Liberali in camicia nera. La comune matrice del fascismo e del liberismo giuridico
Alessandro Somma*
* Profesor titular en la Universidad de Ferrara y profesor invitado en la Universidad de Montpellier I.
Abstract
The theoretical foundation of fascism is used in a very subtle way within today's Italian civil law. In turn, this situation shows the communion that has existed since the formation of this ideological movement with the juridical liberalism. In this essay, the author argues that there is a common terrain shared by juridical liberalism and fascism. In particular, he refers to the compatibility between fascism and economic liberalism, as well as to the critique of fascism and liberalism directed to the principle of separation of powers.
Keywords: fascism, liberalism, separation of powers, economic analysis of the law.
Sommario
I. Il "fascismo invisibile": un mito da decostruire. II. Assonanze tra fascismo e liberalismo economico. III. Raffronti con l'esperienza nazionalsocialista. IV. Segue: ordoliberalismo e nazionalsocialismo. V. Fascisti e liberisti contro la teoria della divisione dei poteri. VI. Fascismo e tradizione romanistica. VII. A mo' di conclusione: fascismo e analisi economica del diritto.
I. IL "FASCISMO INVISIBILE": UN MITO DA DECOSTRUIRE
In una storia del diritto civile italiano confezionata recentemente, le pagine dedicate al ventennio sono precedute da una constatazione perentoria: "i conti dei giuristi, in particolare dei civilisti, con il fascismo sono ancora aperti".1
Si direbbe una cosa non vera se si affermasse che rilievi dello stesso tenore sono un fatto ricorrente.2 Essi sono al contrario assenti dalle principali analisi passate e presenti, in cui il ventennio non compare del tutto o si affaccia come periodo storico in fin dei conti privo di aspetti peculiari dal punto di vista politico normativo.3
In effetti i civilisti hanno da sempre raccontato altre e diverse storie del diritto italiano, prevalentemente volte a fornire l'immagine di un "fascismo invisibile".4 Alcune storie si fondano sulle interpretazioni etico civili di impronta crociana, attraverso cui il fascismo viene considerato una malattia morale che ha solo momentaneamente colpito un corpo sano: precisamente una crisi incapace di mettere in ombra "secoli e millenni" in cui l'Italia "ha portato grandissimo contributo alla civiltà del mondo".5 Altre storie —le quali mostrano convergenze con le teorie sviluppate in particolare da Renzo De Felice— si rifanno alle letture che riconducono il fascismo ad un movimento di ridefinizione delle coordinate su cui si fondano le società capitaliste: un movimento dotato con ciò di valenza modernizzatrice, seppure espressosi in forme autoritarie o totalitarie.6
Le ricostruzioni crociane del fenomeno fascista hanno inizialmente consentito di alimentare un clima di riappacificazione nazionale fondato sul paradigma dell'antifascismo unanimistico.7 Esse ricorrono ora tra i giuristi di formazione liberale i quali affermano:
Nessuno storico che abbia lo sguardo ai caratteri salienti del ventennio e non a rari e limitati episodi vorrà discorrere di una dottrina fascista del diritto privato e collocare in quel periodo una rottura con il metodo dogmatico e con la tradizione delle nostre scuole. I civilisti italiani, educati nella società liberale, difendono la purezza del metodo... Una difesa che se, da un lato, isola i nostri studi dagli sviluppi delle scienze sociali, significa, dall'altro, tutela della libertà di pensiero e tenace conservazione dei risultati acquisiti con la fatica di oltre un cinquantennio.8
Anche le letture defeliciane del diritto fascista sono state inizialmente elaborate —in anticipo sul percorso culturale dello storico aretino— da autori interessati a promuovere un clima di riappacificazione nazionale: non tuttavia attraverso l'occultamento della dittatura, bensì del suo carattere reazionario.9 Esse sono state formulate da autorevoli esponenti delle commissioni che hanno concorso alla redazione del vigente codice civile. Tra essi Filippo Vassalli, il quale —dopo aver rievocato le linee di politica del diritto sintetizzate nella dichiarazioni della Carta del lavoro e l'originario proposito di trasfonderle nella codificazione civile— afferma:
