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    Predefinito Arturo Carlo Jemolo, gli scritti del 1945 (1991)



    Arturo Carlo Jemolo (Roma, 1891-1981)


    A cura di Pio Fedele - In «Nuova Antologia», a. CXXVI, fasc. 2179, luglio-settembre 1991, Le Monnier, Firenze, pp. 5-45.


    In uno dei più drammatici periodi della millenaria storia di questa nostra povera Italia, vide la luce un quindicinale, fondato nel gennaio del 1945 e diretto con giovanile entusiasmo da Guido Astuti e dal sottoscritto. Astuti lo volle chiamare «Meridiano». Ebbe una vita intensa, ma brevissima, poco più di un anno. Un tragico evento – uno dei tanti che a Roma ed in tutto il nostro paese accadevano più di una volta, al giorno – troncò improvvisamente la giovane vita di chi lo finanziava. Era un caro amico di Astuti, si chiamava Ferrini, non ne ricordo il nome. Cadde, colpito da una fucilata sparata a caso, sul terrazzino del suo piccolo ufficio situato sotto la Galleria Margherita, nei pressi del Viminale.
    Ricorrendo quest’anno il centesimo anniversario della nascita di Arturo Carlo Jemolo – solennemente commemorato in Campidoglio, alla presenza del capo dello Stato, con un discorso del sen. Giovanni Spadolini, letto dal prof. Francesco Margiotta Broglio – riproduco su questa rivista i suoi articoli apparsi in quel quindicinale.
    Alla memoria di quanti collaborarono a «Meridiano» e sono da tempo scomparsi, a quanti hanno combattuto e sofferto per la giustizia e per la libertà, ai posteri che combatteranno e soffriranno per questi due beni preziosi ho dedicato la ristampa anastatica di quel quindicinale curata – in occasione del centesimo anniversario della nascita di un altro illustre collaboratore, Giuseppe Capogrossi – dalla benemerita casa editrice fondata dal compianto dott. Antonino Giuffrè[1].


    1. Giustizia e diritto

    C’è una signora il cui nome è da tutti esaltato, che tutti acclamano, tutti vogliono a convito; nessuna riunione si sentirebbe al completo s’ella non vi presenziasse: tutti ne indicano il nome ai vicini come quello dell’ospite illustre che onora la casa. Ma non sento altrettanto invocare quegli che per me è il compagno inseparabile della signora illustre, che, solo, ne rende sicuramente benefica la presenza.
    La signora è la giustizia, il compagno è il diritto.
    La giustizia ha il suo posto eccelso in tutti i pantheon religiosi, in tutti i miti, tra le virtù cristiane: le arti vanno a gara per raffigurarne la bellezza. Non c’è epoca storica che l’abbia disconosciuta, non civiltà, non ideologia, non dottrina, che le abbia contestato il suo posto. Anche nei peggiori eccessi, nelle peggiori aberrazioni, ciascuno ne ha invocato il nome, almeno a parole ne ha riconosciuto la signoria. I dotti hanno discettato a lungo sulla sua essenza, ogni sistema filosofico ha cercato di vagliarla; ma poca cosa sono le ricerche dei filosofi, di fronte all’aspirazione ardente dei popoli, e soprattutto degli umili, dei semplici di cuore, per la giustizia. Alla base della fede religiosa dei più è questa sete inestinguibile per la giustizia, il bisogno della certezza ch’essa si attuerà; e se la vita terrena non basta per vederne il trionfo, siaci almeno la sicurezza ch’essa trionferà oltre la morte.
    Il diritto ha posto ben più modesto. Esso ha costituito il grande apporto di Roma alla civiltà mondiale, ed il cristianesimo, sorto su terreno romano, ha concepito un diritto divino. Altre religioni non lo conoscono come un’entità autonoma. L’arte raramente lo raffigura. Il popolo non lo ama; lo teme, come lo strumento dei forti e dei potenti, che facilmente può farsi mezzo di sopraffazione.
    Il cardinal Federico, padre Cristoforo, sono la giustizia; l’Azzeccagarbugli, il podestà, don Abbondio con le sue invocazioni delle regole tridentine sul matrimonio, le gride, le ordinanze di Ferrer, il bando contro Renzo, c’introducono nel mondo del diritto. L’Innominato convertito ed i cui delitti restano senza processo né condanna, don Rodrigo, che sfugge ad ogni sanzione umana ed è colto dal dito di Dio, sono, a ben vedere, il trionfo della giustizia contro il diritto. Così come nel più popolare romanzo europeo dell’Ottocento: Jean Valjean e Javert sono le due incarnazioni della giustizia e del diritto: quando l’immagine augusta della giustizia sfolgora dinanzi a quegli ch’è stato per tutta la vita il rigido servo del diritto, egli ne è fulminato.
    Manzoni e Victor Hugo hanno espresso mirabilmente il senso del popolo. Che non dirà mai: dura lex, sed lex; che non penserà mai per categorie, bensì di fronte ad ogni caso concreto vorrà che sia resa quella che a lui pare giustizia.
    Ma l’educazione di un popolo, la sua elevazione, consiste proprio nell’apprendere a vivere secondo le regole, liberamente poste ed accettate; e che non si abbandonano solo perché in un dato caso l’applicazione loro lascia inappagati. Così come dal bambino nasce l’uomo quando egli apprende a dominare il suo istinto, e ad accettare la regola. La dottrina cristiana, per cui nessun bene massimo da raggiungere, non la salvezza di un popolo, può consentire un peccato; ed il principio kantiano «agisci in modo che la tua azione possa essere assunta a regola universale»: convergono in questo ammonimento, che la giustizia si snatura e cessa d’essere tale se corre dietro al singolo caso, se si abbandona all’istinto e vuole emanciparsi da regole, se, per la preoccupazione di evitare un singolo torto, crede di potersi emancipare dall’inceppo delle norme. Le aberrazioni delle rivoluzioni e dei despoti non sarebbero state compiute se si fossero seguite quelle regole che formano il diritto: molto spesso, le prime in particolare, furono giustificate con quella che si disse una più alta giustizia, ma che in realtà scardinava quei beni massimi che sono i limiti posti al diritto della società di punire, la certezza della linea di distinzioni tra il lecito o l’illecito, la garanzia che la norma penale non possa avere effetto retroattivo.
    I partiti sono sorti tutti, in quest’ora così grave, e così decisiva per quella che sarà l’Italia dei prossimi anni, con una grande, sincera sete di giustizia. Non dimentichiamo che il diritto è l’occhio, il misuratore, la bilancia della giustizia: che nessun istinto, nessuna ispirazione, può sostituirlo.
    Le varie dottrine politiche hanno ciascuna una propria visione dei beni da raggiungere, della giustizia sociale da attuare; ma quella visione non potranno realizzarla se non dettando regole indefettibili. Si può riconoscere o non riconoscere la proprietà privata dei mezzi di produzione, si possono statizzare certe industrie o tutte le industrie, limitare certi profitti, controllare o sopprimere certe iniziative private; si può lasciare alle professioni liberali il loro assetto tradizionale, può lo Stato sostituirsi nell’obbligo del cliente povero verso il medico o l’avvocato, può abrogarsi il professionista e sostituirlo con il funzionario retribuito dalla collettività; si può modificare il diritto successorio, innovare profondamente negli attuali rapporti tra il cittadino e lo Stato. Tutto questo senza che la giustizia sia offesa: o, quanto meno, senza che sia disconosciuto l’ideale della giustizia.
    Giacché, se la giustizia è una sola, ed ogni appellativo (che non sia quello di divina) la limita ed in certo modo la nega – anche quando si contrappone una giustizia divina ad una umana, implicitamente si dice che la seconda non è perfetta giustizia, ed attua a volte dei torti – gli uomini sono poi divisi allorché cercano, oltre le formule astratte, ciò che essa importi. Né si dà regola teorica, né precetto, il cui richiamo sia sufficiente per assicurarci che nei singoli casi agiamo secondo giustizia. E se per l’uno è giusto che i beni accumulati dal padre si trasmettano al figlio e poi al nipote e più per lunga fila di generazioni, per altri nulla è più ingiusto dell’agiatezza e della posizione sociale ambita che si trova nella cuna; e se per l’uno è giusto che la funzione socialmente più pregiata a cui pochi sono idonei venga meglio rimunerata, per altri giustizia vorrebbe che uguale rimunerazione fosse accordata a tutti coloro che danno nel proprio lavoro quanto di sé possono dare.
    Ma non regole positive, bensì l’ideale stesso della giustizia è violato, allorché si dà a Caio ciò che si rifiuta a Tizio, si punisce in Lucio ciò che si consente in Sempronio, s’impone a Seneca ciò che non s’impone a Marcello: sia che ciò si faccia per voluto arbitrio, sia che ciò segua per semplificare il meccanismo statale, per risparmiare allo Stato un’attività od una spesa: come segue nelle legislazioni dei periodi di emergenza che colpiscono o sequestrano od inaridiscono certi redditi, non perché abbiano un particolare carattere di odiosità, ma soltanto perché le persone da cui quei redditi derivano sono quelle che più preme sgravare, mentre sarebbe troppo oneroso per lo Stato indennizzare il creditore espropriato; o nelle legislazioni che dichiarano non indennizzabili certi danni, se recati da organi dello Stato in date circostanze, sostituendo il caso alla regola di convivenza ordinata, e venendo in definitiva a dire: «a chi tocca, tocca».
    Non sono però questi i casi più pericolosi: bensì quegli altri, in cui c’è in partenza l’idea di rendere giustizia, ma si sopprime il consueto iter logico che muovendo dalla regola giunge alla decisione concreta, passando per una sequela di corollari tratti dalla regola, ed altresì di regole secondarie o funzionali, come quelle in tema di prova; e si prende quella che si crede sia una scorciatoia, ispirandosi soltanto ad inafferrabili impressioni su ciò che sia o non sia giusto, su ciò che sia o non sia utile alla società od alla patria: impressioni soggettive che anche nelle coscienza pure, anche negli uomini di buona fede, possono celare il desiderio di vendicarsi del nemico e d’indulgere all’amico. Questa pericolosa scorciatoia può essere presa per inettitudine a percorrere il lungo cammino di realizzazione della giustizia che segue il diritto (questo è ciò che avviene per gli umili), ma si può anche avviarvisi per inerzia mentale, od altresì ingannando sé stessi, con la volontà ferma di giungere ad una conclusione già vista, e col non confessato timore che, seguendo la via tracciata dal diritto, a quella conclusione non si perverrebbe.
    Molti dei sistematici disconoscimenti della funzione del diritto, delle irrisioni ai giuristi, provengono da questa mala fede iniziale, da questa insincerità con sé stesso, per cui non si osa confessarsi che la mèta cui si tende, e che si vuole fare apparire come una realizzazione della giustizia, non è affatto tale.
    Le posizioni di diffidenza a priori per il diritto, d’irrisione ai giuristi come a vecchi barbogi, a reliquie ingombranti del passato, che certi partiti o certe ideologie assumono, possono avere spiegazioni diverse.
    Talora non sono che la maniera per combattere, attraverso lo schema del diritto, un determinato diritto, un determinato ordinamento positivo, e dietro di questo una struttura sociale: sapendo che su certe masse, su certi ceti, più che serrata critica di quella struttura avrà presa lo spunto della più alta, della immediata giustizia, cui il diritto non sarebbe che un inceppo: con la chiara coscienza, peraltro, che il diritto sarà poi la necessaria arma, che a suo tempo, dopo la vittoria, si foggerà e si curerà in ogni dettaglio, a difesa della struttura politico-sociale conquistata.
    Talora invece, nei più umili, in gruppi di persone incolte, quelle posizioni sono la manifestazione della naturale diffidenza verso uno strumento che non si sa maneggiare, e che si è sempre visto in mano ad uomini della classe dominante. Diffidenza comprensibile, ma ingiusta (quante di quelle regole legali, che paiono essere ostacolo alla più alta giustizia, in fatto proteggono piuttosto gli umili che i potenti! le remore alla prova per testi non impediscono lo sfruttamento della posizione di supremazia di chi è socialmente più forte?).
    Ma talora quegli atteggiamenti non sono schietti, non sono sinceri: coprono una inconfessata volontà di soddisfare ad ogni costo i propri appetiti, di giungere dove si è decisi a giungere: anche a rischio di non rispettare, di ferire, la divina signora, la giustizia.

