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Discussione: Omodeo politico (1960)

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    Predefinito Omodeo politico (1960)


    Adolfo Omodeo (Palermo, 1889 - Napoli, 1946)


    di Alessandro Galante Garrone – Introduzione a A. Omodeo, “Libertà e storia. Scritti e discorsi politici”, Einaudi, Torino 1960, pp. XI-XXVIII.


    Che Adolfo Omodeo, lo storico delle origini del Cristianesimo, avesse sempre studiato la storia dei tempi a noi più vicini, per intimo bisogno di uomo moderno, lo si era, se non saputo, intuito; e ce lo confermò del resto Benedetto Croce. Così pure, caduto il fascismo, il suo vigoroso apparire sulla scena politica parve a tutti, e specialmente a chi ne aveva seguito l’opera storiografica, non un’improvvisazione, bensì il maturo esplicarsi di una vocazione lungamente sentita, e per tanti anni macerata in solitudine. Ma quel che non si sapeva, e sarà a tutti rivelato – speriamo presto – dal bellissimo suo epistolario, è che un preciso proposito di studiare il Risorgimento, e, insieme, di assolvere una missione politica a servizio del proprio paese si era già radicato in lui sin dalla prima giovinezza. Era ancora studente quando, nel novembre 1911, confidava a colei che doveva diventare la compagna della sua vita: «Vedo chiaramente la mia via. Devo prima fortemente affermarmi nel mondo del pensiero, e dopo aver preso dominio del passato affrontare il presente con tutti i suoi problemi… Voglio rivelare, come storico, una vita quasi del tutto obliata da noi moderni latini: la vita del cristianesimo nei suoi grandi momenti. Voglio però abbracciare insieme parecchie attività: voglio studiare anche il nostro Risorgimento. Acquistare coscienza di tutto il movimento storico che ci ha creati significa dominare col pensiero anche il momento presente: la storia mi condurrà dinanzi ai problemi politici dei nostri giorni».
    Sentiva, allo scoppio della guerra libica, «angoscia per la patria». E, studente, sognava di dedicarsi a un’opera di redenzione civile: «Avrò io la forza di creare la patria nuova, la coscienza nuova d’Italia? L’aspirazione è immensa, e talora mi sento piccolo e sgomento… In questo vasto ideale converge, anche se non sembra, tutta la mia vita, e lo storico e l’erudito vi collaborano, anche se non immediatamente». Un anno dopo confidava: «Sento che, se anche un insuccesso colpisse ora l’Italia, la mia coscienza d’italiano potrebbe gemerne, ma non rimanerne fiaccata… Non è boria, ma coscienza civile… Quando rotte le prime linee venisse l’ora mia, io mi ci metterei con tutte le mie forze… Non mi considererei inetto ad una grande opera per l’Italia, quando il momento giungesse». Più di trent’anni dopo, giunto il momento della catastrofe della patria, Adolfo Omodeo, ormai libero di parlare e di agire dopo la ventennale oppressione del fascismo, avrebbe mantenuto il giovanile impegno. Quel che qui ci preme far notare sono le remote origini del suo politico meditare e operare e il convertirsi, in lui così caratteristico, dell’interesse storiografico in appassionata partecipazione alle sorti del proprio paese e della civiltà moderna.
    Ma se è facile cogliere questo segreto e lontano scaturire della sua passione civile, meno facile è cercar di definire il suo orientamento politico, negli anni che precedono la prima guerra mondiale. Troppo poco sappiamo delle sue predilezioni e inclinazioni (tranne gli entusiasmi dell’adolescente per Rousseau e la rivoluzione francese); né del resto egli svolse delle attività pubbliche o prese delle posizioni che ci permettano di dire per quali schieramenti politici parteggiasse, in quella che poi fu detta l’«età giolittiana». Forse è esatto dire ch’egli si sentì e si tenne ad essi estraneo, appartato in un isolamento sdegnoso. C’era senza dubbio, nel suo atteggiamento politico, un che di sentimentale e di letterario; più precisamente, un senso di solitudine orgogliosa, un iroso distacco di stampo carducciano. Del resto, lo si sente dalle lettere, da certi suoi scritti giovanili, Carducci fu uno dei suoi autori prediletti, un maestro di stile e di vita.
    Se cerchiamo di guardare più a fondo, al di là di questi accenni sentimentali e letterari, ci par di scorgere, già nettamente segnata, qualche ispirazione garibaldina e mazziniana. Scriveva nel 1911: «Mi riassale il sogno garibaldino». E ancora: «La patria, diceva Mazzini, è la coscienza della patria. E io son figlio di Mazzini, oh ben più dei retori massonici». Affiora pure un certo repubblicanesimo (di tradizione forse familiare, oltre che letteraria), che al tempo della guerra libica gli faceva dire: «La nazione amministrata da Giolitti negli interessi monopolistici della dinastia borghese non ha il diritto di giubilare».