Un osservatore superficiale o politicamente prevenuto potrebbe credere che con ciò il codice si ricolleghi necessariamente a un indirizzo politico tramontato e inviso. Ma costui si ingannerebbe a partito. Codeste dichiarazioni, spesso enfatiche e imprecise, non sono che il riflesso di un orientamento generale largamente operante, pur sotto atteggiamenti diversi, in tutti i paesi.10
Le storie del diritto di matrice defeliciana sono preferite dalla dottrina di formazione cattolica e dalla letteratura di sinistra. Esse presentano il ventennio come il prodotto "di una società borghese e di una fase di espansione dell'economia capitalistica"11 o tutt'al più come il "maldestro adattamento verbale di schemi già diffusi nella cultura giuridica europea".12
Il mito del fascismo invisibile si fonda sulla sottolineatura di alcuni aspetti dell'ordinamento fascista, cui si attribuisce la capacità di mettere in evidenza il carattere intimamente afascista del diritto civile codificato. I fautori delle tesi di impronta crociana menzionano fra esse la matrice romanistica dell'articolato, considerata un indizio del suo impianto fondamentalmente individualista. Pertanto il legislatore del ventennio
Anziché rinnegare, la qual cosa sarebbe stata impossibile, la vecchia legislazione e l'antica dottrina, [ha] creduto di accoglierle, innestandovi solo nuovi germogli, in guisa che il tutto avesse nuova impostazione ed altro spirito, tanto vero che oggi è facile defascistizzare, per così dire, tali codici, eliminando appunto quei nuovi germogli.13
Lo sviluppo delle tesi defeliciane si colloca in una fase in cui la letteratura mostra l'interesse a screditare proprio "l'antica dottrina" rimessa in gioco dal crollo della dittatura. Dottrina che nell'immediato dopoguerra —epoca in cui la ricerca di un equilibrio conduce ad indicare la tradizione come un valore—14 aveva individuato nelle massime individualiste una sorta di rimedio naturale contro le involuzioni autoritarie e totalitarie.15
Nella fase di cui parliamo alcuni sponsorizzano una rilettura della codificazione civile alla luce dei valori costituzionali e in tale prospettiva valorizzano il superamento degli schemi individualistici realizzato dal legislatore del ventennio:16 ad esempio per il tramite di formule concernenti la funzionalizzazione dei diritti.17
In conclusione il mito del fascismo invisibile —perché inesistente o perché indistinguibile da altre dottrine sociali— trae fondamento dall 'idea che il ventennio ha rispettato o eventualmente svecchiato i fondamenti della cultura liberale e che pertanto esso non ha pervertito i fondamenti del sistema economico occidentale.
Questa circostanza è stata dimostrata —dal punto di vista della realizzazione pratica dei programmi enunciati dal fascismo— fin dai primi anni trenta. Lo si ricava ad esempio dalla dottrina che ha descritto la politica economica del ventennio come fautrice di un capitalismo più "ordinato"18 e "ossequiente ma non prono alle esigenze dittatoriali e conservante i suoi due attribuiti fondamentali: proprietà privata, profitto".19
Successivamente altri hanno documentato come il fascismo —e non solo durante la prima fase esplicitamente liberista—20 abbia eretto un sistema di privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite "saldamente ancorato ai principi della libera iniziativa".21 Un sistema in cui l'intervento statale si riduceva al mantenimento della pace sociale con metodi polizieschi22 e all'assunzione del rischio d'impresa nei settori caratterizzati da forte instabilità o da bassa redditività per il capitale privato.23 Il tutto in una fase dell'economia italiana in cui occorre rafforzare la posizione del capitale finanziario, in quanto si avviavano ad assumere un ruolo di primo piano settori —quali la metallurgia, la meccanica e la chimica— che necessitano di investimenti non paragonabili a quelli richiesti dai rami trainanti fino ai primi anni venti: l'industria alimentare e tessile.24
Peraltro simili rilievi si fondano su un presupposto: che il sostanziale rispetto del sistema economico capitalista sia dovuto al mancato raccordo fra teoria economica fascista e la sua realizzazione pratica.