    1° febbraio 1945

    (...)


    [1] Il «Meridiano», ristampa anastatica in occasione del centenario della nascita di G. Capogrossi (1889-1989) per iniziativa della Cassa di Risparmio della provincia dell’Aquila, Premessa di P. Fedele, Sulmone, 1989. (Ivi più ampie notizie sull’iniziativa).
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    Predefinito Re: Arturo Carlo Jemolo, gli scritti del 1945 (1991)

    2. Quel ch’è mancato

    Non si dice nulla di nuovo se si constata che c’è nel paese un certo senso di delusione e di scontento per l’opera del Governo, che a giudizio di molti avrebbe dovuto essere più fattiva. A giugno parecchi ritenevano che dopo otto mesi sarebbe stato compiuto più cammino che non siasi oggi compiuto, se non sulla strada della rinascita, almeno su quella della risoluzione di parecchi tra i più assillanti problemi, quelli che, pendenti, lasciano l’Italia in uno stato di marasma.
    Non credo fondato, in massima, tale malcontento. Sul terreno dei fatti, delle opere concrete, non penso che si sarebbe potuto compiere molto di più.
    Vi ostava da un lato il controllo alleato, che ha una sua linea, certe sue necessità di subordinare le nostre iniziative a proprie esigenze attuali, a propri interessi avvenire, certe sue diffidenze, in gran parte infondate, ma storicamente ben spiegabili; controllo che non avrebbe comunque consentito che il potere fosse assunto in Italia dai partiti proclivi a più radicali riforme. Vi ostava dall’altro il governo di coalizione, che, per essere tale, era legato a non effettuare piani che ledessero i capisaldi ideali di uno quale si fosse dei partiti coalizzati. Un governo di destra od uno di sinistra avrebbe certo potuto fare di più (se il controllo alleato l’avesse consentito); ma tra il vantaggio di quel poco di più ed il danno di un immediato rincrudirsi dello spirito di parte, di acerbe critiche ed attacchi, penso che il danno sarebbe stato preponderante. E ritengo che nel complesso si debba essere soddisfatti dell’opera dei due ministeri Bonomi, dell’opera modesta, punto appariscente, ma benefica, che è stata compiuta, spianando lentamente la via (che il popolo pare non abbia ancora compreso quanto aspra e scabrosa) ad una comprensione dell’Italia o degl’italiani da parte degli alleati, avvicinando tra loro uomini provenienti da ideologie radicalmente nemiche, facendo compiere, in questo clima di attesa, il loro tirocinio come uomini politici e di governo, ai giovani che saranno probabilmente i reggitori del decennio prossimo. La serenità, l’equilibrio, la pazienza, la reale bontà, che sono le doti che Ivanoe Bonomi pone giornalmente al servizio d’Italia, devono avere tutte il loro posto nel bilancio morale di questi mesi.
    E tuttavia non è del tutto senza base quel senso di delusione cui dapprima accennavo.
    Qui in Roma durante i nove mesi di occupazione tedesca avevamo visto nel nostro popolo segni di generosità, di nobiltà, di abnegazione, di spirito di sacrificio, che oggi ci pare di non ritrovare più. Ha il Governo fatto tutto il possibile perché non andasse dispersa questa ricchezza ideale, per parlare alle coscienze, per eccitare lo spirito di abnegazione, necessario oggi come or è un anno?
    Il punto meriterebbe lungo discorso. Mi limito a toccare un settore, di cui non credo di sopravvalutare l’importanza.
    Gli economisti ci dicono che la situazione della lira non è tragica, che è lecito confidare che, sol che lo si voglia, sarà evitata la svalutazione totale. Ho piena fiducia in quanto scrivono Luigi Einaudi, maestro carissimo di giovinezza, Giuseppe Ugo Papi, collega ed amico tra i più prossimi. Ma pure un ignorante in materia economica come chi scrive, riflette che le sorti della economia italiana saranno fissate solo il giorno in cui apparirà possibile ad un Governo stabilire un bilancio in pareggio: il giorno in cui le entrate e le spese si equilibreranno.
    D’accordo, che nessun ministro delle finanze pubbliche potrebbe, per mancanza assoluta di elementi, tracciare il progetto o l’anteprogetto di un tale bilancio, fosse pure per un esercizio finanziario remoto. Ma viceversa tutti sappiamo in quale direzione occorra muoversi per giungere a quella méta, che neppure col cannocchiale è ancora dato di scorgere. Tutti così sappiamo che bisognerà muovere nelle due direzioni, di accrescere le entrate, ma anche di diminuire le spese. E quasi tutti pensiamo altresì che la diminuzione di certe categorie di spese s’imporrebbe anche indipendentemente dalla esigenza finanziaria, per togliere certa elefantiasi burocratica che schiacciava e schiaccia il paese, per la stessa educazione degl’italiani, che occorre cessino di appetire il modestissimo, l’infimo impieguccio, il «bucherello» a Roma, ed imparino ad apprezzare le sorti dell’operaio specializzato, nella industria e nell’agricoltura. Tutti sentiamo che avremo fatto un passo innanzi il giorno in cui i ragazzi di quei ceti e di quelle famiglie che oggi pensano come al loro bastone di maresciallo a divenire impiegato postale o di banca o maresciallo di pubblica sicurezza o dell’esercito od amanuense in un ufficio finanziario, brameranno di divenire asfaltisti o montatori di termosifoni o preparatori di pavimenti di legname od innestatori di alberi o coltivatori specializzati in frutteti.
    Senonché quando ci si guarda d’intorno, sembra che gli ultimi venti mesi siano passati invano, che tutti credano che l’Italia di domani debba essere quanto a struttura burocratica e militare quella dell’Impero fascista, magari con ulteriori sviluppi. Nulla si sopprime: non direzioni generali, non tribunali, non facoltà, non cattedre, non istituti; nessuno pensa a predisporre i ruoli e gli organici del piccolo esercito e della piccola marina che potranno essere quelli dell’Italia del primo decennio dopo la pace, od a ridurre i pletorici ruoli di ambasciatori e ministri plenipotenziari, di governatori e segretari generali di colonie, di presidenti di sezione ed avvocati generali della Cassazione (per accennare solo alle crescite mostruose dell’ultimo quarto di secolo che più saltano agli occhi: ma non c’è albero nelle cui fronde non si potrebbe ampliamente potare), od a sopprimere, se non università, facoltà di legge, di scienze economiche, scuole di magistero, pur esse cresciute senza alcuna rispondenza a bisogni reali, ma solo per istituire cattedre, o perché l’organo crea la funzione. Peggio ancora, si è fondata qualche nuova facoltà, si sono creati nuovi tribunali e nuove sezioni di Corti d’appello: provvisori, ma tutti sappiamo quanto sia facile al provvisorio di divenire definitivo, in questi ambiti.
    Che di fronte alla grande miseria della classe impiegatizia il governo non avesse l’animo di precipitarla ancor più nella disperazione, con licenziamenti, me ne rendo ben conto. Ma era ben possibile ridurre i ruoli e mantenere impiegati in soprannumero, ch’è almeno chiudere l’adito a nuove assunzioni; od, ancor meglio, mandarli a casa, sia pure con pieno stipendio, ch’è il modo più efficace di persuaderli a cercare altre fonti di guadagno.
    E quel che segue rispetto alla burocrazia, si ripete in ogni ambito. Nel periodo fascista si sono spese centinaia e centinaia di milioni nelle bonifiche. Non discuto della politica, che, sprechi a parte, si potrà pure difendere. Ma è certo che l’epoca della finanza ricca è terminata: ed il buon senso vorrebbe che il programma dei prossimi anni fosse: mantenere le bonifiche compiute, completare queste prossime a compimento, abbandonare quelle appena iniziate. Neppur per sogno! si stanno varando progetti di nuove costosissime bonifiche.
    Chi conosce la storia d’Italia ha ben presente l’Italia centrale e meridionale del principio dell’Ottocento; lo Stato pontificio de I miei ricordi di d’Azeglio, con i molti impiegati che vanno in ufficio un paio di ore al giorno, che ricevono stipendio bastante per vivere i primi otto giorni del mese, e che poi «si arrangiano», con i molti uffici che servono solo ad impacciare la vita economica del paese. Ma se ci si dovesse riavviare su questa via, il male ed il danno sarebbero senza confronti con quelli di centodieci anni or sono. L’organo burocratico è diventato ipertrofico, e la funzione ch’esso eserciti per giustificare la propria ragion d’essere è sufficiente a paralizzare la ripresa della vita economica nazionale.
    Occorreva ed occorre reagire: e qui mi pare che in effetto l’azione del governo sia stata deficiente. I più tra gli uomini al Governo sono dei purissimi: che operano con assoluta abnegazione per il bene d’Italia. Occorre non abbiano tolleranze per qualche collega meno puro, che dà visibili segni di preoccupazioni personali, della preparazione del «collegio»: s’intende, il collegio uninominale, il primo, il più immediato pericolo d’inquinamento della vita politica dell’Italia di domani. Occorre soprattutto riprendere ed esercitare nel nostro popolo le sue migliori virtù, quel senso di sacrificio e di abnegazione, cui non è chiuso, in alcun suo ceto, ma cui deve essere richiamato: perché l’interesse personale parla di per sé, ma l’abnegazione deve essere eccitata. Gradirei dai ministri qualche parola forte allorché alcuno va a proporre loro nuove costose iniziative, nuovi ruoli, nuovi aumenti di organici: i sottili lavorii dei burocratici, per cui un posto di grado terzo diviene di grado secondo, o si creano nuovi posti di grado terzo, con l’ambito trattamento di «eccellenza», od un consigliere di Stato o della Corte dei conti è nominato prefetto di prima classe, per poi rientrare subito dopo nel suo ruolo, portando con sé, a vita, gli assegni del grado superiore. Vorrei sapere che di fronte a queste insurrezioni di egoismi individuali, a questi tentativi di tagliarsi la propria piccola fetta di torta, in un’ora di così grande miseria nazionale, c’è una reazione immediata. Mi piacerebbe d’immaginare, di fronte a questi tentativi, la reazione ch’era propria ai nostri genitori ed ai nostri maestri per le malefatte di noi ragazzi che denotavano una lacuna nel senso morale; vorrei vedere il volto sereno, bonario e cortese del Presidente del Consiglio farsi ad un tratto severo, o sentirgli dire: «Si vergogni!».

