Arturo Carlo Jemolo (Roma, 1891-1981)
A cura di Pio Fedele - In «Nuova Antologia», a. CXXVI, fasc. 2179, luglio-settembre 1991, Le Monnier, Firenze, pp. 5-45.
In uno dei più drammatici periodi della millenaria storia di questa nostra povera Italia, vide la luce un quindicinale, fondato nel gennaio del 1945 e diretto con giovanile entusiasmo da Guido Astuti e dal sottoscritto. Astuti lo volle chiamare «Meridiano». Ebbe una vita intensa, ma brevissima, poco più di un anno. Un tragico evento – uno dei tanti che a Roma ed in tutto il nostro paese accadevano più di una volta, al giorno – troncò improvvisamente la giovane vita di chi lo finanziava. Era un caro amico di Astuti, si chiamava Ferrini, non ne ricordo il nome. Cadde, colpito da una fucilata sparata a caso, sul terrazzino del suo piccolo ufficio situato sotto la Galleria Margherita, nei pressi del Viminale.
Ricorrendo quest’anno il centesimo anniversario della nascita di Arturo Carlo Jemolo – solennemente commemorato in Campidoglio, alla presenza del capo dello Stato, con un discorso del sen. Giovanni Spadolini, letto dal prof. Francesco Margiotta Broglio – riproduco su questa rivista i suoi articoli apparsi in quel quindicinale.
Alla memoria di quanti collaborarono a «Meridiano» e sono da tempo scomparsi, a quanti hanno combattuto e sofferto per la giustizia e per la libertà, ai posteri che combatteranno e soffriranno per questi due beni preziosi ho dedicato la ristampa anastatica di quel quindicinale curata – in occasione del centesimo anniversario della nascita di un altro illustre collaboratore, Giuseppe Capogrossi – dalla benemerita casa editrice fondata dal compianto dott. Antonino Giuffrè[1].
1. Giustizia e diritto
C’è una signora il cui nome è da tutti esaltato, che tutti acclamano, tutti vogliono a convito; nessuna riunione si sentirebbe al completo s’ella non vi presenziasse: tutti ne indicano il nome ai vicini come quello dell’ospite illustre che onora la casa. Ma non sento altrettanto invocare quegli che per me è il compagno inseparabile della signora illustre, che, solo, ne rende sicuramente benefica la presenza.
La signora è la giustizia, il compagno è il diritto.
La giustizia ha il suo posto eccelso in tutti i pantheon religiosi, in tutti i miti, tra le virtù cristiane: le arti vanno a gara per raffigurarne la bellezza. Non c’è epoca storica che l’abbia disconosciuta, non civiltà, non ideologia, non dottrina, che le abbia contestato il suo posto. Anche nei peggiori eccessi, nelle peggiori aberrazioni, ciascuno ne ha invocato il nome, almeno a parole ne ha riconosciuto la signoria. I dotti hanno discettato a lungo sulla sua essenza, ogni sistema filosofico ha cercato di vagliarla; ma poca cosa sono le ricerche dei filosofi, di fronte all’aspirazione ardente dei popoli, e soprattutto degli umili, dei semplici di cuore, per la giustizia. Alla base della fede religiosa dei più è questa sete inestinguibile per la giustizia, il bisogno della certezza ch’essa si attuerà; e se la vita terrena non basta per vederne il trionfo, siaci almeno la sicurezza ch’essa trionferà oltre la morte.
Il diritto ha posto ben più modesto. Esso ha costituito il grande apporto di Roma alla civiltà mondiale, ed il cristianesimo, sorto su terreno romano, ha concepito un diritto divino. Altre religioni non lo conoscono come un’entità autonoma. L’arte raramente lo raffigura. Il popolo non lo ama; lo teme, come lo strumento dei forti e dei potenti, che facilmente può farsi mezzo di sopraffazione.
Il cardinal Federico, padre Cristoforo, sono la giustizia; l’Azzeccagarbugli, il podestà, don Abbondio con le sue invocazioni delle regole tridentine sul matrimonio, le gride, le ordinanze di Ferrer, il bando contro Renzo, c’introducono nel mondo del diritto. L’Innominato convertito ed i cui delitti restano senza processo né condanna, don Rodrigo, che sfugge ad ogni sanzione umana ed è colto dal dito di Dio, sono, a ben vedere, il trionfo della giustizia contro il diritto. Così come nel più popolare romanzo europeo dell’Ottocento: Jean Valjean e Javert sono le due incarnazioni della giustizia e del diritto: quando l’immagine augusta della giustizia sfolgora dinanzi a quegli ch’è stato per tutta la vita il rigido servo del diritto, egli ne è fulminato.