Intendiamo invece documentare che il concreto assetto economico del ventennio, di cui si sottolinea la vicinanza con il pensiero liberale, si mostra compatibile anche con le elaborazioni teoriche dell'epoca. E si badi: non perché in economia il ventennio è stato innocuo ma in quanto il pensiero liberale mostra punti di contatto con esso.
Prima di sviluppare la mia analisi occorre ricordare una distinzione oramai consolidata —di cui l'idea di un fascismo invisibile non tiene conto— tra liberalismo politico o liberalismo tout court e liberalismo economico o liberismo. La distinzione di chi indica con "liberalismo" la dottrina in cui il principio di tutela dei diritti individuali si combina con l'idea di partecipazione politica dei consociati secondo meccanismi democratici e con "liberismo" la teoria dell'ordine spontaneo, che pone l'accento sulla tutela dei diritti economici a detrimento di quelli politici e civili.25
Occorre poi sottolineare una circostanza occultata da coloro che nel dibattito sulla crisi dello stato moderno intendono alimentare il credo liberista. La circostanza che, nella prospettiva solidarista, l'intervento eteronomo statale non costituisce —come in quella totalitaria— un "intervento imperativo" che colloca la "volontà dello Stato al di sopra di quella dell'individuo", con il proposito di rappresentare di interessi forti.26 Al contrario: nella prospettiva indicata la prevalenza dell'ordinamento sull'agire individuale ha il fine di valorizzare il punto di vista dei soggetti deboli.27
II. ASSONANZE TRA FASCISMO E LIBERALISMO ECONOMICO
E' noto che il fascismo intendeva presentarsi come terza via rispetto al liberalismo da un lato e al socialismo dall'altro. Riterrei assodato —con buona pace di certe teorie revisioniste sul totalitarismo—28 che esso ha costituito una effettiva alternativa rispetto al socialismo: almeno se si considera che il regime mussoliniano non ha certo rivoluzionato l'assetto proprietario dei mezzi di produzione.29
Mi sembra invece che sulla distanza tra fascismo e liberalismo occorrano ulteriori riflessioni.
I fautori delle tesi crociane la sottolineano nel momento in cui propongono la metafora del corpo sano —lo stato liberale— solo temporaneamente infettato dal morbo fascista. Coloro i quali esaltano la valenza modernista del ventennio ridimensionano invece di molto la distanza in discorso: non potrebbero altrimenti evidenziare i tratti di un approccio comune al governo delle evoluzioni interne alle società occidentali. Nel merito viene tuttavia trascurata una circostanza solo in parte evidenziata a suo tempo dalle interpretazioni fornite dalla letteratura marxista: 30 che di una relativa vicinanza tra il fascismo e il liberalismo si può discorrere solo con riferimento al liberismo e non invece avendo in mento il liberalismo tout court.
Una relativa vicinanza che —come ho anticipato— si risolve a tutto svantaggio del liberismo e che non può quindi essere utilizzata per assolvere il fascismo o invocare per esso circostanze attenuanti.