    15 febbraio 1945

    (...)
    Ultima modifica di Frescobaldi; 30-05-21 alle 20:45
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    3. Fascisti

    Quando avevo vent’anni abbondavano ancora certi anticlericali ferventi, i quali, allorché avevano detto di qualcuno ch’era un disonesto, un ipocrita, un uomo rotto ad ogni corruttela, se volevano poi trovare un rafforzativo, conchiudevano ch’era «un prete». E se alcuno avesse loro fatto osservare che il «prete» era putacaso un massone od un socialista od un altro provato anticlericale, si sentiva rispondere immancabilmente: - È un prete lo stesso, perché agisce come un prete. – Inutile dire che a noi giovani questi personaggi parevano piuttosto ridicoli. Ed era in fondo contro di loro, o contro dei loro fratelli molto prossimi, che, parecchi anni prima, Ferravilla aveva coniato, forse senza pensarvi, la famosa battuta di Tecoppa: «Ha detto male di Garibaldi»: che, per certo giacobinismo fazioso, fu peggio di una battaglia elettorale perduta.
    Questo vorrei ricordassero quanti usano, a proposito od a sproposito, la parola «fascista». Badino che non divenga quel ch’era divenuta la parola «prete» sulla bocca di quei certi anticlericali. Si ricorra al vocabolo «fascista» il meno possibile, o solo nel significato tecnico-giuridico, non in sensi traslati.
    Ciò premesso, è bene «fare il punto» a proposito di quanto si dice e si scrive circa le sopravvivenze del fascismo in Italia.
    Ci dev’essere un piccolo, molto piccolo nucleo, di compromessi a tal punto con il fascismo repubblicano, con la collaborazione tedesca, che per loro nel crollo totale del fascismo non ci può essere scampo. E c’è altresì un minuscolo gruppo di persone in cui l’affetto a Mussolini, l’ammirazione per quanto egli diceva, per la città sindacale e corporativa – che ad altri appariva di carta dipinta, ma che a loro sembrava di travertino e di marmo – ch’egli aveva costruito, sono rimasti immutati: probabilmente per quella incapacità di certi semplici, una volta che hanno accettato un credo qualsiasi, di mutarlo: perché lo sforzo mentale di tutta la loro vita si è esaurito in un’accettazione, e non c’è più posto per alcun lavoro di pensiero.
    Insignificante minoranza, questa.
    C’è poi un’altra minoranza, meno insignificante; di persone che nel regime fascista si trovavano meravigliosamente bene, ma che potrebbero trovarsi altrettanto bene in un regime che, ispirato a tutt’altra ideologia, ne riproducesse certe caratteristiche. Penso ai molti per cui le spedizioni punitive e gli scontri di fazione, prima, le varie guerre, poi, offrirono uno sfogo; a quelli che si sentono idonei solo per il mestiere del soldato, inteso non nell’austero senso del dovere, nelle grandezze e servitù illustrate da de Vigny, ma così come lo si praticava nelle compagnie di ventura del XIV e XV secolo. E penso agli altri, ben più numerosi, per cui la moltiplicazione d’impieghi, d’incarichi, di commissariati, di magistrature podestarili, tutte pochissimo onerose, ben compensate, atte a soddisfare le piccole vanità, a fornire una serie di tenui privilegi – automobili, viaggi e teatri gratuiti, e via dicendo -, aveva dato modo di condurre una comoda vita, che mai sarebbero stati in grado di conquistare, per mancanza d’intelligenza, di cultura, di furberia, di laboriosità, né nell’ambito delle professioni né in quello dei commerci. Tutti costoro servirebbero con pari zelo sotto l’insegna della falce e martello o della croce sabauda o del berretto frigio, solo che ritrovassero ciò che il fascismo dava loro. Ma quanti siamo uomini di buona volontà speriamo di costruire un’Italia che li lasci a rimpiangere il fascismo.
    Ma c’è poi – e questo è il vero punto dolente – quella che io credo debba dirsi la maggioranza degl’italiani: sinceramente antifascista, sinceramente odiatrice di Mussolini, ma perché il fascismo e Mussolini hanno condotto l’Italia alla rovina. Se Mussolini avesse vinto la guerra, se la Gran Bretagna nel ’40 avesse capitolato, se l’Italia si fosse annesse province e colonie, se la lira facesse premio su quelle che sono oggi le valute pregiate, costoro non sarebbero antifascisti.
    La vera linea di frattura, io l’avverto tra quanti sempre, durante l’impresa d’Africa nel ’39, come nel ’40, sentimmo, come imperativo etico, la nostra avversione al fascismo, pensammo che la vittoria definitiva del fascismo significasse la conculcazione nella storia del secolo dei più alti valori morali, e fummo ben consci che nessun successo delle armi italiane, nessun benessere procurato al nostro popolo, nessuna riuscita impresa di colonizzazione o di bonifica poteva compensare una tale sconfitta dei valori dello spirito – e quanti non sentirono ciò.
    Agli occhi di Dio la posizione nostra può essere stata deteriore. «La legge fa peccatori», ammonisce San Paolo: Dio sarà più severo con chi è conscio di ciò che la legge morale esige, e ne è o transfuga o tiepido assertore. La cattiva coscienza con cui prestammo giuramento per non scendere dalla cattedra, o, sia pure ritardando l’amaro passo fino all’ultimo momento, prendemmo la tessera del partito, deve star scritta sul nostro invisibile libro di conti, là dove non ci dev’essere analoga partita al passivo di coloro cui la legge morale nulla diceva.
    Ma per «fare il punto» dello stato d’animo degl’italiani occorre dare tutto il suo valore a questa linea di frattura. Che separa coloro che per ventun anni vissero con un rovello di ogni giorno, ancor più cocente quando non c’era la coscienza confortatrice di compiere tutto il proprio dovere, e coloro che quel rovello non avvertirono. Stato d’animo particolarmente penoso, il nostro, allorché l’Italia entrò in guerra. Desiderammo la sua sconfitta. Ma non è facile, quando si ha dentro di sé la tradizione della borghesia italiana del Risorgimento, quando si è stati soldati dell’altra guerra, quando si viva tra amici, compagni di lavoro di ogni giorno, che sono oneste persone e che pensano diversamente, quando quotidianamente s’incontrano padri che hanno perduto in guerra i loro figli, e che al loro acerbo dolore cercano conforto pensando alla nobiltà ed alla utilità del sacrificio – non è facile desiderare la sconfitta della patria. Bisognava rifarsi a quei supremi valori morali, all’insegnamento del Cristo, che occorre abbandonare il padre e la madre per seguire il Maestro (cioè spezzare tutti gli altri legami dello spirito e della carne, per seguire la verità); e talora c’era pure qualche argomento più carnale che invocavamo per confortarci, per dirci che non eravamo in colpa nel dirigere così le nostre speranze: ricordavamo cioè (e questa confessione vorrei meditassero gli estremisti d’oggi) i purissimi che scontavano nei carceri inique condanne e che solo attraverso quella sconfitta avrebbero riavuto la libertà, gli esuli che solo così avrebbero riacquistata una patria, quanti erano stati resi dei paria dalle leggi razziali.
    Negli antifascisti d’oggi ci sono molti che questa linea di separazione non sentono. Non l’avvertono soprattutto coloro che si vantano di aver sempre detto male del fascismo. Per molti di questi, il vanto è condanna, ché da quel regime molto ebbero, di soddisfazioni e di vantaggi: cattedre, trasferimenti di autorità alle sedi ambite, chiamate a partecipare ad alti consessi, la porta aperta alle redazioni dei giornali e delle riviste più diffuse; quanti, di questi che in effetto dicevamo male del fascismo, erano ogni giorno nelle anticamere dei ministri e davano del tu a tutti i maggiori gerarchi! La linea di frattura io l’avverto però non rispetto a questi soltanto, bensì anche verso tutti coloro che nulla ebbero, ma che non conobbero mai il rovello di vivere sotto il fascismo. Ne dicevano male, ne rilevavano le imperfezioni, le pecche; largivano magari un sospiro di compassione ai condannati dal tribunale speciale, affrettandosi a dimenticarli; se poterono farlo senza pericolo, diedero anche qualche aiuto ad ebrei colpiti dalle leggi razziali. Soltanto, consideravano i difetti del regime con lo stesso spirito con cui nel 1904 o nel 1911 molti parlavano delle lacune o dei difetti o addirittura delle malefatte del governo di Giolitti: come di qualcosa che resta nell’ambito della politica, e non tocca quello dei supremi valori, come qualcosa che non toglie la gioia di vivere.
    Ora, a perdere la gioia di vivere per il fatto del regime fascista fummo in minoranza: quelli stessi che saremmo rimasti antifascisti a qualsiasi grandezza materiale Mussolini avesse portato l’Italia. Quelli per cui la città terrena non può compensare la città celeste, anche se dovessimo essere indegni, per le nostre colpe, di accedere a questa.
    Confessione che carità di patria indurrebbe a tacere: penserà qualcuno.
    No; perché la rinascita d’Italia, e con l’Italia del mondo, non può operarsi che nello spirito della verità. No; perché occorre subito aggiungere che questi che amano carnalmente la patria, che ne desiderano l’ascensione e la fortuna anche contro giustizia, anche con scapito dei valori morali, sono stati e sono maggioranza dovunque. Non solo i conservatori britannici, ma quegl’inglesi di tutti i partiti, che considerarono con favore il fascismo, e più tardi lo stesso nazismo e il falangismo spagnolo, finché pensarono che il loro compito potesse esaurirsi nell’ambito della politica interna, in un’azione antibolscevica; tutti quei francesi che Duhamel ricorda in Positions françaises, cui era indifferente che la Germania di Hitler avesse conculcato la Cecoslovacchia, rivendicato Memel con la minaccia, e sarebbero stati disposti a consentirle di prendere Danzica e schiacciare la Polonia, solo che avessero avuto la certezza che lasciando libero campo al nazismo ad oriente della Germania, mai questo si sarebbe rivolto ad occidente; tutti quegli europei che nell’autunno del ’38 gioirono per gli accordi di Monaco; quegli stessi francesi che nel ’40 si volsero con devozione al maresciallo Pétain, convinti ch’egli, gettando a mare l’alleanza inglese, dimenticando i valori sommi ch’erano in gioco, avesse giovato alla Francia, e che oggi lo condannano solo perché si accorgono che la sua veduta fu quella di un miope: tutti questi furono maggioranza nei loro paesi, e sono sullo stesso piano della maggioranza italiana.
    Fascisti? Lasciamo il vocabolo equivoco e fissiamo bene questo: che sono pochi gli uomini che vogliono per la propria patria, per il proprio paese, la grandezza solo nell’ambito dei valori morali. Molto onesti che si sdegnerebbero all’idea di un loro figli ricco e potente per frodi o per rapina, molte madri cristiane che pregherebbero che il figlio morisse bambino piuttosto che diventare un brigante fortunato, sorridono all’idea di una patria che assurga a potenza per imprese quale fu la guerra di Etiopia. La vita morale per molti non va oltre la cerchia della famiglia; non si estende alla nazione. Il «così fanno gli altri», che non appare loro giustificazione sufficiente allorché si tratta della morale privata, li tranquillizza ove sia in gioco quella degli Stati.
    Nella costruzione del nuovo mondo bisogna mirare ad ottenere che tutti sentano questo: che l’imperativo della legge morale, della legge cristiana, io direi, non si arresta dinanzi ad alcuna cerchia per ampia che sia; che la rapina, la violenza, la sopraffazione, generano vergogna e non grandezza.

    1° marzo 1945

    (...)
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    Predefinito Re: Arturo Carlo Jemolo, gli scritti del 1945 (1991)