    Era un antigiolittiano, dunque. E questo suo antigiolittismo sarebbe sfociato in avversione per la politica neutralista. Scriveva nel maggio 1915 a Eugenio Donadoni: «Le confesso che preferirei morire in campo, non ostanti i mille legami che mi fanno cara la vita, che dovere arrossire d’essere italiano sotto il regime d’una pace giolittiana. Ma speriamo che i fati si compiano per il meglio d’Italia: tutto ora ammonisce che il mondo non è fatto per i fiacchi ed i vili». Più tardi, dopo la guerra (nel 1920), avrebbe visto e denunciato assai bene quanto di equivoco, di torbido, d’improvvisato fosse nell’interventismo di molti altri italiani, assai meno disinteressati e idealisti di lui. Ma, sul momento, la campagna per l’intervento lo colse alla sprovvista, come tanti altri della sua generazione, suscitando generici entusiasmi e lasciando nell’ombra il gioco delle effettive forze politiche. C’era ancora, nella sua posizione di quegli anni, non poco di confuso, d’indeterminato, di astratto.
    Il primo contatto con la realtà viva del suo paese Omodeo lo ebbe come combattente in guerra. Fu un’esperienza decisiva. Sopravvissero, e anzi si approfondirono gli ideali mazziniano-garibaldini, ma spogli ormai d’ogni ingenuo sentimentalismo, e rivestimento letterario. Nel settembre 1917, ricordava alla moglie la figura di Abba (che aveva conosciuto vecchio, di sfuggita), la sua meravigliosa semplicità. «Questa semplicità casta, dirò così, di chi opera grandi cose ed ha affrontato la morte, la ritrovo in tanti combattenti di questa guerra: pur in mezzo a molti fanfaroni e a molti piagnistei». Ma, pur sentendo i legami che lo avvincevano alla generazione dei padri che avevano fatto l’Italia, considerava ormai «remota l’epoca del Risorgimento». Scopriva l’immensa tragedia della guerra, l’atroce e disumana ecatombe così diversa e lontana dalla grandezza morale della scaramuccia di Calatafimi (come quelle di Valmy e di Maratona). La «guerra sofferta» aveva spento nel suo animo i canti del Carducci. Misurava ora tutta la responsabilità delle classi dirigenti, per aver condotto a combattere e a morire le masse dei contadini diseredati, degli analfabeti. Il suo problema individuale – di crearsi un ascendente sulle truppe, di «intendere la profonda umanità dei combattenti» - si risolveva in quello, gravissimo ma perentorio, di «animare la pigra mole della nazione fin nelle ultime molecole». Presagiva, per il dopoguerra, la necessità di dure battaglie politiche. Ma, intanto, il primo dovere suo e dei combattenti era di tener duro, di resistere al logorio d’ogni giorno. Dopo Caporetto, il ricordo dei cimiteri infiniti del Carso gli dà come un furore di rivincita, «qualcosa d’implacato e d’implacabile». Cresce lo sdegno, la «rabbia sorda» contro l’inettitudine degli alti comandi; ma sempre più egli riconosce che la guerra la sostengono e la reggono, con i soldati, gli ufficialetti, i tenentini di complemento: «è il lato bello della nostra borghesia che si nobilita in guerra». Da questa vissuta esperienza nasceranno poi, negli anni grevi del fascismo, i Momenti della vita di guerra.
    L’inquieto dopoguerra sembra risospingere Omodeo ai margini della vita politica, e condannare la «vecchia vedetta del Piave» - che nella battaglia del giugno 1918 aveva dato la piena misura della sua energia combattiva, della sua capacità di tenere in pugno gli uomini, animarli e guidarli, trarli fuori dalle difficoltà – alla malinconica funzione di una Cassandra inascoltata. Le idee politiche di Omodeo sono affidate più alle lettere private che agli scritti e all’azione pubblica: si esauriscono nella cerchia delle amare e pessimistiche recriminazioni, senza risonanza alcuna sull’opinione. Sembra una posizione senza vie d’uscita, senza appigli al pratico operare. Egli ha in uggia l’inettitudine dei governanti, «mosche cocchiere della politica», le «corbellerie enormi» dei nostri diplomatici, le «porcherie» degli alleati, l’opportunismo di Nitti. Giolitti, poi, «è più di un uomo: è un male nazionale». Gli pare di assistere al naufragio delle speranze nate sul Piave, alla dilapidazione della vittoria. «Siamo in piena Babele», scrive il 6 luglio 1919. E altre volte impreca alla nequizia dei tempi, ai «bollori bolscevichi», alle «paure borghesi». Le classi dirigenti hanno fatto bancarotta. In questa «fatale dissoluzione sociale», confessa: «Mi sento uno spostato, uno che non sa quale sia il suo posto di combattimento». Non ha nessuna simpatia per il socialismo, «partito antinazionale», per le agitazioni sociali, gli scioperi. Crede invece nella funzione attiva della borghesia, a cui vorrebbe affidato un compito di educazione e redenzione delle moltitudini. In uno dei pochi articoli di quegli anni scrive: «In questa crisi in cui pare che la borghesia perisca, bisogna ritornare a quei valori ideali che hanno costituito la borghesia stessa: in quanto essa è qualcosa di più di una coalizione d’interessi economici, è da più della coalizione plutocratica con cui la confonde il socialismo: non è una classe chiusa, ma la libera costituzione di un’aristocrazia d’intelligenza e di sapere, dinanzi a cui dovrà sempre inchinarsi qualunque partito ascenda al potere». Ma in quale modo questa borghesia debba fronteggiare i problemi politici dell’ora, Omodeo ancora non dice, non sa.
