin, quella che gli Stati europei combatterono tra loro dal 1914 al 1918? Non è un problema di metodologia storica, quello che qui pongo; è un problema ‘storico-politico’. Un problema ancor vivo nella coscienza europea, quando Schmitt elaborava la sua teoria del politico; un problema che aveva diviso le più alte intelligenze europee al momento dell’invasione tedesca del Belgio neutrale all’inizio del primo conflitto mondiale[6], e sul quale, in anni molto più tardi, Schmitt si soffermerà, non senza esprimere forte preoccupazione per il futuro[7].
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Derrida comincia con l’osservare che Schmitt muove dalla definizione del politico – e cioè della distinzione Freund/Feind – come presupposto dello Stato, ma poi pensa il politico – e cioè la distinzione Freund/Feind – a partire dallo Stato. Bisogna qui aggiungere, a commento e integrazione, che non v’è circolo tra Politico e Stato: ‘circolo virtuoso’, dico, del tipo di quello, per fare un alto esempio, instaurato da Kant tra libertà e legge, la prima ratio essendi della seconda, la seconda ratio cognoscendi della prima[8]. La presupposizione dello Stato al Politico, nonché rinviare alla presupposizione del Politico allo Stato, nega semplicemente il carattere fondativo del Politico. Eppure l’inversione dal ‘primato’ del Politico al ‘primato’ dello Stato è necessaria per distinguere hostis da inimicus, polémios da echthrós e quindi pólemos da stásis. Nella ‘pura’ distinzione Freund/Feind, infatti, non v’è nulla che permetta di distinguere il pólemos, come ‘naturale’, dalla stásis, come ‘innaturale’. L’inadeguatezza del concetto del politico rispetto alla realtà storica – rileva a questo punto Derrida (cfr. PA, pp. 133-135; it. 137-139) – è quindi innanzitutto ‘logica’: il concetto di politico è inadeguato a se stesso, alla sua pretesa ‘fondativa’, se non ad esso, ma ad altro – al concetto di Stato – bisogna ricorrere per spiegare il concetto di nemico come “nemico pubblico”, su cui si fonda la teoria del politico. Quindi, allargando l’orizzonte filosofico a riflessione etica, rileva: «La purezza della distinzione tra pólemos e stásis resta nella Repubblica un ‘paradigma’ […]. E succede anche a Platone […] di raccomandare, da un certo punto di vista, la cancellazione di questo limite paradigmatico – e di trattare infine i nemici esterni come i nemici interni» (PA, p. 133; it. 137).
Ma la difficoltà di tener distinti pólemos e stásis travaglia non solo Der Begriff des Politischen. Ne La teoria del partigiano Schmitt sembra essersi liberato da questa distinzione. Constata infatti che nel secolo XX la guerra tra Stati, con le sue regole e limitazioni, non c’è più: è stata sostituita dalla guerra rivoluzionaria tra partiti: guerra insieme interna e internazionale, guerra assoluta, «perché nasce dall’ostilità assoluta» (cfr. Tdp, pp. 70-73). Sul carattere di assolutezza di questa guerra ci soffermeremo tra breve, ora rileviamo questo, che non è del tutto perspicuo come il ‘partigiano’, che di questa guerra insieme interna e internazionale è l’attore, sia tanto più forte quanto più legato alla Terra. L’esempio di Stalin che «riuscì a combinare il forte potenziale della resistenza nazionale e patriottica – vale a dire la forza tellurica, essenzialmente difensiva, della lotta contro l’invasore straniero – con l’aggressività della rivoluzione comunista mondiale» (Tdp, p. 78) è poco probante. Non si tratta di ‘combinare’ elementi diversi – difesa della propria Terra e rivoluzione mondiale – in un’unica figura, ma di provare l’unità in sé dei due elementi, la loro co-apparteneza, e cioè il legame alla Terra della guerra rivoluzionaria d’aggressione. A quale Terra si fa qui riferimento? Non certo alla Terra natale. “Che” Guevara che si reca in Africa per formare, o aiutare gruppi di guerriglia armata non è più legato alla Terra delle forze armate internazionali che sotto la bandiera dell’ONU portano ‘pace e democrazia’ in Afganisthan. Al pianeta Terra, allora? Questa la forza tellurica del partigiano? Schmitt non ignora questa obiezione, se lui stesso, dopo la retorica definizione del partigiano “ultima sentinella della terra” (Tdp, p. 99), parlando del “contesto politico mondiale”, osserva: il partigiano cessa «di essere una figura essenzialmente difensiva, per diventare uno strumento manipolato da un’aggressività che mira alla rivoluzione mondiale. Egli viene semplicemente mandato allo sbaraglio, e defraudato di tutto ciò per cui aveva intrapreso la lotta e in cui erano radicati il carattere tellurico e la legittimità della sua irregolarità partigiana» (Tdp, p. 104). Ma se aggressività e “forza tellurica, essenzialmente difensiva”, si dividono, anzi restano divise, come l’elogio di Stalin? Le perplessità non si fermano qui. L’elogio di Stalin seguiva quello di Lenin e di Mao Zedong (cfr. Tdp, pp. 77-86). Ribadito quello di Lenin in tono celebrativo, alla fine del saggio Schmitt scrive: «Lenin ha trasferito sul piano politico il fulmine concettuale della guerra, vale a dire la distinzione fra amico e nemico», ma «in quanto rivoluzionario di professione della guerra civile mondiale, andò oltre, e fece del vero nemico il nemico assoluto» (Tdp, p. 129). Assoluto è il nemico che va annientato per “obbligo morale”. Davanti