    4. Il collegio uninominale

    Tutti i vecchi uomini politici dei partiti di centro che mi è stato dato avvicinare, li ho trovati decisamente favorevoli al collegio uninominale. Qualcuno, che è certo tra i più illustri, l’ho sentito persino accennare, invocando l’esempio dell’Inghilterra, ad una naturale solidarietà che si darebbe tra collegio uninominale ed ordinamenti liberali.
    Le cose si vedono sempre diversamente secondo i punti da cui l’osservatore si pone.
    Forse se questi uomini non avessero scorto il mondo politico anteriore alla prima guerra mondiale dalle loro posizioni già elevate, si chiederebbero se il collegio uninominale non sia stato proprio causa non ultima della decadenza delle fortune dei partiti di centro – conservatori, liberali, democratici-costituzionali, radicali – nel ventennio che precedette il 1915. Certo, quanti eravamo adolescenti o giovani in tali anni ricordiamo benissimo che nessuno tra i più giovani si sentiva più attratto da quei partiti. Se ancora essi trovavano qualche recluta tra i giovani, era soltanto in provincia, nella politica locale, dove quelle etichette significavano puramente adesione alle fortune elettorali di Caio o di Sempronio; nei grandi centri, e pur nelle campagne, nelle regioni più colte e progredite d’Italia, nessun giovane andava più ad accrescere i ranghi di quei partiti. E non è che tutti i giovani fossero repubblicani o socialisti. Il movimento cattolico, anche quando la sua partecipazione alla vita politica era impacciata dal non expedit provocava largo afflusso di giovani; e così fu del nazionalismo, fin dal suo primo formarsi. Gli è che anche nel clericalismo e nel nazionalismo, come nelle varie correnti socialiste, i giovani credevano di avvertire delle idee e delle correnti sentimentali di portata generale, capaci di riunire larghe masse, capaci di costruire. Ma avevano invece l’intuizione che nulla di ciò si rinvenisse più nel liberalismo e nel radicalismo. Non era già che i giovani fossero così ciechi da non comprendere più cosa vi fosse di bello, di nobile, di vivo, nelle dottrine liberali, che avevano in quegli anni insigni illustratori, quali Francesco Ruffini, Gaetano Mosca, Luigi Albertini, e per il lato economico un maestro di ogni giorno in Luigi Einaudi. Ma non a torto non ravvisavano alcun nesso tra quelle dottrine e ciò che era l’attitudine dei vari onorevoli che accettavano l’etichetta conservatrice o liberale o radicale. Gli è che il deputato dei partiti di centro era troppo spesso in effetto soltanto il servo dei suoi elettori; che la più gran parte di quei deputati nulla aveva occasione di operare per la propria dottrina politica, o per quella che appariva tale.
    Ad onor del vero: tutti i deputati, dei vari partiti, nel sistema del collegio uninominale erano vincolati ai loro elettori. Ma la differenza stava in ciò: che i socialisti come i cattolici dovevano rendere conto ai propri elettori della disciplina ad un programma o della fedeltà ad una idea (molti valentuomini socialisti perdettero il collegio per avere, nelle varie scissioni che in quegli anni si ebbero in seno al partito, battuta una via diversa da quella presa dalle leghe del loro collegio), mentre per i deputati dei partiti di centro restare o meno a far parte del Parlamento non dipendeva mai da idee espresse o da disciplina di partito, bensì soltanto dai rapporti, con il ministero da una parte, con gli elettori, dall’altra. Rapporti reciproci, ché tanto più il deputato poteva ottenere agli elettori, quanto più era devoto al governo, dovunque questo volgesse, qualsiasi indirizzo assumesse.
    Il collegio uninominale aveva fatto buona prova negli anni del Risorgimento: quando gli elettori erano pochissimi, e talora meno di cento voti assicuravano la elezione del deputato. Elettori che costituivano veramente una classe dirigente, ed elettori, soprattutto, che non avevano alcun bisogno del governo: il quale, nel 1860-80, poteva sulla fortuna dei singoli infinitamente meno di quello che possa qualsiasi governo dei nostri giorni. Ma anche negli anni 1860-80 molti uomini politici di prim’ordine furono battuti nelle elezioni da dei Pinco Pallino che oggi nessuno più ricorda: e se raramente rimasero esclusi dalla Camera, questo fu dovuto al costume di portare i grandissimi uomini in più collegi (Garibaldi in sette od otto, talora): ciò che importava poi elezioni suppletive nei collegi cui il grande eletto aveva rinunciato, e la possibilità che elettori devoti ad un’idea, sensibili al fascino di un grande nome, in una seconda elezione riaprissero le porte di Palazzo Carignano o di Palazzo Vecchio o di Montecitorio a Marco Minghetti od a Silvio Spaventa: che mutavano collegio, ma restavano deputati.
    Dopo che la cerchia degli elettori fu ampliata con la legge elettorale dell’82, le cose mutarono. Ed il ritmo del mutamento si accelerò sempre più man mano che lo Stato allargava la sua sfera di attività, e prendeva così sempre più a potere nella vita dei singoli, e che coerentemente il governo acquistava sempre maggiore autorità. Non si conservava il collegio disinteressandosi degli elettori, e gli elettori solo nei partiti estremi reclamavano dal deputato la fedeltà a certi ideali ed a certi programmi, ch’erano, sì, difesa d’interesse, ma d’interessi collettivi, di cerchie che dilagavano ben oltre gli stretti confini del collegio. I deputati dei partiti medi si trovavano di fronte elettori che, quando parlavano collettivamente, domandavano la sede di tribunale o di pretura, la regificazione del ginnasio, la fermata del diretto, una data opera pubblica: ma che molto più parlavano singolarmente, chiedendo la raccomandazione per la licenza liceale del figlio o per la nomina ad avventizio in un ufficio governativo del fratello, per la concessione della ricevitoria postale o del banco lotto o dell’opera pubblica a trattativa privata. I bei discorsi di politica estera od in sede di bilancio di grazia e giustizia o di riforma della giustizia amministrativa o dell’ordinamento universitario che pronunciasse l’onorevole alla Camera, ben poco contavano al cospetto di questi elettori: quel che premeva, era ciò ch’egli compiva per «il collegio».
    Come tutte le cose al mondo, anche questo rapporto instauratosi in fatto tra la maggioranza dei deputati ed i loro elettori presentava qualche lato buono. Intanto, diede anch’esso un tenue contributo alla fusione nazionale, nel senso che qualche capo di gabinetto o direttore generale con la propria posizione burocratica si preparò un collegio in regione diversa dalla sua natale, e non lasciò estinguere del tutto la tradizione, già instaurata nel Risorgimento, del deputato non sempre e non necessariamente della regione. Poi, consentì una certa indipendenza ai deputati dei partiti di centro. Giacché, quando aveva acquistato a Roma sufficiente conoscenza dei vari tasti da premere per contentare gli elettori – e per la più gran parte, per gl’interessi dei singoli bastava fare capo a direttori generali ed capi divisione, che restavano i medesimi se a Zanardelli succedeva Giolitti, se era al potere Fortis o Sonnino – l’onorevole, nel mite costume politico del 1895-1915, godeva a Montecitorio una notevole indipendenza, maggiore di quella del suo collega dell’estrema (se pur minore di quella di qualche raro deputato latifondista, per cui quasi coincidevano collegio e proprietà).
    Ma il danno soverchiava di gran lunga il bene. E non stava soltanto in quell’allontanamento dai partiti medi di tutti gli elementi giovanili; ma, ben maggiore, nel distacco tra il paese legale ed il paese reale. I difensori del collegio uninominale hanno pur prospettato che una Camera che fosse uscita da tale collegio avrebbe forse resistito alla marcia su Roma. Ma enunciare quell’ipotesi è obliare la crisi del maggio ’15. Il desiderio di esaltare la partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale e le prove che esercito e popolo diedero in essa, non possono far dimenticare la nuda realtà, di quella maggioranza parlamentare uscita dalle elezioni uninominali dell’autunno del ’13, che cambiò in quarantott’ore di opinione dietro le minacciose sommosse del popolo. L’esperienza del maggio ’15 – per mio conto anche oggi insufficientemente valutata: con essa crollò quella finzione di diritto del paese legale che è il solo a contare: finzione che aveva avuto un suo compito, ed effetti benefici, come ad un certo momento hanno avuto le finzioni di diritto su cui ciascun assetto costituzionale si basa – quella esperienza: dico, mostrò che i deputati dei partiti medi non avevano contatto con le forze vive della nazione, con quelle capaci di raccogliersi e di scendere in combattimento per interessi ideali.