    Tutto si riduce a un risucchio d’idee appena abbozzate, di sentimenti e risentimenti, di personali predilezioni e avversioni, che non trova sfogo nella realtà, non si traduce in azione o predicazione politica. Certo, qualcosa di questi suoi intimi parteggiamenti e rifiuti e condanne (e altri potrà dire, di questi limiti e sordità) che si son venuti accennando, resterà a lungo in lui, e colorirà di sé, in qualche punto, anche i suoi scritti storici, e potrà suscitare, a seconda dei punti di vista, consensi o dissensi. Così Gramsci parlerà, a proposito dell’Età del Risorgimento e di qualche recensione, di spirito «conservatore e retrivo». Ma ci sembra che l’originale pensiero politico di Omodeo non vada cercato in questi solitari rimuginamenti, o in queste inevitabili coloriture dei suoi scritti. Esso nasce piuttosto, e si affina, dal cimento con la realtà. Fino a che non abbia trovato il suo «posto di combattimento», egli brancola incerto, e si sente uno «spostato». Ma, non appena si trova dinanzi a un problema concreto, a un male da combattere, a un dovere da compiere, subito il suo pensiero si fa ardito, nuovo, coraggioso, la sua parola s’infiamma di un bellissimo pathos morale. Ecco allora sfolgorare l’Omodeo politico: di cui i saggi raccolti nel presente volume dalla vedova e da Paolo Serini ci dànno la compiuta immagine.

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #2
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    Predefinito Re: Omodeo politico (1960)

    Si veda, ad esempio, come egli affronti, negli anni di solitudine e di disorientamento politico, fra il 1919 e il 1923, i due temi, strettamente congiunti, della crisi della scuola pubblica e dell’educazione clericale. Sono problemi ch’egli conosce benissimo, e che lo toccano da vicino, come insegnante e come studioso del cristianesimo. Avverte benissimo i nessi di questi problemi con la struttura della società e dello Stato. Fatalmente, quest’energica azione in difesa di una scuola seria, laica, moderna – riscattata da ogni meccanismo burocratico senz’anima, da ogni intrigo di preti, da ogni sopruso autoritario e fiacchezza supina – lo porterà ben presto a una posizione di aperta rottura col fascismo. Può sembrare una battaglia marginale, secondaria, e invece lo immette nel vivo della lotta politica del suo tempo. A questo punto, parlare di conservatorismo retrivo non avrebbe più senso.
    Ci voleva il fascismo perché si rivelasse nell’Omodeo la tempra del pensatore politico e del lottatore. Fu il fascismo a mettere in crisi il suo attualismo, a staccarlo da Gentile e dai suoi seguaci, a legarlo a Croce. Nel 1926, sotto le parvenze di una discussione dottrinale, di una critica dello «storicismo formalistico», attaccava con veemenza gli opportunisti che, riempendosi la bocca di formule astratte di sapore attualistico, si adagiavano in una posizione di passività irresponsabile di fronte agli eventi, e s’inchinavano alla forza bruta, al successo, celebrando servilmente la storia fatta dagli altri, simili all’aedo che rallegrava sia il banchetto dei Proci, sia il banchetto di Ulisse sterminatore dei Proci. Agli scrittorucoli che, come ormai volevano i tempi, idoleggiavano la forza, e i fastigi dell’Impero romano, opponeva, con chiaro intento polemico: «L’Impero romano, con buona pace di chi vuol farsene un ideale, non fu mai forte… I grandi imperi furono creati sempre, almeno finora, dalle democrazie o da regimi liberi». Due anni dopo, in un articolo inviato alla rivista «Leonardo», riprendendo il dibattito sullo storicismo in una più vivace polemica, reagiva alle false interpretazioni della formula «ciò che deve essere». Contro lo storico che sovrasta alla storia, come lo spirito divino alle acque, «passivo scriba degli eventi e dei fati», egli ammoniva ancora una volta che lo storicismo deve culminare nella visione di una libertà responsabile, che nella realtà possiamo e dobbiamo inserirci noi come forza operosa, che non basta sperare nel successo immancabile dello spirito, ma bisogna sempre attuarlo hic et nunc. Era ormai guerra dichiarata. E difatti con quell’articolo Omodeo si tirò addosso una prima denuncia politica. Non se ne turbò. Ruppe definitivamente con i gentiliani, e prese a scrivere sulla «Critica».
    Ebbe così inizio, in quello stesso anno – 1928 -, la collaborazione con Croce. Fu una lunga battaglia che, come tutti sanno, diede i suoi frutti. «Il silenzioso proposito – avrebbe poi ricordato Omodeo – era quello di non lasciar cadere quell’ultima posizione della cultura italiana incontaminata dal fascismo: la febbre di lavoro giungeva alla frenesia… Naturalmente quasi tutta la nostra produzione aveva un significato polemico e agonistico. Ma dire che la polemica alterasse la verità, che noi falsassimo la storia o la filosofia sarebbe calunnia. Noi davamo le verità di cui il mondo sentiva bisogno… Man mano che passavano gli anni più acuta e pungente diventava la nostra passione. La libertà la vivevamo davvero come una religione, talora col dubbio di non vederla più spuntare sul nostro orizzonte». Quest’opera implacabile di demolizione dei sofismi e dei falsi, di cui si pascevano i servitori del regime, era diventata sulla «Critica» sempre più, col passare degli anni, di spettanza di Omodeo. I suoi attacchi sembravano a volte esplosioni colleriche. Ma, com’egli stesso più tardi dirà, «quelle collere eran la forma stessa che assumono le idee quando han da combattere contro interessate passioni». Bene e coraggiosamente scriveva Luigi Russo sulla «Nuova Italia», nel 1930, prendendo le difese dell’amico impegnato in una acerba polemica con Gioacchino Volpe: «Il tono apparentemente feroce dell’Omodeo, è il suo stesso pathos di polemista, che mette nella battaglia tutto un suo doloroso sentimento civile degli studi, e che si esprime in forma accentuata, per quella pressione agonistica che oggi un po’ tutti subiamo, e che ci fa dire cose anche ovvie, sempre con l’impressione che altri ce lo voglia impedire».