a questa conclusione Schmitt si ritrae: «La logica di valore e disvalore dispiega tutta la sua devastatrice consequenzialità e costringe a creare sempre nuove e più profonde discriminazioni e svalutazioni, fino all’annientamento di ogni vita indegna di esistere» (Tdp, p. 130-131). Schmitt contra Schmitt? La domanda è più che legittima: non scorgo, infatti, gran differenza – invero non ne scorgo alcuna – tra il concetto di nemico assoluto e il concetto di nemico pubblico dello scritto sul Politico, tra l’“obbligatorietà morale” a uccidere e la possibilità reale dell’uccisione fisica, la possibilità reale della negazione ontologica (CP, p. 116). Anzi, dovessi fare una distinzione, direi che nello scritto del ’27 vi è una più ‘asettica’ considerazione della morte, più distaccata, com’è tipico della riflessione ontologica rispetto alla valutazione morale. Quindi la risposta sarebbe: sì, qui Schmitt parla contro se stesso. “Sarebbe”, perché questo condizionale? Perché a leggere la conclusione della Teoria del partigiano si ha l’impressione opposta. Cito: «La teoria del partigiano sfocia nel concetto del Politico, nella domanda su chi sia il vero nemico e in un nuovo nomos della terra» (Tdp, p. 132). Schmitt difende se stesso, la coerenza del suo itinerario di pensiero: non dice infatti che la dottrina del Politico sfocia nella teoria del partigiano, ma giusto il contrario – ed in questa luce va letto anche il riferimento al Nomos della Terra. E tuttavia…, e tuttavia la Teoria del partigiano non è… Il concetto di ‘politico’. C’è qualcosa d’altro in quella, che è difficile prim’ancora che definire, afferrare. Ma in fondo qualcosa abbiamo colto: la differenza di Stimmung tra il discorso ‘valutativo’ dello scritto sul partigiano e il discorso freddamente ‘ontologico’ della dottrina del politico. Alle spalle della Teoria del partigiano v’è quel breve scritto su La sapienza della cella, che certo Schmitt non poteva aver dimenticato – e lì “il nemico è l’Altro” e “l’Altro è mio fratello”[9]. Non era un cedimento ‘sentimentale’, dovuto alla triste condizione di vita; sono pagine, queste del carcere, molto controllate, razionali, la pietas che le anima è la pietà del tutto e per tutto, la pietà della storia che fu propria del cristianesimo filosofico di Hegel, non a caso esplicitamente chiamato in causa: «La negazione della negazione, dice il filosofo, non è una neutralizzazione; al contrario il vero infinito ne dipende». La formulazione del ‘principio’ hegeliano non è proprio corretta, ma la proposizione che la precede – «ogni annientamento non è che autoannientamento» (ib.) – getta un fascio di luce sul cammino percorso nella solitudine del carcere: l’intera problematica del ‘politico’ ne è messa in discussione.
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Ed è questo che fa Derrida. Avendo come riferimento principale quel passo del Concetto del politico ove si parla della “possibilità reale dell’uccisione fisica”[10], ma tenendo insieme sott’occhio i vari momenti del pensiero schmittiano, Derrida rileva 1) che questa possibilità traspone il ‘politico’ su un piano ontologico diverso da quelli dell’estetica, dell’etica, dell’economia e della logica. Il politico ‘definisce’ non più un ambito determinato dell’esperienza accanto ad altri, ma lo strato dell’esistenza umana su cui poggia l’intera esperienza. Di qui l’“impurità” del ‘politico’ irriducibile a ‘concetto’, a ‘logica’, a ‘forma’ (cfr. PA, pp. 135-136 e ss.; it. 140 ss.). 2) Che la relazione amico/nemico è asimmetrica (cfr. PA, p. 144; it. 148): solo il nemico, la determinazione del nemico porta alla possibilità reale di dare la morte. Di qui la domanda: chi decide del nemico? La risposta di Schmitt nel Concetto di politico è: lo Stato. Ciò che fa dello Stato un’unità politica diversa da ogni altra associazione è appunto il potere di decidere chi è il nemico. Chiaramente nella più tarda Teoria del partigiano la risposta non può essere più la stessa. Ma quale che sia la risposta alla domanda su “chi” decide, la domanda stessa nega il carattere fondativo della relazione amico/nemico. La decisione resta ‘fuori’, perché da essa dipende la distinzione amico/nemico, la relazione costitutiva del politico. Lo strato più profondo dell’esistenza non è il ‘politico’. È la decisione. La decisione e non “chi” decide, perché è dalla decisione che si determina il ‘chi’, e non viceversa. La decisione del “nemico assoluto” è altra dalla decisione del “nemico-fratello”. Caino non è Caino, il fratricida, prima di uccidere il fratello. Come non è Caino a decidere della relazione di fraternità con Abele, così non è lui a decidere di essere Caino. La decisione è un evento che sorpassa i termini della relazione amico-nemico: «bisogna risalire al di qua della determinazione soggettuale (subjectale) o antropologica della coppia Freund/Feind» (PA, p. 274; it. 287). La decisione – scrive Derrida, e non è difficile avvertire qui un’eco levinasiana[11] – è passiva, e la passività dell’agire. Noi siamo stati (passato aoristico!) ‘decisi’– id est: destinati – a decidere, ad agire. Pertanto la passività della decisione, la passività dell’azione e dell’agire non ci sottrae la responsabilità. Siamo noi che agiamo, e nostre sono le azioni (cfr. PA, pp. 87-88; it. 86-88).