Il liberalismo tout court non può essere affiancato al fascismo. Il primo ha in effetti a che vedere —secondo la definizione richiamata in precedenza— con:
L'affermazione dell'esigenza del governo parlamentare; della libertà di voto e dell'estensione del diritto di voto; della libertà di stampa; della separazione del potere secolare da quello religioso; delle giurie popolari, e così via, nonché la riduzione delle spese e la politica estera pacifica anche se non necessariamente pacifista.31
Certo potrebbe apparire che una notevole distanza divide anche il fascismo dal liberismo. Quest'ultimo —ricorrendo a formule di sapore naturalista— ripudia l'idea di un intervento dello stato nell'economia e valorizza al contrario l'ordine spontaneamente prodotto dal mercato: considerato "un sistema di trasmissione di informazioni neutrale rispetto ai fini" o un'istituzione "che consente di soddisfare le aspettative soggettive indipendentemente dalle decisioni e dal controllo del potere politico".32 E dal canto suo il fascismo muove critiche definitive all'astrattezza di impronta naturalista: 33 in particolare all'homo oeconomicus —prodotto tipico del naturalismo—34 legato ad "una particolare transitoria ed approssimativa condizione dell'assetto produttivo britannico durante la prima metà del secolo scorso".35
Eppure —a ben vedere— i richiami liberisti all'ordine spontaneamente prodotto dal mercato appaiono totalizzanti, esattamente come i riferimenti all'ordine imposto dallo stato attraverso il meccanismo corporativo: ordine teorizzato a partire da molti e diversi presupposti di ordine politico, tutti compatibili con una visione universalistica della convivenza tra individui fondata su una combinazione tra principio di gerarchia e principio di solidarietà.36
Invero lo stato corporativo punta a risolvere la società in se stesso.37 Ed in ciò si sposa con il nazionalismo corradiniano —secondo cui il corporativismo fascista costituisce il punto di arrivo di un percorso che muove dal feudalesimo e passa dal "collaborazionismo"—38 il quale: "non fu né borghese né antiborghese, né proletario né antiproletario, fu il contrapposto storico all'errore della negazione nazionale, affermando per i popoli la suprema finalità nazionale, così come per i singoli individui si afferma la finalità famigliare e per le famiglie si afferma la stirpe comune".39
Peraltro collaborazionismo e corporativismo identificano la "suprema finalità nazionale" con "l'interesse superiore della produzione"40 ed investono di una "funzione nazionale o sociale" coloro che sono chiamati a soddisfarlo.41 Invero il nazionalismo in via di affermazione assume i caratteri di un "nazionalismo modernista":42 ad esso corrisponde una rilettura dell'ordinamento privatistico fondata sulla considerazione del cittadino come produttore43 o consumatore44 e dell'impresa come "organizzazione economica controllata e gestita dallo stato" attraverso "le forme della normazione corporativa".45
La "radicale unificazione del corpo sociale" passa in tal modo per una "disciplinata irregimentazione dell'esercito del lavoro",46 i cui schemi invadono il modo di concepire l'esistenza tutta dei consociati. Ecco la valenza universale delle dottrina fascista, che da un simile punto di vista si mostra incompatibile con le teorizzazioni di area socialista, incentrate sulla "differenziazione tra le nozioni di interessi nazionali e di interessi del popolo".47
Ciò conduce a politiche del diritto nei fatti rispettose dei capisaldi del liberalismo economico e in particolare delle tradizionali prerogative del proprietario e del contraente.
Certo le visioni della proprietà come diritto assoluto dell'individuo cedono di fronte ai propositi di infliggere "un colpo mortale alla concezione liberale" della fattispecie che si vorrebbe "abbandonata a se stessa e non da altro giustificata se non dalla carta bollata".48 Peraltro simili affermazioni si traducono in costruzioni non invise ai detentori del potere economico. Invero —come precisato dallo stesso capo del fascismo—:
La economia corporativa rispetta il principio della proprietà privata. La proprietà privata completa la personalità umana: è un diritto e se è un diritto è anche un dovere. Tanto che noi pensiamo che la proprietà deve essere intesa in funzione sociale: non quindi la proprietà passiva, ma la proprietà attiva, che non si limita a godere i frutti della ricchezza, ma li sviluppa, li aumenta, li moltiplica.49
In altre parole "una vigorosa tutela della proprietà privata è necessaria" in quanto essa —in un sistema interessato a favorire il capitale finanziario— "costituisce lo strumento indispensabile per la formazione del risparmio, stimolando la produzione e agevolando la formazione dei capitali della nazione".50
E lo stesso può essere ripetuto con riferimento alla materia contrattuale. Anch'essa viene sottoposta alle critiche di chi intende affossare la visione tradizionale per ottenere un sistema di controllo eteronomo capace di deviare o arrestare il volere delle parti51 o ancora di imporre un regime di libertà contrattuale "vigilata".52 Ciò non impedisce tuttavia di lodare l'iniziativa individuale e in particolare il "principio della libertà dei contratti".53 In altre parole —onde valorizzando un approccio sviluppato dalla dottrina liberale nel momento in cui "viene superata la premessa di un autoregolamento del sistema e negata la sua capacità di raggiungere spontaneamente livelli possibili e desiderabili"—54 si supera la visione del contratto come incontro di volontà delle parti per potenziarne la funzione di motore dei traffici commerciali:
Se si traggono le logiche conseguenze dal principio corporativo che assoggetta la libertà del singolo all'interesse di tutti, si scorge che, in luogo del concetto individualistico di signoria della volontà, l'ordine nuovo deve accogliere quello più proprio di autonomia del volere. L'autonomia del volere non è sconfinata libertà del potere di ciascuno; non fa del contratto un docile strumento della volontà privata; ma, se legittima nei soggetti un potere di regolare il proprio interesse, nel contempo impone ad essi di operare sempre sul piano del diritto positivo, nell'ordita delle finalità che questo sanziona e secondo la logica che lo governa...