    Ma, anche al di fuori di queste polemiche, tutta l’opera storiografica di Omodeo appariva come impregnata di una forte passione politica. Così i Momenti della vita di guerra, usciti a puntante sulla «Critica». L’opera si proponeva di rievocare «i sentimenti e le speranze di tanta parte dell’Italia che si lanciò in guerra per una più alta giustizia umana, col senso della tradizione mazziniano-garibaldina d’Italia». Non era solo un ritorno nostalgico alla propria vita di combattente, ma la rivendicazione – contro la falsa retorica patriottica e il culto sfrenato della forza che in quegli anni sommergevano il nostro paese – degli ideali di libertà. Era questo il chiaro significato polemico, politico dell’opera. I migliori italiani erano caduti per «salvare un più umano ideale di vita contro l’istinto nibelungico, belluino della guerra tedesca». (Quando queste parole furono scritte, già Hitler era salito al potere). In moltissime pagine è l’aperto biasimo d’ogni sistema politico basato sul soffocamento delle libere anime, sul culto della forza, sull’esaltazione guerriera. I giovinetti caduti sul Carso e sul Piave non dovevano il loro eroismo a «una educazione spartana, a un’amazonia mutilazione del loro animo». Idealmente, «essi appartenevano non alle palestre dell’Eurota, ma alle efebie di Atene». Dalle trincee insanguinate si levava, per bocca di Omodeo, la più severa condanna del regime fascista; non era possibile fraintenderla. Ma la stessa condanna si levava pure, a saper leggere tra le righe, dagli altri scritti di quegli anni sul Risorgimento, su de Maistre, sulla Restaurazione. Fu, nel complesso, un alto insegnamento politico, impartito in solitudine, con la segreta speranza che qualcuno (ma quanti?), tra le generazioni più giovani, riuscisse a intenderlo. Nel 1946, all’indomani della morte di Omodeo, cercai di spiegare, in uno scritto in cui era ancora l’angoscioso smarrimento per l’improvvisa scomparsa del maestro, che cosa fosse stato quell’insegnamento per me e per tanti altri della mia età: una professione di fede nella libertà, un incitamento all’azione. Oggi, a tanta distanza di anni, e in una più pacata e fredda prospettiva, non potrei che confermare quel mio giudizio.
    Non ripeterò le cose già dette allora, se non questa: che nei suoi scritti storici apparsi negli ultimi anni del periodo fascista si poteva percepire un pensiero politico nuovo. Accanto alla preoccupazione di salvare le tradizioni di libertà ereditate dal Risorgimento, affiorava la sollecitudine d’altri problemi, sociali e internazionali, che la storia di quegli anni portava alla ribalta, e che anche l’Italia, una volta liberatasi dal fascismo, avrebbe dovuto affrontare. In uno studio su de Maistre si leggeva: «Anche la più liberale teoria, la quale afferma l’impossibilità dell’egualitarismo, trova il suo limite dinanzi al concreto dolore, alla negata giustizia, dove appunto comincia il dovere umano. Lo svolgimento della personalità e del libero giuoco delle energie non deve escludere la massima giustizia ed eguaglianza nel punto di partenza e lo sforzo di ogni uomo di riscattarsi dal fatale retaggio del passato e costituirsi in libera personalità». La redenzione di strati sociali oppressi era un problema che la libertà stessa, rettamente intesa, avrebbe posto nel concreto. Omodeo sentiva, e faceva sentire in molte sue pagine, che la vita dei popoli era complicata e depressa da un difetto nella circolazione di beni economici, da sfrenati egoismi di ceti, da arretratezza di strutture sociali. La libertà avrebbe dovuto investire, col suo ritmo impetuoso, queste impalcature. Guai se ci si fosse abbandonati al sogno di una semplice restaurazione dei vecchi ordinamenti! Nessuno come lui (che pur resterà come lo storico della civiltà liberale del primo Ottocento, di cui ritrasse tutta l’umana grandezza) sentì i limiti e le angustie dei liberali del 1830, che avevano ancorato la libertà a egoistiche, immobili situazioni di privilegio. E invece, si sarebbe dovuto «dare a quelle idee e a quei convincimenti una forza espansiva perpetua, aver coscienza che una civiltà la si mantiene solo irradiandola, che la libertà necessariamente limitata entro la sfera di chi è capace di sentirla, rovina se non sa conquistare chi è oggi ad essa estranea e domani deve necessariamente divenire nemico».