Ma se il ‘politico’, ovvero la distinzione-opposizione amico-nemico, non è lo strato fondativo dell’esistenza, tuttavia è in esso che facciamo esperienza del senso profondo dell’esistere. Non del più profondo, però. Derrida condivide con Schmitt la tesi che solo al limite estremo dell’esistenza, là dove l’esistenza è sospesa, si “rivela il nocciolo delle cose” (CP, p. 118) – ma la possibilità reale di dare la morte, se si avvicina a questo limite, non però lo raggiunge. Il limite è oltre. La possibilità reale di uccidere presuppone la possibilità di morire. Accostando la ‘polemologia’ di Schmitt alla “adversité ontologique” di Heidegger (cfr. PA, 279; it. 292), Derrida porta il pensiero del giurista al livello più profondo, e simul gli muove la critica più radicale. Possiamo riassumere la critica dicendo: non l’esistenza è per il politico, ma il politico per l’esistenza (“esistenza”, s’è detto, non: “esistente”).
A partire da qui Derrida si separa da Schmitt.
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Non c’è proposizione di Schmitt che Derrida non sovverta. Aveva scritto, Schmitt, nella solitudine del carcere (ECS, p. 93):
Guai a chi non ha un amico, poiché il suo nemico si ergerà a tribunale per giudicarlo.
Guai a chi non ha un nemico, poiché io sarò il suo nemico il giorno del Giudizio.
E Derrida, come a controcanto, cita Montaigne che cita Aristotele, e Nietzsche che la citazione di Aristotele volge nel suo contrario.
“O mes amis, il n’y a nul amy”.[12]
“Freunde, es gibt keine Freunde!” so rief der sterbende Weise;
“Feinde, es gibt keinen Feind!” – ruf ich der lebende Tor.[13]
Il saggio morente ed il folle vivente convergono, nella ‘lettura’ di Derrida, nel medesimo: nella negazione dell’originarietà della coppia amico/nemico. Convergono, in questa negazione, passato e presente: il passato dell’amicizia e il presente dell’ostilità. Cominciamo da questa. Che significa – detto ai nemici – che non c’è nemico? Quale il senso di questo singolare “nemico”, che non c’è, opposto al plurale “nemici”, che ci sono, che sono presenti, che caratterizzano la presenza del presente? I nemici – il nemico come “insieme di uomini che combatte” (eine kämpfende Gesamtheit von Menschen: Schmitt: CP, p. 111) – sono già prima d’essere determinati: sono una “possibilità reale” (reale Möglichkeit: ancora Schmitt, ib.). Possibilità non in quanto possono essere o non essere, ma in quanto possono essere questi o quelli. La guerra – scrive Derrida – «è già iniziata prima di incominciare» (PA, p. 106; it. 107). Ma che ne è della possibilità in quanto possibilità d’essere e di non-essere? Che ne è del ‘nemico’ al singolare? Semplicemente non c’è. Questo dice il folle vivente. Folle, perché sovverte la saggezza di quelli che ritengono di vivere perché combattono; la saggezza dell’opposizione amico-nemico: la saggezza del profondo che è tale per quanto si manifesta; la saggezza della ‘forza’ che osa esporsi nel mondo, sino a perdersi, pur di dominarlo. Folle, perché mostra la saggezza del presente solo presente, del presente che non ha passato né futuro; la saggezza che non conosce, il ‘forse’, il peut-être; la saggezza che non conosce la possibilità, che è oltre la realtà, comprendendo in sé essere e non-essere. I colpi di questa critica cadono su Schmitt, certamente, ma mirano ben più lontano e più in alto: raggiungono Hegel[14]. Derrida cita Nietzsche:
Forse! – ma chi mai vorrà preoccuparsi di siffatti pericolosi “forse”! Per questo occorre aspettare l’arrivo di un nuovo genere di filosofi, tali che abbiano gusti e inclinazioni diverse e contrarie (umgekehrten) rispetto a quelle fino ad oggi esistite – filosofi del pericoloso “forse” in ogni senso. – E per dirla con tutta serietà: io vedo che si stanno avvicinando questi nuovi filosofi. (JGB, pp. 8-9; cit. in PA, p. 53; it. 49).