    E non poteva non essere così.
    I difensori del collegio uninominale sogliono recare due argomenti, che paiono non spregevoli: che solo con un tale collegio trova la sua rappresentanza quella che, piaccia o no, è pur sempre la maggioranza del popolo: costituita dai molti che sono buoni commercianti, laboriosi operai, probi impiegati, ma che non s’interessano di politica.
    Un vecchissimo sistema elettorale, che nessuno più pensa di risuscitare, ma che certo aveva del buono, era l’elezione di doppio grado, per cui l’elettore votava entro un piccolo collegio degli elettori di secondo grado, i quali poi eleggevano i deputati. È probabile che se la mia frazione di quartiere, di piazza Mazzini e vie annesse, costituisse un collegio di primo grado, tutti sapremmo qualcosa, anche per le vie d’informazione le più umili, dell’elettore di secondo grado che onoreremmo dei nostri suffragi. Ma solo in Stati con al più due partiti politici, con partiti senza neppure l’ombra della organizzazione che hanno i grandi partiti politici odierni, e, soprattutto, in Stati che non potevano sulle fortune dei cittadini neppure la decima parte di ciò che lo Stato odierno può, un tale sistema elettorale era idoneo a costituire il punto di partenza per la formazione della più degna Camera di rappresentanti. Nel collegio uninominale fino ad un certo punto – molto relativo: nei tradizionali cinque collegi di Roma sì e no si conosceva l’effige del deputato e la sua casa di abitazione – era noto il deputato: ma rispetto agli elettori era noto per ciò che aveva ottenuto o promesso di fare ottenere agli elettori, talvolta per la sua cordialità, per le facezie dialettali e le grasse risate, talvolta persino per la resistenza a tavola: mentre le sue idee politiche interessavano assai meno: e purtroppo spesso poco interessava pur la purezza morale dell’uomo.
    Ed è anche vero che – per quanto ciò non faccia onore all’intelligenza umana – si sentono non pochi ripetere che a loro la politica non interessa.
    Neppure la nostra tremenda esperienza ha potuto farli ragionare, e far loro comprendere come nella nostra realtà contemporanea la politica segni la sorte della vita, della libertà, della fortuna, nostra e dei nostri figli. È vero che ci sono coloro per cui non si danno idee, ma solo interessi, che non sanno poi neppure connettere tra loro con nessi o spunti ideali. Una tale constatazione potrebbe aprire l’adito a patrocinare quelle camere sindacali o di categoria create (a parole: in fatto, è troppo noto come ogni potere venisse sempre dall’alto) dai governi fascisti o simili. Ma anche rimettere le sorti di un paese a tali camere (che in un sistema bicamerale possono avere un’utile funzione) sarebbe grave errore, ché l’esperienza storica ammonisce come nelle ore decisive le sorti dei paesi siano decise da raggruppamenti che non sono mai raggruppamenti di datori di lavoro o di lavoratori o di professionisti, ma che riuniscono in un’idea ed in una fede persone di tutte le categorie.
    Non sarebbe comunque mai il collegio uninominale a dare una rappresentanza a coloro che non s’interessano della politica. Palesemente non si sommano, invero, gl’interessi di Tizio che ad Avola reclama un posto di avventizio, e di Caio che a Pescarenico vuole un banco lotto, l’aspirazione di Cividale ad avere una corsa di più treni che la colleghi con Udine e quella di Norcia ad avere completato il ginnasio con il liceo. All’opposto, poiché si tratta sempre di fette da tagliare dalla medesima torta, in definitiva quelle aspirazioni contrastano l’una con l’altra. Non possono avere alcun denominatore comune. Né si vede come mai dalla rappresentanza di quelle aspirazioni dovrebbero scaturire i difensori nati della libertà, della legalità, del diritto.
    Sul terreno dei fatti, i difensori del collegio uninominale possono dire ch’esso mandò alla Camera uomini politici di prim’ordine, e che alcuni di essi, Sonnino e Luzzatti, si ritrassero dall’aringo parlamentare quando seppero che per accedere a Montecitorio avrebbero dovuto fare i conti, invece che con il vecchio, fido collegio, con un collegio provinciale. Nessun sistema dà soltanto frutti cattivi: resta a vedere se alcuni degli uomini politici maggiori dei primi quindici anni del secolo non sarebbero stati più liberi nel loro gioco politico, più coraggiosi, se non avessero avuto degli elettori da contentare nei loro piccoli interessi. (Quanti dei superstiti deputati della Camera del 1923 sarebbero lieti di veder sciorinato l’elenco di tutti i passi che compirono per i loro elettori, di tutto ciò che chiesero per loro?).
    Ma, soprattutto, bisogna ricordare che non ci sono regimi costituzionali, ed ancor meno sistemi elettorali, buoni in sé, fuori delle circostanze di spazio e di tempo. Se non si vuole costruire utopie, occorre pensare ad una futura legge elettorale, assumendo come dati di fatto: 1) l’enorme potere che ha oggi lo Stato, vero arbitro delle sorti dei cittadini, potere che sarà anche lecito augurarsi abbia a scemare, ma che oggi è una realtà, e lo sarà ancora nell’immediato domani; 2) l’esistenza di fortissimi raggruppamenti organici fondati su comunanza di fede politica, stretti da ferrea disciplina, dove, quale sia la legge elettorale, saranno gli organi esecutivi del partito che sceglieranno i candidati, e gli appartenenti all’organizzazione voteranno per questi, anche se sconosciuti; 3) l’impossibilità di leggi elettorali non basate su suffragio universale: impossibilità che si fonda su quella constatazione cui accennavo, che oggi la vita politica segna il ritmo della vita e della libertà di ciascuno, ed è arduo negare a chiunque voce ad interloquire allorché sono in gioco la sua vita e la sua libertà, ed ancor più sull’altra constatazione, che si riscontrano dei sordi all’interesse politico anche negli alti ceti della cultura, della professione e della burocrazia, e dei sensibilissimi, pure nei ceti più umili.
    Chi muova da queste tre constatazioni: se, come chi scrive, sia un legalitario, uno che non paventa i più radicali mutamenti sociali, ma detesta quanto sa di anarchia, di disordine, di torbido: e conseguentemente paventa quelle fratture tra paese legale, e paese reale, che aprono le porte ai colpi di Stato, e comunque agli esautoramenti di governi – non può che essere radicalmente avverso al collegio uninominale. Che ci darebbe una Camera dove siederebbero insieme i rappresentanti di masse coalizzate da un ideale e da un programma comune, ed i difensori di piccoli egoismi individuali o locali, e che, ove i secondi fossero maggioranza, riaprirebbero fatalmente la via a crisi come quelle del maggio del ’15 o dell’ottobre del ’22 (ben diverse per contenuto ideale e per esiti, ma egualmente pericolose: e la prima, almeno qualche poco, agevolò la seconda). Chi sia nel mio ordine d’idee non può patrocinare che il collegio unico nazionale, con rappresentanza proporzionale, corretta dall’assicurare metà più uno dei seggi, onde consentire una stabilità di governo, alla lista che abbia per sé il più gran numero dei suffragi. Correttivo che dovrebbe pure aprire l’adito a quelle alleanze di partito nella formazione delle liste elettorali, che penso siano ragionevolmente desiderio dei più.
    Non ultimo pregio del collegio unico nazionale è ai miei occhi ch’esso garantisce in pratica l’astensione dalle urne di tutti coloro che non s’interessano di politica, e viene così ad essere il naturale correttivo del suffragio universale: opera cioè quella cernita che nessun criterio meccanico potrebbe operare.