Manzoni e Victor Hugo hanno espresso mirabilmente il senso del popolo. Che non dirà mai: dura lex, sed lex; che non penserà mai per categorie, bensì di fronte ad ogni caso concreto vorrà che sia resa quella che a lui pare giustizia.
Ma l’educazione di un popolo, la sua elevazione, consiste proprio nell’apprendere a vivere secondo le regole, liberamente poste ed accettate; e che non si abbandonano solo perché in un dato caso l’applicazione loro lascia inappagati. Così come dal bambino nasce l’uomo quando egli apprende a dominare il suo istinto, e ad accettare la regola. La dottrina cristiana, per cui nessun bene massimo da raggiungere, non la salvezza di un popolo, può consentire un peccato; ed il principio kantiano «agisci in modo che la tua azione possa essere assunta a regola universale»: convergono in questo ammonimento, che la giustizia si snatura e cessa d’essere tale se corre dietro al singolo caso, se si abbandona all’istinto e vuole emanciparsi da regole, se, per la preoccupazione di evitare un singolo torto, crede di potersi emancipare dall’inceppo delle norme. Le aberrazioni delle rivoluzioni e dei despoti non sarebbero state compiute se si fossero seguite quelle regole che formano il diritto: molto spesso, le prime in particolare, furono giustificate con quella che si disse una più alta giustizia, ma che in realtà scardinava quei beni massimi che sono i limiti posti al diritto della società di punire, la certezza della linea di distinzioni tra il lecito o l’illecito, la garanzia che la norma penale non possa avere effetto retroattivo.
I partiti sono sorti tutti, in quest’ora così grave, e così decisiva per quella che sarà l’Italia dei prossimi anni, con una grande, sincera sete di giustizia. Non dimentichiamo che il diritto è l’occhio, il misuratore, la bilancia della giustizia: che nessun istinto, nessuna ispirazione, può sostituirlo.
Le varie dottrine politiche hanno ciascuna una propria visione dei beni da raggiungere, della giustizia sociale da attuare; ma quella visione non potranno realizzarla se non dettando regole indefettibili. Si può riconoscere o non riconoscere la proprietà privata dei mezzi di produzione, si possono statizzare certe industrie o tutte le industrie, limitare certi profitti, controllare o sopprimere certe iniziative private; si può lasciare alle professioni liberali il loro assetto tradizionale, può lo Stato sostituirsi nell’obbligo del cliente povero verso il medico o l’avvocato, può abrogarsi il professionista e sostituirlo con il funzionario retribuito dalla collettività; si può modificare il diritto successorio, innovare profondamente negli attuali rapporti tra il cittadino e lo Stato. Tutto questo senza che la giustizia sia offesa: o, quanto meno, senza che sia disconosciuto l’ideale della giustizia.
Giacché, se la giustizia è una sola, ed ogni appellativo (che non sia quello di divina) la limita ed in certo modo la nega – anche quando si contrappone una giustizia divina ad una umana, implicitamente si dice che la seconda non è perfetta giustizia, ed attua a volte dei torti – gli uomini sono poi divisi allorché cercano, oltre le formule astratte, ciò che essa importi. Né si dà regola teorica, né precetto, il cui richiamo sia sufficiente per assicurarci che nei singoli casi agiamo secondo giustizia. E se per l’uno è giusto che i beni accumulati dal padre si trasmettano al figlio e poi al nipote e più per lunga fila di generazioni, per altri nulla è più ingiusto dell’agiatezza e della posizione sociale ambita che si trova nella cuna; e se per l’uno è giusto che la funzione socialmente più pregiata a cui pochi sono idonei venga meglio rimunerata, per altri giustizia vorrebbe che uguale rimunerazione fosse accordata a tutti coloro che danno nel proprio lavoro quanto di sé possono dare.