I filosofi dell’amicizia, possiamo ben dire: ma di un’amicizia affatto nuova. Di un’amicizia che non c’è. Anche qui il singolare – non in Nietzsche: es gibt keine Feinde, ma in Montaigne: il n’y a nul amy, e in Aristotele: oudeís phílos – indica non una mancanza, ma una non-presenza. Rectius: indica una presenza che non si riduce al presente, avendo sempre ancora da essere, pur essendo condizione dell’essere. Una presenza oltre la presenza. Questa amicizia non cade nella definizione della virtuosa amicizia di Aristotele, perché eccede ogni simmetria e proporzione: «dà senza ritorno e riconoscenza» (PA, p. 248; it. 258), «senza condivisione» e «senza reciprocità» (PA, p. 328; it. 348). L’alessandrina memoria di Derrida ricorda l’esempio riportato da Montaigne: Eudamida di Corinto, prossimo alla morte, lascia in eredità ai suoi ricchi amici, Carisseno di Sicione e Areteo di Corinto, il ‘dono’ di provvedere alla sua vecchia madre e di maritare sua figlia con cospicua dote. I più si burlarono di questo testamento, ma, scrive Montaigne, «i suoi eredi l’accettarono con particolare piacere»[15]. A commento, questo passaggio di Derrida: l’amico che non c’è «deve… desiderare quel che costituisce l’essenza del desiderio, l’insicurezza e il rischio del malinteso» (PA, p. 248; it. 258). Questa amicizia che non c’è mai, ma già da sempre presente, e come il Messia di cui narra una storia chassidica: povero e solo si trascina sui marciapiedi della grande città, nessuno lo riconosce; un uomo gli si avvicina: “quando tornerai?” gli chiede. Attesa senza attesa, futuro senza futuro, passato senza passato. Presenza mai presente e sempre presente, l’amico, che non c’è, è il folle, che rovescia ogni senso: «si trova già a posto come un ospite che avrebbe preceduto il suo ospite» (PA, p. 69: it. 65). Possiamo parlare a lungo di questa amicizia, seguendo e inseguendo Derrida, che aggiunge, precisa, chiarisce che questa amicizia non è fratellanza perché più che fratellanza, non è natura perché più che natura, e neppure è quell’“oltre” se stessa che in ogni determinazione di sé si impone. Ma da questi continui ribaltamenti di senso, da questo continuo dire disdicentesi, che disdice pur il disdire, resta fuori l’essenziale. L’essenziale dell’amicizia, vero Gegenstoss in sich selbst, vero contraccolpo in se stesso, sta nel rinviare, essa, l’amicizia, questa amicizia che è oltre l’amicizia, oltre la stessa amicizia che è oltre l’amicizia, sta nel rinviare a… a che? A ciò che rende possibile l’amicizia, perché non vincolato all’amicizia. «Non c’è amicizia per il Padre, per chi rende possibile l’amicizia». Qui l’interlocutore di Derrida è Kant: «L’amicizia per chi rende possibile l’amicizia sarebbe una tentazione d’orgoglio». Ma il Padre, ricordato da Kant, per Derrida non solo non è fratello: «non è un uomo» (PA, p. 292; it. 308-309). È il possibile: e tra possibilità e amicizia non c’è reciprocità: l’amicizia è per la possibilità, la possibilità non è per l’amicizia. Derrida accoglie i nuovi filosofi, che Nietzsche vedeva arrivare.
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Höher als die Wirklichkeit steht di Möglichkeit: più in alto della realtà sta la possibilità.[16] La proposizione fondamentale del ‘nuovo’ filosofo ribalta Aristotele. Derrida non segue, però, la ‘prima’ filosofia di Heidegger, ma l’ultima sua produzione. È evidente che la possibilità dell’amicizia che non è amicizia, che il Padre kantiano, che non è fratello, né uomo, sono in Derrida figure dell’Aperto di Heidegger. Evidente, per la distanza critica da Hegel che accomuna Derrida a Heidegger. Come l’Aperto di Heidegger così il possibile di Derrida spezzano il legame necessario instaurato da Hegel tra infinito e finito, senza peraltro cadere nella critica hegeliana, secondo la quale la stessa separazione di infinito e finito implica la loro relazione, questa sola vero infinito, dacché congiunge l’astratto (non vero) finito e il parimenti astratto (non vero) infinito come soggetto e predicato nella sintesi logica del giudizio e del sillogismo. Questa critica non colpisce l’Aperto di Heidegger, né il possibile di Derrida, infiniti entrambi, ma di un’infinità più ampia di quella hegeliana, ‘più vera’, dacché, qual libero spazio che tutto accoglie in sé, relaziona tutto quello che ospita senza nessun vincolo onto-logico. L’Aperto di Heidegger e il possibile di Derrida sono ‘più veri’ infiniti dell’infinito hegeliano, perché nulla escludono. Non a caso, parlando della possibilità dell’amicizia, Derrida si richiama alla chôra platonica, non afferrabile né dai sensi né dall’intelletto; non determinabile, perché condizione d’ogni determinazione; da nulla differente, perché accoglie in sé tutte le differenze: pura indifferenza che «non si confonde mai con ciò che l’occupa, con tutte le figure che vengono ad iscriversi e si fanno passare per copie di un paradigma, esempi di un esemplare insostituibile» (PA, p. 294; it. 310). Pura indifferenza – ‘prima’ della differenza amico/nemico, dentro/fuori, pólemos/stásis. Spazio puro, aperto ad ogni determinazione. Cade ora su Schmitt l’ultimo colpo, mortale, ma inferto con grande generosità: come accade agli eroi di Shakespeare che non mancano di ricevere, dopo morti, l’elogio dell’avversario: «Schmitt diventerebbe allora l’ultimo grande metafisico della politica, l’ultimo grande rappresentante della metafisica europea della politica» (PA, p. 277; it. 290). Il condizionale mantiene il distacco dell’‘avversario’ dall’eroe e pur dall’elogio, dal suo elogio dell’eroe[17].