Ciò vuol dire che l'ordine giuridico non appresta protezione al mero capriccio individuale, ma a funzioni utili che abbiano una rilevanza sociale e, come tali, meritino di essere tutelate dal diritto. Si pensi, per esempio, ad un contratto col quale alcuno consenta, dietro compenso, all'astensione di un'attività produttiva o a un'esplicazione sterile della propria attività personale o a una gestione antieconomica o distruttiva di un bene soggetto alla sua libera disposizione, senza una ragione socialmente plausibile, ma solo per soddisfare il capriccio o la vanità della controparte.55
Da simili precisazioni si evidenziano le connessioni tra il pensiero liberista e —attraverso i riferimenti alle massime nazionaliste—56 il corporativismo fascista. Quest'ultimo afferma di essere una reazione alla massima liberale della divisione tra politica ed economia.57 Tuttavia punta ad universalizzare la seconda58 e ad asservire in tal modo la prima al fine ultimo di un capitalismo oramai contrariato dalla separazione tra società e stato: 59
Abbiamo qui uno sviluppo della dottrina liberale. Ciò che il liberismo lasciava fosse funzione degli individui, o meglio degli egoismi individuali a sé o attraverso le libere organizzazioni, il nazionalismo toglie agli individui, e per essi alle libere organizzazioni, e attribuisce, accentrando, alle organizzazioni sindacali di categoria, giuridicamente riconosciute. Così facendo, l'unità delle leggi della produzione non veniva né interrotta né menomata, era anzi riconosciuta e resa più sensibile. I termini del capitale, dell'impresa e del lavoro però si spostano e passano da l'individuo, o dai gruppi esponenti di individualità, ai giuridici rappresentanti di categoria che, appunto agendo ne l'interesse non dei singoli beni della categoria, indirettamente agiscono a vantaggio della collettività nazionale, essendo la categoria non estranea a questa collettività, bensì parte di essa.60
III. RAFFRONTI CON L'ESPERIENZA NAZIONALSOCIALISTA
La discussione sulle analogie e le differenze tra fascismi italiano e tedesco ha appassionato molti autori e dato vita a dibattiti assai vivaci, notoriamente tutt'altro che esauriti. Risulta tuttavia oramai acquisito che —accanto alle incontestabili differenze— le due dittature presentano notevoli caratteri comuni.61 Il loro studio consente di ricavare spunti per ricerche non affette da formalismo62 e in particolare ad individuare "equivalenze strutturali e funzionali per il solito negate o occultate":63 realizzando una storia comparata del fascismo e del nazismo "dall'esterno all'interno" —ovvero una storia attenta alle soluzioni prospettate dai due regimi per i problemi comuni— si evidenziano circostanze che altrimenti potrebbero non emergere.64
In particolare dal raffronto tra fascismo e nazionalsocialismo trae conferma l'idea che molte differenze tra le due dittature sono prevalentemente quantitative: concernono la "realizzazione pratica" e non anche "l'intenzione sottostante"65 o eventualmente riguardano l'impianto retorico utilizzato dal potere politico. Dal punto di vista qualitativo —dopo un'iniziale fase movimentista di impronta rivoluzionaria— entrambe le dittature hanno invero posto in essere un sistema di norme compatibile con lo stadio evolutivo del liberalismo economico all'epoca dei conflitti mondiali.66