    15 aprile 1945

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    Predefinito Re: Arturo Carlo Jemolo, gli scritti del 1945 (1991)

    5. Garanzie costituzionali

    Nell’inverno 1918-19 in tutta Europa si faceva un gran parlare di nuove costituzioni e di riforme costituzionali; e da quel travaglio di studiosi e di uomini politici uscirono, com’è noto, alcune costituzioni tecnicamente molto pregevoli. Nulla di rispondente a quella preoccupazione ed a quel travaglio, oggi. Ciò che può essere interpretato nel senso che una volta tanto l’esperienza ha ammaestrato, che, a dispetto dell’aritmetica, più tempo è passato dal 1919 ad oggi di quanto ne fosse trascorso dal 1848 al 1919, che gli uomini hanno compreso che le libertà non si possono salvaguardare con l’accorgimento di compilare una bella carta costituzionale, ma soltanto allevando generazioni desiderose di libertà, e dal cuore sufficientemente saldo per affrontare le prove necessarie per mantenerla. Ma questo silenzio in tema di future costituzioni, che non si accompagna affatto ad una fiducia nelle vecchie, e comunque ad un desiderio di mantenerle, può pure essere spiegato, ed io temo molto che questa sia la spiegazione più vera, con la diminuita cultura della classe politica in questi ventisei anni, e con il disinteresse sempre maggiore per il mondo del diritto: intorno alla cui funzione manca pure una chiara visione.
    Ora, mentre ritengo puerile l’idea quarantottesca delle libertà poste al sicuro una volta per sempre attraverso gli articoli di una costituzione, debitamente giurata dal capo dello Stato, credo ingiustificato pure un radicale scetticismo intorno a ciò che i congegni costituzionali possono assicurare di difesa di queste libertà. Li paragono un po’ all’elmetto del fante, che non protegge da tutte le pallottole, ma da quelle che non abbiano una certa forza di penetrazione. Di fronte a fenomeni come quello fascista, nessuna clausola di costituzione vale; se anche il regime non volesse abrogare la costituzione che lo imbarazzi, troverebbe sempre, i Parlamenti, e se occorre i magistrati, disposti a giurare che significa bianco l’articolo di costituzione in cui tutti leggevano nero. Ma di fronte a governi non disposti a passar sopra ad ogni ostacolo, che tengano ancora in vita delle opposizioni, che non siano insensibili alla opinione pubblica, i meccanismi costituzionali possono raggiungere qualche effetto. L’esperienza di altri Stati, dell’America, della stessa Germania in un certo momento, ci mostra che non è assurdo pensare a leggi od altri atti dichiarati incostituzionali o posti nel nulla.
    Condizione necessaria per un tale ordine di garanzie è l’esistenza di una costituzione rigida: rispetto alla quale cioè non valga la regola che si era ammessa (certo contro la mens del costituente sardo del ’48) per lo Statuto carlalbertino, che qualsiasi legge potesse derogarvi, che fosse solo un criterio politico o di opportunità, apprezzabile liberamente dal legislatore, a suggerire che la legge si discostasse il meno possibile e solo per ragioni di estrema gravità, dalla carta costituzionale. Perché questa possa assicurare una garanzia ai diritti dei cittadini, occorre si stabilisca che non possa essere derogata se non attraverso una sua riforma, o sancita da referendum popolare, o approvata da un’apposita assemblea costituente, eletta dal popolo in vista di una determinata maggioranza parlamentare (i metodi si possono anche combinare: può stabilirsi che occorra una maggioranza parlamentare di due terzi per indire il referendum). La legge o l’atto non conformi alla costituzione dovranno essere ritenuti inefficaci; e questa pronuncia potrà essere emessa, secondo i sistemi, o da quel qualsiasi giudice cui l’interessato faccia capo per sentir dichiarare l’inefficacia dell’atto che si pretende opporgli per dichiararlo spogliato di un certo diritto o privo di un certo interesse, oppure da un apposito giudice costituzionale (si può, ad es., pensare ad una Corte costituzionale, ove siedano il primo presidente ed un presidente di sezione della Cassazione, il presidente del Consiglio di Stato, e quattro giudici costituzionali, eletti dal popolo nelle elezioni generali politiche, oppure dalla Camera, con rappresentanza della minoranza, al principio della legislatura).
    Pur con quella dichiarazione di coscienza dei limitati effetti di questi meccanismi, li vedrei sempre volentieri introdotti in nuove carte costituzionali, convinto come sono che il poco sia preferibile al niente, e che sia dovere di tutti porre in essere qualsiasi strumento idoneo ad evitare il ricorso alla violenza delle lotte civili.
    Ma quali libertà dovrebbero venire poste particolarmente sotto la tutela della carta costituzionale? Anzitutto quelle che potremmo dire le libertà classiche: di religione, inclusa quella di proselitismo religioso; di associazione e di riunione; di stampa e di ogni forma di manifestazione del proprio pensiero; d’insegnamento; di emigrazione: che tutte occorre siano ben specificate nelle loro applicazioni e nei loro limiti dalla carta costituzionale: nulla essendo più inutile di una indicazione generica, posto che quasi mai le tirannie hanno pensato a rinnegarle in pieno, affermando anzi che era il loro regime quello che veramente le realizzava (la vera libertà, contrapposta alla licenza, è spunto costante nell’apologetica di tutti gli assolutismi). Poi quelle libertà d’indole economica (che si assommano nel negare la «libertà di morir di fame»), che formano oggetto del travaglio della coscienza contemporanea.
    Ma accanto a queste garanzie di libertà, che sono quelle sentite da larghe cerchie, vi sono altre garanzie che il tecnico sa non meno, anzi più indispensabili, perché volte a tutelare beni ben più di frequente in pericolo, e che non sono mai nei programmi dei partiti.
    Mi limiti qui ad indicarne alcune, ma vorrei che i giuristi, i pratici, aiutassero a formare questo elenco da sottoporre ai membri di una costituente forse non lontana.
    L’attuale legislatore, come quello fascista, come il legislatore prefascista (ma già ai tempi in cui il senso del diritto era esulato dalle aule parlamentari), non aborre dalla clausola: «contro i provvedimenti emanati in esecuzione della presente legge, non è ammesso alcun ricorso né in via giudiziaria, né in via amministrativa». È la soppressione del giudice: sia il mio provvedimento legale od illegale, sia applicazione o disapplicazione della legge che dichiara di voler attuare, tu dovrai subirlo. L’inefficacia di clausole siffatte, vorrei fosse nettamente consacrata nella costituzione.