    Egli insisteva su questo concetto della libertà espansiva, liberatrice, che per sopravvivere non deve arrestarsi dinanzi a barriere sociali o a confini nazionali. In una recensione della Storia d’Europa dell’inglese Fisher, osservava che l’Inghilterra aveva commesso l’errore (anch’esso espiato) di adagiarsi in quella forma di liberalismo a cui Mazzini rimproverava di avere per motto «libertà per chi la possiede», e tollerato che la libertà fosse impunemente calpestata in altri paesi d’Europa, senza accorgersi del pericolo che ciò rappresentava per la sua stessa libertà. Egli rilevava una certa riluttanza della mentalità insulare, ancora sopravvivente in Inghilterra, a espandere la libertà, a promuovere un affratellamento dell’Europa. «Tutto ciò imporrebbe un processo di adeguamento e di compenetrazione dei popoli ben più profondo che non una lega puramente diplomatica, perché le anfizionie e le diete diplomatiche nella storia d’Europa, da Filippo di Macedonia a Ottone di Bismarck, ben lungi dall’unificare crearono sempre discordie e occasioni di guerra».
    Era un pensiero politico proteso al domani, che indicava il cammino e spronava all’azione, ed era fatto per infondere un robusto ottimismo. Ma solo chi conobbe da vicino Omodeo sa in quale tormentosa solitudine nascessero quelle sue pagine. Un’angosciata amarezza lo stringeva sempre più di anno in anno, ne logorava le fibre vitali una a una. Il suo spirito avrebbe avuto bisogno di espandersi, di comunicare liberamente con gli altri, di cimentarsi nelle lotte aperte. Egli non era fatto per l’attività e la mentalità cospiratoria. (Forse anche per questo, non intendeva appieno il valore dei movimenti cospirativi di quegli anni). E soffriva dell’inazione a cui il fascismo lo inchiodava, del silenzio che gli gravava intorno. Crudelissimi dolori familiari ne avevano ancora incupito l’animo. E in certi momenti gli pareva che i giovani non intendessero più la sua fede, e fatalmente se ne staccassero. Risorgeva allora in lui, dall’amareggiato sgomento, la disperata ostinazione di Mazzini. Scriveva alla moglie, nel 1936: «Io non critico la gioventù, non predico né rinunzia né sacrifizio agli altri: ma sento la mia vita legata a una missione, ad affermare un mio ideale… Certo anch’io sento e soffro l’oppressione della dura vita. Ma è stato formalismo puritano quello che ce l’ha resa così pungente?» No, era stata la coscienza del dovere da compiere, giorno per giorno. «Solo in questa maniera ho potuto liberarmi dal cattolicesimo e da ogni religione estrinseca». E infine, Omodeo soffriva nel sentire avvicinarsi la catastrofe della patria, l’inevitabile nemesi. Il suo intimo affanno sembra trapelare dalle parole scritte a proposito della Francia negli ultimi anni dell’impero napoleonico: «un’angoscia senza scopo, il sentimento amaro di non essere in grado di influire sui destini della patria determinò l’impietramento con cui la Francia assistette alla catastrofe del 1814».

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    Predefinito Re: Omodeo politico (1960)

    Da questo impietramento lo trae, nel luglio 1943, la caduta di Mussolini. Egli si sente, d’un tratto, sollevato dall’incubo ventennale; ma è anche preoccupato per i gravi problemi, le nuove responsabilità. Non si abbandona alla facile euforia di tanti altri italiani. Il protrarsi della guerra «contro la libertà» e l’atteggiamento della monarchia e di Badoglio lo insospettiscono. Dalle colonne del «Corriere della Sera» ammonisce che l’elogiare la libertà non coincide con l’attuarla; che la libertà di sfogarsi a parole, di dir forte ciò che un mese prima non si osava dire dinanzi a due persone, non basta; che occorre por mano ai concreti problemi creati dalla situazione. Su uno di tali problemi, quello della libertà di stampa, dice cose che ancora oggi potrebbero essere utilmente meditate. Non basta accampare l’astratta possibilità di creare giornali di diversi indirizzo, in concorrenza tra loro. «Tale argomento include un difetto consimile ai motivi del liberalismo economico, che vengono ripetuti ancora in favore di regimi in cui la libera concorrenza è già stata cacciata dal monopolio che ha trionfato. Bisogna creare perentoriamente le condizioni della libera concorrenza. E non lasciarne sussistere ipocritamente le vane parvenze». È un giudizio acutissimo. Omodeo, in questo come in altri problemi, non si contenta di formule, ma vuole che si pongano i primi fondamenti della libertà costruttrice; e suggerisce il da farsi. È uno dei non molti italiani che, nei quarantacinque giorni, hanno visto chiaro.
    Con l’armistizio del settembre, cominciano le ore più tragiche della nostra storia recente, e comincia pure la grande stagione del pensiero e dell’azione politica di Adolfo Omodeo, finalmente libero di dedicare tutto se stesso a una grande opera per la patria, come aveva sognato negli anni giovanili. La maggior parte degli scritti qui raccolti appartiene a questo periodo di appena due anni e mezzo, dal settembre 1943 alla primavera del 1946, quando la malattia lo vinse. La loro lettura ci rivela come il pensiero e l’azione si siano in lui mazzinianamente compenetrati e fusi. Rettore, riapre l’Università di Napoli appena liberata, tra le macerie ancora fumanti, e si batte coraggioso per rivendicarne, fin dai primi giorni, l’autonomia e la dignità. Invita gli studenti ad accorrere alle armi, a farsi partigiani, a tornare alle pure tradizioni garibaldine, a ricostruire la patria mazziniana, umana. Agli alleati parla da uomo libero, con fierezza, ricordando anche le loro corresponsabilità verso il fascismo.