La circostanza viene rilevata da analisi risalenti che presentano la dittatura hitleriana come sistema funzionale al "completo soggiogamento dello stato da parte dei capitani d'industria".67 Un sistema che —come quello eretto da Mussolini— attraversa una fase di impronta dichiaratamente liberista,68 per poi adottare politiche interventiste in linea con le richieste dei detentori del potere economico.69 Un sistema —ancora— che si fonda sul sostanziale rispetto delle posizioni acquisite dagli operatori attraverso il meccanismo concorrenziale anche nel momento in cui impone alle imprese la formazione di cartelli70 o l'adesione ad associazioni di categoria con rappresentanza esclusiva dei loro membri71 o ancora il rispetto di piani concernenti la produzione.72
Il meccanismo nazionalsocialista di relazioni industriali si fonda su uno schema diverso da quello corporativo ma pur sempre finalizzato a tacitare il conflitto sociale attraverso l'intervento statale diretto: una rete di "fiduciari del lavoro"73 aveva in effetto il compito di disciplinare i rapporti di lavoro superando il ricorso alla libera contrattazione collettiva.74
Peraltro la vicinanza tra dittatura e liberalismo economico non attiene esclusivamente alla pratica realizzazione dei propositi politico normativi enunciati dalle dittature. Essa può essere documentata anche dal punto di vista delle enunciazioni esplicite.75
Esemplare da un simile punto di vista una precisazione sulla portata del programma del partito nazionalsocialista, nella parte in cui indica nella riforma dell'assetto fondiario un obbiettivo prioritario di politica economica, da perseguire attraverso l'emanazione "di una legge sull'esproprio senza indennizzo per motivi di pubblica utilità" (punto 17).76 Si tratta di una precisazione —formulata oltretutto in anni precedenti la presa del potere— che riassume i termini del rapido abbandono della carica eversiva dell'ordine economico costituito: l'espropriazioni —a fronte del riconoscimento politico della proprietà privata da parte del nazionalsocialismo— concerne esclusivamente i fondi "acquisiti illecitamente o non amministrati dal punto di vista del bene comune": in particolare i fondi acquisiti dagli ebrei. Precisamente:
Da die NSDAP auf dem Boden des Privateigentums steht, ergibt sich von selbst, dass das Passus Unentgeltliche Enteignung nur auf die Schaffung gesetzlicher Möglichkeiten Bezug hat, Boden, der auf unrechtmässige Weise erworben wurde oder nicht nach den Gesichtspunkten des Volkswohls verwaltet wird, wenn nötig, zu enteignen. Dies richtet sich demgemäss in erster Linie gegen die jüdischen Grundspekulationsgesellschaften.77
Certo il nazionalsocialismo combatte la visione dell'ordinamento come complesso di diritti e promuove la supremazia dell'interesse collettivo sull'interesse dei singoli o dei gruppi che non accettano la logica totalitaria. Peraltro simili propositi si traducono prevalentemente in una condanna radicale del liberalismo politico ma non anche dei fondamenti del liberalismo economico:78 tra essi il principio dell'iniziativa individuale e la massima della concorrenza. Questi ultimi devono al contrario essere difesi, onde evitare cedimenti verso il bolscevismo:
Der Staat war in der Zeit des Liberalismus und Marxismus, der Demokratie und des Parlamentarismus allmählich ein zur Sättigung seines eigenen Bedarfs und zur Erfüllung seines Selbstzwecks bestimmter, von der Volksgemeinschaft losgelöster Anstaltskörper geworden mit eigenen Interessen, eigenen Gesetzen und eigenen Neigungen...