Resta da compiere un passo ancora. Ma non più con Derrida, bensì da Derrida.
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Oltre l’amicizia la possibilità dell’amicizia. Questa possibilità Derrida intende come potere, potenza. Potenza di fare, potere di donare. Potenza che non si dice, non parla di sé: ogni dire di sé, ogni definizione la limiterebbe. Il potere opera; ed opera in silenzio. Così l’amicizia, la possibilitante possibilità dell’amicizia, che – scrive Derrida – «non mantiene il silenzio, si mantiene col silenzio» (PA, p. 71; it.68). La performatività dell’amicizia porta all’origine stessa della parola, della responsabilità, delle giustizia. All’origine stessa del tempo, del dono del tempo. A questa potenza allude il Padre, che, si è detto, non è fratello né uomo – per essere: amore. Amore agapico, oblativo: «bisogna far giocare il Vangelo – scrive Derrida – contro la virtù aristotelica e contro l’amicizia greca per eccellenza» (PA, p. 316; it. 334); quindi, come a commento, cita Nietzsche: «Amici, non l’amore per il prossimo vi consiglio: io vi consiglio l’amore del remoto» (PA, p. 317; it. 335)[18]. Come a commento – ho detto; e la cosa non deve punto stupire, dacché l’inversione nietzschiana della lettera dell’imperativo cristiano, ne esplicita lo spirito più profondo. Quello stesso che Hegel seppe esprimere ponendo oltre e sopra il cristianesimo religioso, capace sì di redimere il peccatore ma non il peccato, il suo cristianesimo filosofico, che non lasciava fuori dell’amore nessun resto, redimendo col peccatore il peccato[19], e con ciò il mondo dai redentori – e questo qualche anno prima di Nietzsche!
Il riferimento a Hegel intende mostrare il significato ‘regressivo’, e insieme rivelativo, della svolta dall’amicizia all’amore. L’amore toglie l’indifferenza dell’amicizia-chôra, dell’amicizia libero spazio aperto ad ogni accoglienza, non perché discrimini ente da ente, bene da male, amico da nemico, polémios da echthrós, dacché ama tutto parimenti, bensì perché ama ed ama soltanto. È amore e non odio. La sua indifferenza è estrema differenza. Certo, anche l’ospitalità dell’Aperto è accoglienza e non rifiuto, ma l’amore porta a evidenza piena la ‘contraddizione’ di questa ospitalità, che tutto accoglie e sopporta, tranne il proprio ‘limite’, il proprio ‘differente’. La possibilità di questa amicizia-amore, in quanto possibilità possibilitante, è tutta transitiva, volta all’altro da sé, ma incapace di piegarsi su di sé. Essa è l’ultimo porto sicuro per chi non ha altra cura che il mondo, cura che viene dal mondo e si dirige al mondo. Il Padre-Amore – “né fratello né uomo”, che Derrida ha ap-preso da Kant –, vive, non diversamente dal Dio trinitario di Hegel, solo nel mondo e per il mondo: astralmente lontano da quella parola che ci ricorda che siamo nel mondo ma non del mondo, è la più conseguente espressione del cristianesimo paolino.