    In un discorso al generale Hume, del novembre 1943, è fatto cenno della necessità di una confederazione europea. È una delle idee centrali di Omodeo. Già gli studi su Cavour e Mazzini gliene avevano fatto sentire l’ineluttabilità storica (come appariva dalla già citata recensione del Fisher). Ma la sua prima, splendida formulazione risaliva al turbinoso periodo dei quarantacinque giorni. Era il frutto di tante amare meditazioni sotto il fascismo: «Non abbiamo dormito in questi anni, e abbiamo compreso situazioni e criticato orientamenti su cui altri popoli, di noi più fortunati, non hanno fermato adeguatamente l’attenzione». Qualcosa, del passato, deve essere distrutto e sepolto, se non si vuole ricadere nei vecchi errori così duramente espiati. Ma l’importante è avere il senso del limite, di ciò che può e deve esser fatto subito, del graduale avviamento a forme confederali, secondo l’esempio dato dagli Stati Uniti o dalla Svizzera. In queste bellissime pagine il sogno generoso, che par quasi sfiorare l’utopia, si congiunge a un accorto realismo, che soppesa le difficoltà e le resistenze. Più tardi, finita la guerra in Europa, Omodeo vedrà con dolore dileguare, almeno come prospettiva immediata, la patria europea; ma non l’abbandonerà per questo. Essa dovrà essere imposta con lunga opera di persuasione; è la sola via d’uscita dai mali che travagliano l’Europa.
    Ma orientare gli spiriti verso un’unione europea non bastava. C’era una battaglia da dare subito, per Omodeo, senza indugi e compromessi: contro la monarchia e il «governuccio» di Brindisi. Ed egli fece di tutto perché questa battaglia fosse combattuta e vinta. Se il problema istituzionale fu sentito a un certo punto in tutta la sua gravità, come un nodo decisivo della nostra storia, da cui dipendeva l’avvenire del paese, lo si deve anche alla tenacia caparbia e inflessibile di Adolfo Omodeo. Non si trattava di una battaglia donchisciottesca contro mulini a vento, come qualcuno allora pensò; ma della precisa, realistica individuazione di forze insidiose e occulte che, appoggiandosi a taluni esponenti della politica alleata, ad alti comandi, alla vecchia burocrazia, e perfino ad ambienti di un risorgente neofascismo, andavano tramando «complotti borbonici», e dovevano essere smascherate e ridotte all’impotenza.
    In quei mesi di forte tensione politica, si può dire che al centro di tutto il pensiero e la condotta di Omodeo venga a porsi l’idea che, come abbiamo visto, era rampollata dalle meditazioni e dai suoi stessi studi storici degli ultimi anni: l’idea della libertà espansiva, liberatrice. «Noi abbiamo appreso con durissime esperienze che la libertà si mantiene solo espandendosi, ampliando la cerchia dei liberi, combattendo una lotta perenne contro tutte le servitù»: così diceva alla Radio di Napoli il 16 novembre 1943. E più tardi dirà: «La libertà s’incarna sempre in problemi che in apparenza le sono estranei… Esistono sempre i problemi di liberazione, di costruzione della libertà, oltre la routine della fruizione della libertà». Questo bene supremo, la libertà, non può restarsene frigido e immacolato sulle vette supreme, ma si afferma volta per volta in determinate azioni e conquiste, e «in sintesi con un contenuto: in rivendicazione nazionale con Camillo Cavour, in conquiste di nuovi ordinamenti sociali domani». Libertà generatrice di giustizia, e non ad essa affiancata in forma di endiadi (come nella formula del «liberalsocialismo» che Omodeo, al pari di Croce, respingeva). «Io, storico diligente, e grande ammiratore del Cavour, ho sentito in questo odierno rivoluzionamento il risorgere di un nuovo mazzinianesimo, libero dalle vecchie scorie, e in questa intuizione espansiva della libertà credo si trovi in concreto la conciliazione e la sintesi organica delle due esigenze che talora paiono in discordia, della libertà e delle riforme sociali».
    Per questo egli aveva aderito al Partito d’azione: i cui uomini gli apparvero mossi alla lotta da un anelito di libertà che andava ben oltre il dottrinarismo liberale della fine dell’Ottocento. E per la stessa ragione aveva preso posizione contro il Partito liberale, in cui scorgeva, fin d’allora, troppa timidezza conservatrice. Nei confronti di questo partito, egli ebbe parole durissime. Ma anche con molti uomini del suo stesso partito si trovò spesso in disaccordo, per ragioni dottrinali o di politica contingente. La sua fu, spesso, una posizione solitaria e scontrosa; e non andò esente da qualche errore, o eccesso di severità, nel valutare talune situazioni o persone. Ma, nel complesso, si deve riconoscere ch’egli vide assai bene molte contraddizioni ed equivoci della polemica dei partiti in quegli anni, e presentì acutamente le fratture, i ripiegamenti e le involuzioni degli anni a venire.

    (...)
