Adolfo Omodeo (Palermo, 1889 - Napoli, 1946)
di Alessandro Galante Garrone – Introduzione a A. Omodeo, “Libertà e storia. Scritti e discorsi politici”, Einaudi, Torino 1960, pp. XI-XXVIII.
Che Adolfo Omodeo, lo storico delle origini del Cristianesimo, avesse sempre studiato la storia dei tempi a noi più vicini, per intimo bisogno di uomo moderno, lo si era, se non saputo, intuito; e ce lo confermò del resto Benedetto Croce. Così pure, caduto il fascismo, il suo vigoroso apparire sulla scena politica parve a tutti, e specialmente a chi ne aveva seguito l’opera storiografica, non un’improvvisazione, bensì il maturo esplicarsi di una vocazione lungamente sentita, e per tanti anni macerata in solitudine. Ma quel che non si sapeva, e sarà a tutti rivelato – speriamo presto – dal bellissimo suo epistolario, è che un preciso proposito di studiare il Risorgimento, e, insieme, di assolvere una missione politica a servizio del proprio paese si era già radicato in lui sin dalla prima giovinezza. Era ancora studente quando, nel novembre 1911, confidava a colei che doveva diventare la compagna della sua vita: «Vedo chiaramente la mia via. Devo prima fortemente affermarmi nel mondo del pensiero, e dopo aver preso dominio del passato affrontare il presente con tutti i suoi problemi… Voglio rivelare, come storico, una vita quasi del tutto obliata da noi moderni latini: la vita del cristianesimo nei suoi grandi momenti. Voglio però abbracciare insieme parecchie attività: voglio studiare anche il nostro Risorgimento. Acquistare coscienza di tutto il movimento storico che ci ha creati significa dominare col pensiero anche il momento presente: la storia mi condurrà dinanzi ai problemi politici dei nostri giorni».
Sentiva, allo scoppio della guerra libica, «angoscia per la patria». E, studente, sognava di dedicarsi a un’opera di redenzione civile: «Avrò io la forza di creare la patria nuova, la coscienza nuova d’Italia? L’aspirazione è immensa, e talora mi sento piccolo e sgomento… In questo vasto ideale converge, anche se non sembra, tutta la mia vita, e lo storico e l’erudito vi collaborano, anche se non immediatamente». Un anno dopo confidava: «Sento che, se anche un insuccesso colpisse ora l’Italia, la mia coscienza d’italiano potrebbe gemerne, ma non rimanerne fiaccata… Non è boria, ma coscienza civile… Quando rotte le prime linee venisse l’ora mia, io mi ci metterei con tutte le mie forze… Non mi considererei inetto ad una grande opera per l’Italia, quando il momento giungesse». Più di trent’anni dopo, giunto il momento della catastrofe della patria, Adolfo Omodeo, ormai libero di parlare e di agire dopo la ventennale oppressione del fascismo, avrebbe mantenuto il giovanile impegno. Quel che qui ci preme far notare sono le remote origini del suo politico meditare e operare e il convertirsi, in lui così caratteristico, dell’interesse storiografico in appassionata partecipazione alle sorti del proprio paese e della civiltà moderna.
Ma se è facile cogliere questo segreto e lontano scaturire della sua passione civile, meno facile è cercar di definire il suo orientamento politico, negli anni che precedono la prima guerra mondiale. Troppo poco sappiamo delle sue predilezioni e inclinazioni (tranne gli entusiasmi dell’adolescente per Rousseau e la rivoluzione francese); né del resto egli svolse delle attività pubbliche o prese delle posizioni che ci permettano di dire per quali schieramenti politici parteggiasse, in quella che poi fu detta l’«età giolittiana». Forse è esatto dire ch’egli si sentì e si tenne ad essi estraneo, appartato in un isolamento sdegnoso. C’era senza dubbio, nel suo atteggiamento politico, un che di sentimentale e di letterario; più precisamente, un senso di solitudine orgogliosa, un iroso distacco di stampo carducciano. Del resto, lo si sente dalle lettere, da certi suoi scritti giovanili, Carducci fu uno dei suoi autori prediletti, un maestro di stile e di vita.