    Lo Statuto del ’48 come tutte le costituzioni, sanciva l’ammissibilità di tutti i cittadini alle cariche civili e militari. Ma non c’è regolamento di personale e bando di concorso che non riservi all’amministrazione la facoltà insindacabile di respingere, senza motivazione, la domanda di un concorrente. Punto delicato: l’amministrazione ha le sue esigenze; talvolta anche il sospettato deve venire sacrificato; talora persino può dubitarsi (ma io risolverei il dubbio negativamente) se le esigenze di prestigio non indulgano a bruciare un granellino d’incenso alle superstizioni sociali (a non ammettere in diplomazia l’ottimo figliolo, figlio di una madre scandalosa). Non indulgerei però mai all’arbitrio: l’interessato deve sempre avere il diritto di conoscere perché gli si chiude la porta in faccia, ed a far contrastare da un organo quasi-giurisdizionale se siano o meno veri i fatti su cui si fonda la determinazione dell’Amministrazione.
    Una legge od un regolamento od un’ordinanza non devono poter obbligare se non siano stati pubblicati in modo idoneo ad assicurarne la conoscenza, e prima che sia decorso un tempo congruo per rendere possibile questa conoscenza. Bisogna stabilire, tendendo conto di quelli che sono i mezzi odierni di diffusione delle notizie, un adeguato sistema di pubblicazione delle fonti minori (regolamenti ed ordinanze) e dichiarare inefficace la clausola che il governo – conservando immutata una tradizione fascista – continua ad apporre a tutti i decreti, pure a quelli che non hanno alcun carattere di urgenza: «entra in vigore il giorno della sua pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale» (che solo dopo molti giorni arriverà in varie province).
    Abbiamo visto in questi ventidue anni più e più volte i prefetti, e persino i podestà, emanare ordinanze d’urgenza per sospendere l’esecuzione di sentenze civili. Se lo spazio me lo consentisse, potrei raccontare comici episodi in materia. Non so se dopo il 25 luglio ordinanze analoghe siano state emesse, ma certo l’interessamento delle prefetture presso organi giudiziari perché in certe materie si provveda in un senso o nell’altro non è venuto meno. A parte un più completo regolamento dei rapporti tra autorità giudiziaria ed autorità amministrativa, credo che la costituzione dovrebbe ribadire l’obbligo di tutti i funzionari ed agenti della forza pubblica di concorrere alla esecuzione delle sentenze, e la radicale inefficacia di ogni atto dell’autorità politica che si frapponga a quella esecuzione.
    Ancora. Io non sono un difensore ad ogni costo della proprietà e dell’iniziativa privata. Credo anzi che il loro ambito andrà sempre più restringendosi, che dovranno venire sempre più sacrificate. Ma vorrei che il sacrificio fosse eguale per tutte le forme di proprietà. Che pertanto lo Stato potesse sempre, senza obbligo di risarcimento, imporre un uguale aggravio su tutte le forme di proprietà (o fare su tutte le proprietà un uguale prelevamento), imporre una pari limitazione a tutte le iniziative. Ma quando dovesse sacrificarsi una forma di proprietà, non potesse farlo senza indennizzo. Se a tutti i produttori sia consentito di vendere al prezzo più conveniente, salvo ad un’unica categoria di produttori, questa deve considerarsi espropriata nell’interesse della collettività della differenza tra il prezzo che avrebbe potuto realizzare e quello più basso che le è consentito di realizzare, e deve venire indennizzata. Pure questa norma vorrei fosse oggetto di una garanzia costituzionale.
    Pure costituzionalmente vorrei sancito l’obbligo dell’Amministrazione di motivare i suoi provvedimenti (chiarendo che non assolve all’obbligo della motivazione il generico richiamo alle gravi ragioni od all’interesse pubblico, non meglio specificato): che è garanzia adeguata, non per la motivazione in sé, ma per la possibilità d’instaurare un ricorso giurisdizionale sulla non rispondenza al vero della motivazione.
    La costituzione dovrebbe ancora sancire la responsabilità del funzionario: anzitutto col dare il bando ad ogni forma di garanzia amministrativa (cioè alla necessità di un’autorizzazione di organi del potere esecutivo perché un funzionario possa venire perseguito penalmente); poi ponendo come regola che il funzionario debba concorrere con l’Amministrazione a risarcire il danno recato dal suo atto illegittimo. La disposizione dovrebbe essere ben congegnata; ché il giudice amministrativo diverrebbe molto riluttante a dichiarare l’illegittimità di un atto e ad annullarlo, se sapesse che la sua pronuncia equivale a condanna di un funzionario a risarcire. Tuttavia, sia pure in piccola parte, l’Amministrazione dovrebbe essere rilevata dal funzionario, nel momento in cui risarcisse.
    Penso che la carta costituzionale potrebbe ancora dare qualche utile disposizione in tema di rapporti tra cittadino ed Amministrazione: non togliendo nulla di sostanziale a questa (penso che lo spirito dei tempi porti piuttosto ad accrescere che a diminuire i suoi poteri), ma evitando al cittadino varie piccole vessazioni (sarebbe, ad esempio, assurdo stabilire che solo il magistrato penale nell’esercizio del suo potere istruttorio può convocare il cittadino senza indicarne i motivi, ma che la convocazione di ogni altro funzionario è priva di effetti, se non motivata: e s’intende che non è motivata quella che contenga la generica formula «per affari che La riguardano»?).
    Un certo numero di controversie su questi punti, e la semplice possibilità di controversie, sarebbe benefica per il costume. Ventidue anni di dittatura non sono passati invano; accanto a ministri liberali, e, soprattutto, uomini probi, ve ne sono altri per cui vale il sic volo, sic iubeo, e per cui il titolo di amico personale del ministro, vale più di ogni titolo giuridico. Quando ci sarà una Camera con diritto d’interpellanza, quando, rotta una coalizione di partiti, la stampa attuerà più rigorosamente la sua funzione di censura, il costume ne trarrà certo giovamento.
    Ma per questa riforma del costume non sono da disprezzare i vecchi strumenti dei giuristi, e le controversie di cui racchiudono la possibilità.