Ne testimonia quel saggio di Derrida, Préjugés, che riprende nel sottotitolo, Devant la loi, il titolo di quel breve quanto celebre racconto di Kafka, Vor dem Gesetz, oggetto di un lungo commento, vero e proprio Midrash, nel penultimo capitolo di Der Prozess. Derrida ferma due punti, in particolare, l’uno del racconto, l’altro del Midrash. La Legge, davanti alla cui porta il contadino è trattenuto per tutta la vita, impedito ad entrare da un massiccio Guardiano, è inaccessibile proprio a quegli cui è diretta, non per altro che perché essa nulla dice: «la legge tace, e di essa non ci vien detto nulla. Niente, solo il suo nome, il suo nome comune e nient’altro»[20]. Non ha ‘contenuto’ questa legge, e perciò non c’è nulla da sapere. La Legge – Derrida sottolinea che in tedesco è scritta con la maiuscola come un nome proprio – indica soltanto la ‘normatività’ della legge, l’esser-legge della legge, d’ogni e qualsiasi legge. Possiamo chiamarla Grundnorm, norma fondamentale, perché fondamento delle leggi, ma non legge essa medesima. Kelsen definisce la Grundnorm norma solo pensata, e non effettiva, ché nulla comanda, esprimendo soltanto l’effettività della norma, la sua normatività di fatto, ovvero: il fatto che comanda[21]. Derrida chiarisce così il concetto: «l’eventualità dell’evento non è un evento»[22]. Il riferimento a Kelsen è per contrasto: perché il Grund della Grundnorm, ovvero: la normatività della norma, in Kelsen è un mero fatto, dietro al quale non c’è nulla, nessuna ‘decisione’ e tanto meno un “chi” che decida – vale a dire: c’è quando c’è, e quando c’è non rinvia ad altro –; in Derrida è, invece, ‘fondamento’, base e sostegno, più reale della realtà: evento ab-solutus, da tutto sciolto, delle leggi, della normatività delle leggi. Quello che in Kelsen è puramente contingente, in Derrida ha il carattere del trascendentale: la Legge è l’Aperto in cui tutto riposa, l’Amore che tutto accoglie e nulla respinge: è la necessità intrascendibile della possibilità che tutto rende possibile. Tanto necessaria e tanto intrascendibile da essere come la “trascendance” di Lyotard – cui il saggio derridiano è dedicato –, e prim’ancora di questa, come l’Aperto di Heidegger, “le vide”[23]. E questo vide, questo ‘vuoto’, questo spazio aperto che tutto accoglie e nulla respinge, neppure l’uscita di coloro che vogliono uscirne – questa Leere, o chôra, si espande dalla Legge al Tribunale che la Legge interpreta e applica: Derrida cita le ultime parole che nel Duomo il prete rivolge a Joseph K.: «Il tribunale non vuole niente da te. Ti accetta quando vieni, e ti lascia andare quando te ne vai.» (Préjugés, p. 138). Non è questa la sede per discutere l’interpretazione derridiana del racconto kafkiano e del complesso, talora persino contraddittorio, Midrash rappresentato nel Processo; ci siamo riferiti ai molteplici intrecci di queste pagine al solo scopo di definire il carattere ancora teologico-politico dell’ “amicizia” di Derrida.
L’amitié di Derrida non è l’apriori del politico come la distinzione amico/nemico di Schmitt, ma l’apriori dell’apriori: «l’amicizia al principio della politica […] al di là del principio del politico» (PA, p. 210; it. 216) è la possibilità possibilitante la stessa decisione del ‘nemico’ dall’amico, la possibilità che è alle spalle della decisione e di chi decide, la possibilità non agìta dal ‘sovrano’ – Stato o individuo che sia – ma patita, subita, e solo perciò, agìta. Ma questo apriori dell’apriori è tanto legato a ciò che ad esso segue, alle ‘politiche’ (necessario plurale di un incoglibile singolare!) che in esso ac-cadono, da non conoscere altra opposizione, altro contrasto, che quello che in esso av-viene. Al pólemos originario che investe l’amicizia, innanzitutto l’amicizia, Derrida non volge mai lo sguardo. La ‘sua’ amicizia rifugge l’abisso cui è sospesa – perciò è Amore. Amore che sopporta ogni violenza e delitto che accade nello spazio della sua ospitalità, non la violenza da cui esso medesimo nasce, e di cui si alimenta. La possibilità dell’amicizia è ancora troppo legata alla dynamis aristotelica, alla potenza e al potere, per saper temere l’impotenza che le è al fondo. Nella sua Indifferenza si ritiene al riparo da ogni differenza, solo perché inconsapevole della propria impotenza. Dell’impotenza dell’Amore; dell’impotenza della volontà di potenza che pur di sottrarsi al non volere, sceglie di volere il nulla[24].
7
Si dirà: ma il pólemos originario, nel quale l’amicizia è coinvolta, non riproduce quella logica opposizionale che si è criticata in Schmitt? La domanda testimonia della difficoltà di pensare ‘fuori’ della logica opposizionale. Questa logica, che oppone bello a brutto, utile a dannoso, vero a falso, amico a nemico, è la logica dell’esclusione; il pólemos originario ne è tanto distante, da non escludere nulla: neppure… la logica opposizionale. Il pólemos originario è come il possibile: non però come il “possibile reale” di Schmitt – ma non dobbiamo far carico a Schmitt di un’incongruenza logica che pesa su tutta la tradizione filosofica, da Aristotele a Hegel e oltre, che ha pensato e pensa il possibile come solo possibile, il possibile come sfera autonoma accanto al reale e al necessario, e cioè il possibile come ‘necessariamente’ possibile, costretto ad essere quello che è e non altro: possibile e solo possibile. Non come questo “possibile reale e necessario”, dicevamo, va pensato il pólemos originario, bensì come il possibile che è tale, possibile, anzitutto in rapporto a sé, e pertanto non più possibile che impossibile, dacché è possibile, non necessario, che il possibile sia possibile. La logica della non-esclusione per essere coerente con se medesima non deve escludere nulla, neppure l’esclusione: l’esclusione di sé[25].