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    Predefinito Re: Omodeo politico (1960)

    Gli è che il concetto della «libertà liberatrice» era ben più di una brillante formula: era il problema dell’Italia moderna, che Omodeo voleva coraggiosamente affrontato. Più volte, sotto il fascismo, lo aveva assalito il dubbio che fra lui e i giovani si fosse creata un’incomprensione, un distacco, che la nuova generazione vivesse sotto un altro segno. Un giorno, nel 1935, aveva perfino confidato alla moglie: «Lo sgomento che faccio ai giovani, è un po’ quello dell’anacoreta… Quest’aspirazione a libera e autonoma vita che è l’esigenza mia prima, fa a loro l’impressione che alla capra farebbe la vita dello stambecco». Da questo assillo, nel corso dei suoi ultimi studi, era nata l’idea di una libertà espansiva, liberatrice, che investe le vecchie strutture, si estende ad altri ceti, si realizza in ardite riforme sociali. L’Italia, uscita dalla catastrofe, non sarebbe potuta tornare al liberalismo prefascista. Volerla irrigidire in questo tentativo di conservazione, sarebbe stato, più ancora che un’ingiustizia, un antistorico errore. Bisognava dunque avere il coraggio di battere vie nuove: ma col metodo della libertà, questo era l’essenziale. Così come Cavour aveva affrontato e risolto il problema sociale, fuori degli schemi del dottrinarismo liberale: quel Cavour che, per la sua capacità di azione trasformatrice, era uno spirito più rivoluzionario di Pisacane. Su questa via, Omodeo sperava d’incontrare la generazione che in quegli anni stava facendo le sue prove, nel travaglio dell’antifascismo e della Resistenza. Questo atteggiamento gli costò pure dolorosi distacchi, e incomprensioni amare. Ma non per questo vacillò; e nell’aprile 1945 scriveva alla moglie: «Io credo d’aver veduto giusto: senza uno slancio generoso, un coraggio quasi temerario, uno spirito d’abnegazione, non si può riconquistare alla libertà la nostra generazione… Cercare di fondarla sugli interessi conservatori di gruppi egoisti è per me errore gravissimo, che compromette una battaglia in corso per un ordinamento di libertà in cui devono invece sistemarsi classi nuove che la guerra ha risvegliate».
    Ma si avrebbe un’idea incompleta di Omodeo politico, se in lui si vedesse soltanto questo anelito missionario a una libertà liberatrice. C’era anche in lui – e l’affermazione non sorprenda – qualcosa della cavouriana capacità di azione trasformatrice. Egli disse una volta: «Io sono per l’azione che incide l’artiglio sulle cose e lascia il segno, contro certo rivoluzionarismo generico e verbale». Fra gli uomini del suo partito, e in genere fra quelli usciti dal dramma della Resistenza, emergeva per la visione precisa, robusta, realistica dei problemi da affrontare: una dote purtroppo assai rara nella nuova classe politica, pur così ricca d’ispirazioni morali e politiche. Era anche l’uomo che pagava di persona, che non si sottraeva a nessuna responsabilità. Rettore dell’Università di Napoli, fondatore del circolo Pensiero e azione, ministro dell’Istruzione, scrittore di giornali e riviste, ufficiale volontario di artiglieria, membro della Consulta: tutto questo egli fu in due anni, quasi per vendicarsi, in una frenesia di lavoro, dell’inazione ventennale a cui lo aveva costretto il fascismo. Ma specialmente, lo ripetiamo, egli spiccava per l’energia e la chiarezza con cui individuava e affrontava i problemi politici del momento. Molte pagine di questo volume ce ne dànno una testimonianza stupenda.
    Si veda quel ch’egli scrisse sulle forze armate, l’epurazione, il problema tedesco, la riforma della scuola, la crisi del Parlamento e dei partiti, la politica estera dell’Italia e le zone d’influenza in Italia e nel mondo, le autonomie regionali. Non sempre, è ovvio, si potrà consentire sui suoi giudizi. (Così, per quel che riguarda le autonomie, è strano il suo silenzio sul pensiero di Carlo Cattaneo, il cui nome non ricorre una sola volta in tutto il libro: e ce n’è di molto meno significativi). Ma è sorprendente, sempre, accanto al vigore polemico, il realismo prudente, la proposta precisa e concreta, la consapevolezza degli ostacoli e il senso del limite. Su questo aspetto del suo pensiero politico (spesso sfuggito all’attenzione dei suoi ammiratori) non si insisterà mai abbastanza. Egli additava con acutezza il pericolo «di tentare di attuare politicamente riforme che non riusciamo a formulare giuridicamente». Un giurista come Calamandrei, che lavorò accanto a lui alla Consulta, ebbe a dire: «Perfino nel campo giuridico e costituzionale la sua scienza era talmente prodigiosa da darmi soggezione». Egli già vedeva, alla fine del ’45, quali riforme fossero mature nell’ambito di una vasta volontà nazionale, e pertanto si sarebbero dovute enunciare nella futura Costituzione; e quali invece si sarebbero dovute rinviate ad altra sede. Non si può non pensare al grande contributo che un uomo come lui avrebbe dato ai lavori della Costituente. E anche dopo, in tutti questi anni di contrastata applicazione, o addirittura di disapplicazione, dei principî costituzionali, la sua voce severa e ammonitrice sarebbe stata preziosa: proprio perché avrebbe evitato la predicazione astratta, la petizione dei grandi principî, e avrebbe inciso, come una lama di coltello, nel vivo delle cose.