Grundsatz des liberalistisch-demokratisch-marxistischen Zeitalters war, dass die Gesellschaft, das heit also die in dem weiten Bereich des wirtschaftlichen Daseins sich sammelnde Gemeinschaft von Menschen, die die gleiche Sprache sprechen und auf einem Staatsterritorium wohnen, zu einer Aneinanderreihung von Individuen mit der Wirkung wurde, dass der Eigennutz, der Primat der Person, des eigenen Ichs den Vorrang vor der Volksgemeinschaft einnahm. Natürlich war dieser Grundsatz nicht ausdrücklich so formuliert. Aber die Umkehrung des Satzes des Liberalismus "Eigennutz vor Gemeinnutz" —am rücksichtslosesten formuliert in dem Worte "enrichissez-vous!"— zu der Formulierung "Gemeinnutz vor Eigennutz" war diese zweite Umwertung revolutionärer Art. Das Wort "Gemeinnutz vor Eigennutz" bedeutet keine generelle Enteignung des schöpferischen Menschen, keine Vernichtung der so unendlich lebensnotwendigen persönlichen Initiative auf allen Gebieten, bedeutet auf dem Gebiete der Wirtschaft nicht etwa die Verherrlichung eines restlos planwirtschaftlichen Systems!79
Nello stesso senso si esprime la dottrina del ventennio, che pone l'accento sulla contrapposizione tra il bolscevismo —il quale "elimina completamente l'interesse individuale" e in tal modo "spegne il genio e la libera iniziativa" delle persone—80 e le "moderne rivoluzioni nazionali e popolari" mussoliniana e hitleriana.81 In tale prospettiva si sottolinea che il riferimento fascista alla funzione sociale degli istituti privatistici non costituisce una formula vuota ma neppure che esso determina una rivoluzione dell'ordinamento privatistico e specialmente una confusione di "Roma con Mosca":82
Dove la democrazia subisce fatalmente la degenerazione socialistica e va incontro al comunismo, ossia alla negazione più radicale di quel liberalismo che costituì il suo punto di partenza, il fascismo per contro tiene saldo nell'ordinamento corporativo il principio della iniziativa individuale, molla dello sviluppo economico, frenata e inquadrata nelle esigenze della solidarietà sociale.83
Fascismo e nazionalsocialismo non innovano dunque rispetto ad una politica del diritto fondata sul liberalismo economico. Al contrario essi la rafforzano, superando un atteggiamento agnostico84 non più in linea con "esigenze mondiali"85 e ponendo l'accento sull'opportunità di conservare il sistema nel suo complesso attraverso un intervento statale riequilibratore.86
Alcuni possono obbiettare che l'intervento statale non trova cittadinanza in un modello economico di tipo liberale. Eppure all'epoca di cui ci stiamo occupando si è definitivamente chiarito come attuare forme di libertà economica assoluta conduca ad alimentare il suo opposto. Come —in altre parole— dall'assenza di controlli eteronomi sulla libera iniziativa scaturiscano i medesimi fenomeni di accentramento che si sono sviluppati all'alba delle dittature fascista e nazionalsocialista. Fenomeni che la produzione normativa di entrambe le dittature ha definitivamente accettato come sfondo per lo scontro politico sui termini dello sviluppo del sistema capitalista.87
In tal senso la letteratura dell'epoca vede nel corporativismo fascista e nel riconoscimento nazionalsocialista dei cartelli la consacrazione di quanto possiamo considerare la lex mercatoria di allora: specialmente delle forme di auto organizzazione degli interessi professionali.