Ma non regole positive, bensì l’ideale stesso della giustizia è violato, allorché si dà a Caio ciò che si rifiuta a Tizio, si punisce in Lucio ciò che si consente in Sempronio, s’impone a Seneca ciò che non s’impone a Marcello: sia che ciò si faccia per voluto arbitrio, sia che ciò segua per semplificare il meccanismo statale, per risparmiare allo Stato un’attività od una spesa: come segue nelle legislazioni dei periodi di emergenza che colpiscono o sequestrano od inaridiscono certi redditi, non perché abbiano un particolare carattere di odiosità, ma soltanto perché le persone da cui quei redditi derivano sono quelle che più preme sgravare, mentre sarebbe troppo oneroso per lo Stato indennizzare il creditore espropriato; o nelle legislazioni che dichiarano non indennizzabili certi danni, se recati da organi dello Stato in date circostanze, sostituendo il caso alla regola di convivenza ordinata, e venendo in definitiva a dire: «a chi tocca, tocca».
Non sono però questi i casi più pericolosi: bensì quegli altri, in cui c’è in partenza l’idea di rendere giustizia, ma si sopprime il consueto iter logico che muovendo dalla regola giunge alla decisione concreta, passando per una sequela di corollari tratti dalla regola, ed altresì di regole secondarie o funzionali, come quelle in tema di prova; e si prende quella che si crede sia una scorciatoia, ispirandosi soltanto ad inafferrabili impressioni su ciò che sia o non sia giusto, su ciò che sia o non sia utile alla società od alla patria: impressioni soggettive che anche nelle coscienza pure, anche negli uomini di buona fede, possono celare il desiderio di vendicarsi del nemico e d’indulgere all’amico. Questa pericolosa scorciatoia può essere presa per inettitudine a percorrere il lungo cammino di realizzazione della giustizia che segue il diritto (questo è ciò che avviene per gli umili), ma si può anche avviarvisi per inerzia mentale, od altresì ingannando sé stessi, con la volontà ferma di giungere ad una conclusione già vista, e col non confessato timore che, seguendo la via tracciata dal diritto, a quella conclusione non si perverrebbe.
Molti dei sistematici disconoscimenti della funzione del diritto, delle irrisioni ai giuristi, provengono da questa mala fede iniziale, da questa insincerità con sé stesso, per cui non si osa confessarsi che la mèta cui si tende, e che si vuole fare apparire come una realizzazione della giustizia, non è affatto tale.
Le posizioni di diffidenza a priori per il diritto, d’irrisione ai giuristi come a vecchi barbogi, a reliquie ingombranti del passato, che certi partiti o certe ideologie assumono, possono avere spiegazioni diverse.
Talora non sono che la maniera per combattere, attraverso lo schema del diritto, un determinato diritto, un determinato ordinamento positivo, e dietro di questo una struttura sociale: sapendo che su certe masse, su certi ceti, più che serrata critica di quella struttura avrà presa lo spunto della più alta, della immediata giustizia, cui il diritto non sarebbe che un inceppo: con la chiara coscienza, peraltro, che il diritto sarà poi la necessaria arma, che a suo tempo, dopo la vittoria, si foggerà e si curerà in ogni dettaglio, a difesa della struttura politico-sociale conquistata.
Talora invece, nei più umili, in gruppi di persone incolte, quelle posizioni sono la manifestazione della naturale diffidenza verso uno strumento che non si sa maneggiare, e che si è sempre visto in mano ad uomini della classe dominante. Diffidenza comprensibile, ma ingiusta (quante di quelle regole legali, che paiono essere ostacolo alla più alta giustizia, in fatto proteggono piuttosto gli umili che i potenti! le remore alla prova per testi non impediscono lo sfruttamento della posizione di supremazia di chi è socialmente più forte?).
Ma talora quegli atteggiamenti non sono schietti, non sono sinceri: coprono una inconfessata volontà di soddisfare ad ogni costo i propri appetiti, di giungere dove si è decisi a giungere: anche a rischio di non rispettare, di ferire, la divina signora, la giustizia.
1° febbraio 1945
(...)
[1] Il «Meridiano», ristampa anastatica in occasione del centenario della nascita di G. Capogrossi (1889-1989) per iniziativa della Cassa di Risparmio della provincia dell’Aquila, Premessa di P. Fedele, Sulmone, 1989. (Ivi più ampie notizie sull’iniziativa).