    La straordinaria ricchezza delle considerazioni e dei richiami storici (perfino di storia antica!) in questi scritti di politica attuale potrà stupire qualche lettore, e forse anche apparirgli una ridondanza culturale, come se l’Omodeo storico avesse in qualche momento preso la mano all’Omodeo politico. Ma sarebbe un’impressione fallace: perché proprio dalla conoscenza storica del passato, dall’essersi per anni e anni travagliato nello studio di altre civiltà, più o meno lontane nel tempo, derivava al nostro studioso una visione lucida e disincantata del presente, sgombra di tutte le illusioni e i miraggi che la situazione politica del momento spesso fa sorgere. Si veda, per convincersene, lo scritto sul totalitarismo cattolico: che è tra i più belli della raccolta. Poteva sembrare, quando uscì, fin troppo severo. Ma esso nasceva – oltre che da una fortissima coscienza civile – da una mirabile padronanza della storia della Chiesa. E bisogna dire che i fatti di questi quindici anni – con la sfacciata invadenza e i soprusi di un rinnovato clericalismo – hanno confermato l’acutissima diagnosi di Omodeo.
    La caratteristica di questi scritti è dunque da porsi nel continuo trapassare del pensiero storico in pensiero politico. E come il primo illumina il secondo, dandogli profondità e chiarezza di prospettive, così questo stimola il primo a nuove ricerche, a nuovi ripensamenti. Tutto il corso della produzione storiografica di Omodeo, e specialmente il suo volgersi dalle origini cristiane all’età moderna, lo dimostra. Potremmo anche dire che negli ultimi anni di battaglia (gli anni del roveto ardente, come li chiama A. C. Jemolo) il prepotere della passione politica si riflette in una nuova, ardita caratterizzazione di alcune grandi personalità storiche. Così, Cavour e Mazzini ci appaiono, nelle ultime pagine di Omodeo, diversi da come egli stesso li aveva prima considerati: un po’ troppo moderni, direi, e quasi fuori del loro tempo, come consapevoli realizzatori di una specie di convergenza fra l’ideale liberale e l’ideale democratico, e simbolici precursori della «libertà liberatrice».

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    Predefinito Re: Omodeo politico (1960)

    Questo, che abbiamo cercato di ricostruire nei suoi momenti essenziali, fu il pensiero politico di Adolfo Omodeo. Lo abbiamo visto sorgere, fervidamente ingenuo, negli anni della prima giovinezza, e poi affrontare il primo collaudo della realtà, fra i soldati del Carso e del Piave; ripiegarsi incerto e come in attesa, nella confusione del primo dopoguerra; acquistare d’un tratto nerbo e originalità nella resistenza al fascismo, dalle pagine della «Critica» e dai volumi di storia; divampare altissimo, infine, negli anni critici del trapasso dalla tirannide alla libertà. È un pensiero che ha contato non poco nella storia del nostro paese; e oggi ancora ha da dirci qualcosa, se sapremo e vorremo intenderlo. Perché il compito della «libertà liberatrice» non è finito, in Italia e nel mondo.
    Spesso affiora da questi scritti, come dalle sue lettere, un tono cupo e desolato. Omodeo non fu un uomo sereno (come non lo fu Mazzini). Una mortale stanchezza lo minava da anni, un senso amaro del fallimento della sua generazione, un’angoscia soffocata per le sorti dell’Italia e dell’umana civiltà. Confessò una volta di tirare avanti solo «per disperata coscienza di dovere». Ma, quando l’ora dell’azione fu giunta, tutto egli represse di sé, stanchezza e amarezza e angoscia, in uno spasimo estremo di energia, e si addossò responsabilità immani, e si sprofondò nel lavoro. E intanto diceva agli italiani parole di fede. Ricordava alla classe politica che un dovere primeggiava su tutti: «vincere la stanchezza e l’amarezza, se si vuole salvare l’Italia da nuove sventure». E fieramente incitava i dubbiosi a ritrovare un orgoglioso senso di dignità: «Si tratta di tendere a quella dignità civile che ha il figlio della libera Inghilterra. Non vale obiettarci il pigro argomento economico che quelli sono popoli ricchi e noi siamo poveri. Poveri erano anche gli Ateniesi nei giorni di Clistene, poveri erano gli Svizzeri quando crearono la loro repubblica cantonale. Si tratta di trarre da noi un nuovo fiammeggiare di dignità morale e civile». E ancor meno degno sarebbe stato l’opporre, a giustificazione della propria inerzia, lo spettacolo della altrui debolezza e viltà: «Si può avere la vergogna e il rossore fino alla radice dei capelli, ma per il proprio popolo si deve continuare a operare e a soffrire sinché si avrà un soffio vitale». Il male lo schiantò, la morte lo colse in questo pieno fervore di pensiero e di azione. Fu una fine esemplare.
    Omodeo credeva negli «ideali che operano nel mondo, che sono in noi, che sopravviveranno». Era una concezione laica della vita, la quale dice agli uomini «che attraverso l’opera loro una qualche rivelazione si compie, piccola quanto si voglia, ma che si riaccenderà nei figli o nei discepoli, si propagherà, forse anche senza che il singolo ne abbia coscienza, attraverso l’esempio, mediante il lavoro tenace, in un nuovo costume che consenta agli uomini se non la felicità un più vasto respiro». Per questa sua fede nella vita, poco prima di morire egli aveva posto in testa a una breve raccolta di suoi scritti politici le parole: «A queste idee io tengo fermo, e per esse invoco nuovi seguaci anche più fermi e fervidi di me. Credidi, propterea locutus sum».

    Alessandro Galante Garrone

    https://musicaestoria.wordpress.com/...politico-1960/
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