Il tutto nonostante alcuni si affannino a sottolineare che la normativa del ventennio sulla concorrenza e i consorzi —diversamente dalla legislazione liberale in materia di trust e cartelli—88 non mira a preservare "l'atomismo della forze economiche" o forme di "automatismo dell'equilibrio".89
IV. SEGUE: ORDOLIBERALISMO E NAZIONALSOCIALISMO
Sullo sfondo delle riflessioni appena svolte, occorre riconsiderare il ruolo delle teorie ordoliberali sviluppate in epoca nazionalsocialista da un gruppo di studiosi riuniti nella cosiddetta Scuola di Friburgo. Questi ultimi avevano interessato il potere politico con l'idea di attribuire allo stato il compito di attuare l'ordine economico naturale e ricondurre così ad unità interessi generali e interessi particolari.90
Nell'esperienza tedesca l'accostamento tra ordoliberalismo e nazionalsocialismo costituisce un tabù.91 Esso compromette in modo imbarazzante una teoria per molti aspetti debitrice nei confronti delle tesi ordoliberali: la teoria tedesca dell'economia sociale di mercato, cui si è ispirata —su pressione delle forze di occupazione statunitensi—92 la politica economica della Repubblica di Bonn prima93 e della Germania unita poi.94 Oppure condurrebbe a screditare i fondamenti teorici del liberalismo economico: ciò che peraltro costituisce il fine di queste pagine.
Eppure certi nessi tra ordoliberalismo e nazionalsocialismo non passano inosservati se si assume il punto di osservazione proposto: ovvero se si muove dalla valenza totalitaria dei richiami liberisti all'ordine spontaneo prodotto dal mercato.
Di un simile ordine le teorie ordoliberali discorrono muovendo dalle elaborazioni della fisiocrazia:95 dottrina economica e sociale affermatasi in area francese durante la seconda metà del diciottesimo secolo, con il proposito di accreditare l'economia come strumento di razionalità politica chiamato a rimpiazzare il diritto. Uno strumento che ricava la propria validità dall'effettivo conseguimento degli obbiettivi posti —ovvero non dal fondamento giuridico dei mezzi impiegati— e che pertanto pone in essere processi avvertiti come naturali. Il tutto combinato con l'idea che un sistema di potere informato ai presupposti indicati deve essere imposto da uno stato assoluto, chiamato a garantire la libertà, la proprietà e la sicurezza.96
Certo la libertà di cui discorrono i fisiocratici —in quanto valore compatibile con l'assolutismo— non ha nulla a che vedere con la libertà avuta in mente dal liberalismo politico. Allo stesso modo gli ordoliberali —nel momento in cui intendono superare il fatalismo ed al relativismo di impronta storicista e ripensare l'intero ordinamento sotto forma di "costituzione economica"—97 sviluppano riflessioni attorno al tema della libera iniziativa individuale che da molti punti di vista si mostrano indifferenti rispetto alla connotazione del potere politico in senso autoritario o totalitario.98
Al contrario: l'ordoliberalismo ritiene indispensabile che la politica assuma un ruolo trainante dei processi economici. Tuttavia nel fare ciò essa deve assumere un punto di vista che non sia quello proposto dalle teorie interventiste ma neppure quello avuto in mente dal liberalismo classico: l'ordoliberalismo mira a conciliare il mercato con la presenza di uno stato forte chiamato a "dirigere" in modo "ragionevole e pianificato" le "forze libere" attraverso norme capaci di incentivare "il senso della collettività presso il popolo dedito alle attività economiche".99 In particolare:
Das wichtigste Erfordernis jeder Wirtschaftsordnung, die diesen Namen verdient, ist, dass die politische Führung Herr der Gesamtwirtschaft im ganzen wie in ihren Teilen sein muss; es ist notwendig, dass die staatliche Wirtschaftspolitik das wirtschaftliche Geschehen geistig und machtmässig in den Griff bekommt. Dies ist aber nur möglich, wenn die Wirtschaft durchsichtig und streng geordnet ist und wenn diese Ordnung, die eine rechtliche und politische Ordnung ist, vom Staat mit sachlichem Verständnis gehandhabt, von der Nation geistig erfasst und erlebt und von den wirtschaftenden Volksgenossen mit Hingabe und Disziplin befolgt wird.100
Sono così definite le linee di una politica economica non distanti da quelle disegnate dal fascismo italiano. Una politica fondata sull'alleanza tra liberismo e totalitarismo, sulla base di una concezione dell'interventismo statale incompatibile con i meccanismi democratici101 ma perfettamente conciliabile con le massime del libero mercato.