Se cerchiamo di guardare più a fondo, al di là di questi accenni sentimentali e letterari, ci par di scorgere, già nettamente segnata, qualche ispirazione garibaldina e mazziniana. Scriveva nel 1911: «Mi riassale il sogno garibaldino». E ancora: «La patria, diceva Mazzini, è la coscienza della patria. E io son figlio di Mazzini, oh ben più dei retori massonici». Affiora pure un certo repubblicanesimo (di tradizione forse familiare, oltre che letteraria), che al tempo della guerra libica gli faceva dire: «La nazione amministrata da Giolitti negli interessi monopolistici della dinastia borghese non ha il diritto di giubilare».
Era un antigiolittiano, dunque. E questo suo antigiolittismo sarebbe sfociato in avversione per la politica neutralista. Scriveva nel maggio 1915 a Eugenio Donadoni: «Le confesso che preferirei morire in campo, non ostanti i mille legami che mi fanno cara la vita, che dovere arrossire d’essere italiano sotto il regime d’una pace giolittiana. Ma speriamo che i fati si compiano per il meglio d’Italia: tutto ora ammonisce che il mondo non è fatto per i fiacchi ed i vili». Più tardi, dopo la guerra (nel 1920), avrebbe visto e denunciato assai bene quanto di equivoco, di torbido, d’improvvisato fosse nell’interventismo di molti altri italiani, assai meno disinteressati e idealisti di lui. Ma, sul momento, la campagna per l’intervento lo colse alla sprovvista, come tanti altri della sua generazione, suscitando generici entusiasmi e lasciando nell’ombra il gioco delle effettive forze politiche. C’era ancora, nella sua posizione di quegli anni, non poco di confuso, d’indeterminato, di astratto.
Il primo contatto con la realtà viva del suo paese Omodeo lo ebbe come combattente in guerra. Fu un’esperienza decisiva. Sopravvissero, e anzi si approfondirono gli ideali mazziniano-garibaldini, ma spogli ormai d’ogni ingenuo sentimentalismo, e rivestimento letterario. Nel settembre 1917, ricordava alla moglie la figura di Abba (che aveva conosciuto vecchio, di sfuggita), la sua meravigliosa semplicità. «Questa semplicità casta, dirò così, di chi opera grandi cose ed ha affrontato la morte, la ritrovo in tanti combattenti di questa guerra: pur in mezzo a molti fanfaroni e a molti piagnistei». Ma, pur sentendo i legami che lo avvincevano alla generazione dei padri che avevano fatto l’Italia, considerava ormai «remota l’epoca del Risorgimento». Scopriva l’immensa tragedia della guerra, l’atroce e disumana ecatombe così diversa e lontana dalla grandezza morale della scaramuccia di Calatafimi (come quelle di Valmy e di Maratona). La «guerra sofferta» aveva spento nel suo animo i canti del Carducci. Misurava ora tutta la responsabilità delle classi dirigenti, per aver condotto a combattere e a morire le masse dei contadini diseredati, degli analfabeti. Il suo problema individuale – di crearsi un ascendente sulle truppe, di «intendere la profonda umanità dei combattenti» - si risolveva in quello, gravissimo ma perentorio, di «animare la pigra mole della nazione fin nelle ultime molecole». Presagiva, per il dopoguerra, la necessità di dure battaglie politiche. Ma, intanto, il primo dovere suo e dei combattenti era di tener duro, di resistere al logorio d’ogni giorno. Dopo Caporetto, il ricordo dei cimiteri infiniti del Carso gli dà come un furore di rivincita, «qualcosa d’implacato e d’implacabile». Cresce lo sdegno, la «rabbia sorda» contro l’inettitudine degli alti comandi; ma sempre più egli riconosce che la guerra la sostengono e la reggono, con i soldati, gli ufficialetti, i tenentini di complemento: «è il lato bello della nostra borghesia che si nobilita in guerra». Da questa vissuta esperienza nasceranno poi, negli anni grevi del fascismo, i Momenti della vita di guerra.