Non mi sono allontanato dal tema, dal tema di fondo: la critica della teologia politica. L’amitié può ancora essere, in quanto luogo d’accoglienza, orizzonte di senso, e quindi ‘fondamento’, ‘ragion d’essere’, Grund delle molte, indefinite, forme del vivere politico, perché Derrida pensa l’amicizia come Amore che dona, come il Padre della tradizione ‘paolina’ del cristianesimo. L’amitié di Derrida è tutta – insisto su questo punto – pensata nell’orizzonte della teologia politica. Perciò esclude l’esclusione, e attende il Messia oltre la stessa attesa, e si volge all’à venir, oltre ogni futuro, a l’à venir della democratie à venir. All’à venir dell’à venir.
Ma forse… Ma peut-être che il Messia sia già venuto, sia qui, in mezzo a noi – come il male stesso che noi facciamo. Messia allora è davvero qui tollit malum mundi, chi ‘sopporta’ il male, prima ancora che quello che altri fa a noi, quello che noi facciamo agli altri e a noi stessi.
Questo Messia, entrato nella Città dalla piccola porta del battito d’occhio, tês ripês ophtalmoû, resta estraneo ad ogni politica, ad ogni ekklesía, ad ogni comunità umana, sempre solo umana. Questo Messia entro le mura stese della Città resta fuori della Città: inafferrabile come Dioniso – deinótatos antrópoisi d’epiótatos – non dà affidamento alcuno. Altro è il suo compito: liberare la Terra dal Nomos, dalla violenza del Nomos che è sempre quello che l’uomo – eterno Pentèo – impone alla Terra; liberare il Sacro non dalle sue umane immagini, ma dalla pretesa tutta umana di ridurre il Sacro alle sue immagini; liberare l’uomo dalla hybris della verità, del giusto, del bene: dalla hybris dell’uomo.
Certo, in tal modo si sta meno sicuri sulla Terra; ma, forse, peut-être, vale la pena tentare, sempreché si voglia evitare di accrescere la violenza per il ‘nobile’ scopo di eliminare la violenza.

[1] J. Derrida, Politiques de l’amitié (= PA), Paris, Galilée, 1994; trad. it. di G. Chiurazzi, Milano, Cortina, 1995.
[2] J. Derrida, Spectres de Marx, Paris, Galilée, 1993; trad. it. di G. Chiurazzi, Milano, Cortina, 1994.
[3] Cfr. C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità (= TP), in Id., Le categorie del ‘politico, trad. it. di P. Schiera, Bologna, il Mulino, 1972, pp. 57-58 e 65. Sul rapporto C. Scmitt/H. Kelsen rinvio al mio Ripensare il cristianesimo. De Europa, Torino, Ananke, 2008, pp. 209-228.
[4] La cui critica, come vedremo nelle pagine seguenti, è fondamento e fine di tutta l’analisi di Derrida: cfr. PA, spec. p. 276; it. 289-290.
[5] Cfr. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’ (= CP), in Le categorie del ‘politico, cit., p. 108
[6] Rinvio, in merito, al mio saggio “La conciencia europea frente a la primiera guerra mundial: Thomas Mann y Benedetto Croce”, in “Revista de Occidente”, settembre 1994, n° 160, pp. 37-56 (in versione italiana, modificata, cfr. V. Vitiello, Non dividere il sì dal no. Filosofia e letteratura, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 73-86
[7] «Nel 1914 i popoli e i governi europei entrarono barcollando nella prima guerra mondiale senza una vera inimicizia. La vera inimicizia sorse solamente dalla guerra stessa, che cominciò con una guerra convenzionale interstatuale propria del diritto internazionale europeo e si concluse con una guerra civile mondiale dell’inimicizia di classe rivoluzionaria. Chi potrà impedire che in maniera analoga, ma in misura infinitamente più grande, sorgano nuovi e inattesi tipi di inimicizia, il cui realizzarsi susciterà inattese forme di un nuovo partigiano?»: Teoria del partigiano (= Tdp), trad. it. di A. De Martinis, Postfazione di F. Volpi, Milano, Adelphi, 2005, pp. 131-132.
[8] Cfr. I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, Akademische Textausgabe, Berlin, de Gruyter, 1968, V, p. 4, nota.
[9] La sapienza della cella, in C. Schmitt, Ex Captivitate Salus (= ECS), trad. it. di C. Mainoldi, Postfazione di F. Mercadante, Milano, Adelphi,1987, p. 92.
[10] «I concetti di amico, nemico e lotta acquistano il loro significato reale dal fatto che si riferiscono in modo specifico alla. La guerra consegue dall’ostilità poiché questa è negazione ontologica di ogni altro essere, la guerra è solo la realizzazione estrema dell’ostilità. Essa non ha bisogno di essere qualcosa di quotidiano o di normale, e supporre di essere vista come qualcosa di ideale o di desiderabile: essa deve però restare presente come possibilità reale, perché il concetto di nemico possa mantenere il suo significato.»: PA, p. 147; it. 151; cfr. Schmitt, CP, p. 116.