L’inquieto dopoguerra sembra risospingere Omodeo ai margini della vita politica, e condannare la «vecchia vedetta del Piave» - che nella battaglia del giugno 1918 aveva dato la piena misura della sua energia combattiva, della sua capacità di tenere in pugno gli uomini, animarli e guidarli, trarli fuori dalle difficoltà – alla malinconica funzione di una Cassandra inascoltata. Le idee politiche di Omodeo sono affidate più alle lettere private che agli scritti e all’azione pubblica: si esauriscono nella cerchia delle amare e pessimistiche recriminazioni, senza risonanza alcuna sull’opinione. Sembra una posizione senza vie d’uscita, senza appigli al pratico operare. Egli ha in uggia l’inettitudine dei governanti, «mosche cocchiere della politica», le «corbellerie enormi» dei nostri diplomatici, le «porcherie» degli alleati, l’opportunismo di Nitti. Giolitti, poi, «è più di un uomo: è un male nazionale». Gli pare di assistere al naufragio delle speranze nate sul Piave, alla dilapidazione della vittoria. «Siamo in piena Babele», scrive il 6 luglio 1919. E altre volte impreca alla nequizia dei tempi, ai «bollori bolscevichi», alle «paure borghesi». Le classi dirigenti hanno fatto bancarotta. In questa «fatale dissoluzione sociale», confessa: «Mi sento uno spostato, uno che non sa quale sia il suo posto di combattimento». Non ha nessuna simpatia per il socialismo, «partito antinazionale», per le agitazioni sociali, gli scioperi. Crede invece nella funzione attiva della borghesia, a cui vorrebbe affidato un compito di educazione e redenzione delle moltitudini. In uno dei pochi articoli di quegli anni scrive: «In questa crisi in cui pare che la borghesia perisca, bisogna ritornare a quei valori ideali che hanno costituito la borghesia stessa: in quanto essa è qualcosa di più di una coalizione d’interessi economici, è da più della coalizione plutocratica con cui la confonde il socialismo: non è una classe chiusa, ma la libera costituzione di un’aristocrazia d’intelligenza e di sapere, dinanzi a cui dovrà sempre inchinarsi qualunque partito ascenda al potere». Ma in quale modo questa borghesia debba fronteggiare i problemi politici dell’ora, Omodeo ancora non dice, non sa.
Tutto si riduce a un risucchio d’idee appena abbozzate, di sentimenti e risentimenti, di personali predilezioni e avversioni, che non trova sfogo nella realtà, non si traduce in azione o predicazione politica. Certo, qualcosa di questi suoi intimi parteggiamenti e rifiuti e condanne (e altri potrà dire, di questi limiti e sordità) che si son venuti accennando, resterà a lungo in lui, e colorirà di sé, in qualche punto, anche i suoi scritti storici, e potrà suscitare, a seconda dei punti di vista, consensi o dissensi. Così Gramsci parlerà, a proposito dell’Età del Risorgimento e di qualche recensione, di spirito «conservatore e retrivo». Ma ci sembra che l’originale pensiero politico di Omodeo non vada cercato in questi solitari rimuginamenti, o in queste inevitabili coloriture dei suoi scritti. Esso nasce piuttosto, e si affina, dal cimento con la realtà. Fino a che non abbia trovato il suo «posto di combattimento», egli brancola incerto, e si sente uno «spostato». Ma, non appena si trova dinanzi a un problema concreto, a un male da combattere, a un dovere da compiere, subito il suo pensiero si fa ardito, nuovo, coraggioso, la sua parola s’infiamma di un bellissimo pathos morale. Ecco allora sfolgorare l’Omodeo politico: di cui i saggi raccolti nel presente volume dalla vedova e da Paolo Serini ci dànno la compiuta immagine.
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