[11] «Quel che qui cerchiamo di pensare è un tale atto dell’atto: “passivo”, consegnato all’altro, sospeso al battito del cuore dell’altro.»: PA, p. 88; it. 88.
[12] PA, p. 17; it. 9: è una citazione da Montaigne, cfr. Essais, I, XXVIII.
[13] PA, p. 68; it. 64: è una citazione da F. Nietzsche, Menschliches, allzu Menschliches, Kritische Studienausgabe (= KSA), München/Berlin, New York, dvt/de Gruyter, 1988, 2, I, Af. 376.
[14] Cito per esteso il celebre passaggio, sopra alluso, della hegeliana Phänomenologie des Geistes: «La forza dello spirito è tanto grande quanto la sua estrinsecazione (Äußerung), la sua profondità tanto profonda per quanto esso nell’esporsi (in seiner Auslegung) osa espandersi e perdersi» (Hamburg, Meiner, 19526, Vorrede, p. 15), ad esso contrapponendo il non meno noto brano di Nietzsche: «Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera», grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà» (di Jenseits von Gut und Böse [= JGB], KSA, 5, Af. 40).
[15] M. de Montaigne, Saggi, a cura di V. Enrico, Milano, Mondadori, 1986, I, p. 216.
[16] M: Heidegger, Sein un Zeit, Tübingen, Niemeyer, 197714, p. 38.
[17] Derrida, infatti, non manca di rilevare, subito dopo, nel tentativo schmittiano il paradossale «interstardimento reattivo a conservare, restaurare, ricostruire, salvare o raffinare certe distinzioni opposizionali classiche, proprio nel momento in cui l’attenzione rivolta ad una certa modernità (quella della “tecnica”, quella della guerra che ne è indissociabile, della guerra dei partigiani e della guerra fredda, delle guerre in corso o a venire) lo spingeva a prendere atto della cancellazione delle distinzioni fondamentali. Come distinzioni metafisiche, teologico-politiche, diciamo piuttosto onto-teologiche» (loc. e pag. cit).
[18] La citazione, non proprio esatta, è da F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, KSA, 4, p. 77: «Rathe ich euch zur Nächstenliebe? Lieber noch rathe ich euch zur Nächsten-Flucht und zur Fernstehen-Liebe!»
[19] Cfr. G. F. W. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., pp. 547-548. Sul tema rinvio al mio Ripensare il Cristianesimo. De Europa, cit., P. II, cap. II, “il cristianesimo filosofico di Hegel”, pp. 95-117; per il cit. luogo della Fenomenologia cfr. pp.113-115.
[20] «La loi se tait, et d’elle il ne nous est rien dit. Rien, son nom seulement, son nom commun e rien d’autre»: J. Derrida, “Préjugés. Devant la loi”, in AA. VV., La faculté de juger, Paris, Minuit, 1985, pp. 87-139; per il passo citato, p. 125.
[21] Cfr. H. Kelsen, Reine Rechtslehre, trad. it. di M. G. Losano, Torino, Einaudi, 1962, § 34d..
[22] «l’événementialité de l’événement n’est un événement»: “Préjugés. Devant la loi”, cit., p. 131.
[23] Cfr., per la citazione da Lyotard, Préjugés p. 126; circa Heidegger cfr. in particolare Id., Die Kunst und der Raum, trad. it. con originale a fronte, di C. Angelino, Introduzione di G. Vattimo, Genova, Il Melangolo, 19842, p. 30.
[24] Cfr. F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral, KSA, 5, p. 412.
[25] Può essere utile, a questo punto, centrare il confronto Schmitt-Derrida sul tema dello spazio. Il concetto che Schmitt ha dello spazio, per quanto storicamente variato (cfr. in proposito i capitoli XII e XIII di Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Stuttgart, Klett-Cotta, 1954, trad. it. di G. Giurisatti, Postfazione di F. Volpi, Milano, Adelphi, 2002), è tuttavia modellato sempre sulla geometria piana – è lo spazio orizzontale, statico o cinetico, già da sempre diviso in luoghi determinati, prima tra amico e nemico, poi tra terra e mare, poi ancora, forse, tra terra e “aria” (non “cielo” – cfr, ib. cap. finale –: il cosmo schmittiano è, comunque, piatto!). Derrida, invece, con-figura il suo spazio privilegiando la dimensione ‘verticale’ del profondo, che, per ‘antecedere’ (come apriori dell’apriori) l’orizzontale che accoglie in sé, è in sé stessa indivisa come la chôra rispetto ai suoi tópoi. In Derrida v’è ancora traccia dello spazio sacrale, perciò nella sua indifferenza sono comprese tutte le differenze; ma, per essere completamente piegato sullo spazio politico, sulle differenze orizzontali dei ‘luoghi’, a questo spazio ‘verticale’, profondo, manca la differenza costitutiva dell’Indifferenza, la differenza ‘sacrale’, senza la quale l’Indifferenza non si costituisce come tale, ossia: non è indifferente anche in relazione a sé. Manca la differenza che sottrae l’Indifferenza alla tirannia dell’essere.

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