    1° maggio 1945

    (...)
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    Predefinito Re: Arturo Carlo Jemolo, gli scritti del 1945 (1991)

    6. Il voto obbligatorio

    In questa preparazione di leggi elettorali, si sente molto parlare, su fogli conservatori, di voto obbligatorio. Vecchia proposta, agitata fin dai primordi dei regimi costituzionali.
    Spesso la si presenta come strumento opportuno per l’educazione politica del popolo. Non è lecito al cittadino disinteressarsi della cosa pubblica: se non ha l’interesse spontaneo, forziamolo ad occuparsene, costringendolo ad esercitare quello che si chiama diritto di voto, ma che non è in realtà un diritto, bensì l’esercizio di una pubblica funzione. È come se un professore incaricato di dare ai suoi allievi l’interessamento per le opere d’arte, per la pittura, in ipotesi, in luogo di accingersi al faticoso compito di portarli per musei, di dare loro i concetti di prospettiva, di tonalità, di masse, di senso, dello spazio, e via dicendo, li costringesse un volta l’anno (nel caso delle elezioni, il termine sarebbe molto più lungo) a scrivere per un referendum un nome di pittore, senza dover poi dare alcuna spiegazione sul perché della loro preferenza. Il metodo si giudica da sé.
    Ma la campagna per il voto obbligatorio ha in realtà – ed ha sempre avuto, in tutti i paesi – un obiettivo ben più concreto ed immediato di quello della educazione politica delle masse: l’obiettivo di assicurare ai partiti di destra, e comunque ai moderati, il suffragio di molte centinaia di migliaia, o di milioni di elettori, che si ritiene che senza il voto obbligatorio si asterrebbero dalle urne.
    Chi sono quelli che prevedibilmente si asterranno dal voto?
    Piccoli trafficanti, la cui filosofia si riduce al «tira a campà» o cui non interessa tutto ciò ch’è estraneo al loro commercio (che è estraneo oggi, giacché questi non sono in grado di guardare al domani né di risalire a causa remote): piccoli impiegati che si sono convinti, attraverso le concitate discussioni del mattino sul giornale or ora letto, che tutti i partiti si equivalgono, e tutti sono composti degli stessi farabutti: possidenti e commercianti, persuasi che la politica non è mestiere di galantuomini, e che non è possibile occuparsene, poco o molto, senza sporcarsi; studenti che aborrono la fatica del pensare, e che occuperanno la mattina delle elezioni in una passeggiata in campagna con la maschietta; ed anche, signore della buona borghesia che non andranno a votare, perché questo non si è fatto mai, e perché pensano sia ridicolo che la donna si occupi di politica.
    Ora, non pare infondato il convincimento che, se queste persone saranno costrette al voto, per la maggior parte daranno il loro suffragio ai cosiddetti partiti d’ordine (quante dattilografe o sartine voteranno per la monarchia, solo perché «i principini sono tanti carini»!).
    Senonché vorrei proprio far meditare i rappresentanti degl’interessi dei cosiddetti partiti d’ordine del pericolo che racchiuderebbe ogni loro vittoria conquistata con un tal mezzo.
    La maggioranza di energie, di forze, di volontà, non coincide mai con la maggioranza legale. Attraverso un pacifico referendum, attuato con o senza il sistema del voto obbligatorio, Luigi Filippo sarebbe rimasto re nel febbraio ’48. Napoleone III malgrado la sconfitta sarebbe rimasto imperatore il 4 settembre ’70, il Risorgimento italiano non si sarebbe mai compiuto. Tutte le rivoluzioni, direi senza eccezione, sono fatte dalle minoranze numeriche che costituiscono le maggioranze di forze. Il pericolo delle rivoluzioni, delle brusche rotture, è tanto più grave quanto più si accresce la sproporzione tra maggioranza numerica e maggioranza di forze. In passato le maggioranze di energie hanno molto sopportato dalle maggioranze numeriche; il rispetto per il «paese legale», per la volontà espressa dalla maggioranza parlamentare, era intenso; le maggioranze di energie non avevano coscienza di sé. Attraverso gli avvenimenti degli ultimi trent’anni hanno acquistato quella coscienza, ed è vano sperare la perdano.
    Opporre (sia pure invocando tutte le ragioni teoriche fondate sulla necessità di rappresentanza di tutti gl’interessi, che non si manca di addurre) alle maggioranze di energie, alle masse inquadrate in partiti politici, e ricche di fede e di volontà di agire, il gruppo amorfo di quel paio di milioni di elettori che solo la minaccia di mille lire di ammenda può condurre alle urne, è pura follia.
    Siamo tutti convinti che la vera base della democrazia è la sottomissione degli sconfitti alla risposta delle urne, che non c’è salvezza per le istituzioni democratiche se si comincia a negar valore a quella risposta. Ma bisogna pur dire che questa «regola del gioco», fondamentale per la democrazia, è appunto una «regola del gioco», una finzione, che contrasta alla legge naturale, per cui è l’energia più intensa quella che deve prevalere, anche se generata da un numero di fattori ben minore di quello da cui è generata l’energia più debole. Tutte le dottrine politiche, tutti gli assetti costituzionali, poggiano su finzioni analoghe. Ma occorre che le finzioni non contrastino troppo con la realtà, perché resistano. Nel caso, le istituzioni democratiche reggono a condizione che il «paese legale» non sia troppo difforme dal paese reale; e quando parlo di paese reale, intendo quello in cui ogni cittadino conta per ciò che ha di convinzioni, di energie, di spirito di sacrificio, quello in cui non sono affatto addendi uguali colui che dice: – mi farei uccidere per questa dottrina politica – e l’altro che dice: – se proprio fossi costretto a votare, voterei per quella lista.
    Che uomini politici molto avanti con gli anni possano condividere l’illusione dei fautori del voto obbligatorio, non mi stupisce. Per quanto si sia svegli d’intelligenza, è difficile a superare la forma mentis che si è presa nei primi quarant’anni di vita, le scale di valori che allora si sono formate. Per i parlamentari vissuti fino al 1915 non esisteva che il «paese legale», anzi non esisteva che Montecitorio. L’irredentismo, l’avversione diffusa verso l’Austria e la Triplice, non contavano perché non avevano rappresentanti in Parlamento, a prescindere dall’on. Barzilai, cui facevano con moderazione da corifei pochi repubblicani. Le accuse che si sentono oggi muovere contro vecchi liberali, defunti o viventi, – Giolitti, Bergamini, lo stesso Bonomi – di avere favorito il fascismo ai suoi inizi, a parte il loro fondamento, non possono venire adeguatamente apprezzate dai giovani. Per quei vecchi uomini politici il fascismo contava poco o nulla perché nulla o quasi nulla era rappresentato a Montecitorio: agevolare le prime squadre di azione, era dare vita ad un gioco di piazza, senza conseguenza; le cose serie non potevano farsi che a Montecitorio; Mussolini era innocuo finché non rischiasse di avere per sé la maggioranza parlamentare; di ciò non si scorgeva nel 1919-21 alcun pericolo.
    Ora tra i vecchi parlamentari più d’uno è ancora in quel medesimo stato d’animo, nulla avendo imparato dalla storia. E può bene sorridergli l’idea di una maggioranza moderata costituita attraverso il voto obbligatorio. Ma nei giovani, anche appartenenti ai partiti di destra, una tale speranza è follia; è l’illusione che l’ombrello prevalga sulla spada. Quel ch’è peggio, è l’illusione che attuata aprirebbe la via a quelle rivendiche dei diritti del paese reale sul paese legale, che si chiamano rivoluzioni.

    15 maggio 1945

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    Predefinito Re: Arturo Carlo Jemolo, gli scritti del 1945 (1991)

    7. Roma o Mosca

    In un suo romanzo sul mondo di domani, feroce satira dei regimi totalitari, Aldous Huxley immaginava un regime in cui la mentalità delle nuove generazioni era formata attraverso la ripetizione all’infinito, con altoparlanti, nella veglia e nel sonno, dalla culla in poi, di determinate frasi.

    Fantasie di romanzieri a parte, la frase fatta mi fa paura. Si può qualificare l’uomo animale ragionevole, ma questo non toglie che il pensare lo affatichi; può pensare, può ragionare, ma con sforzo: al ragionamento dedica la minor parte della sua vita. Anche i cosiddetti intellettuali, i cosiddetti dialettici, esercitano la loro attività solo in settori limitatissimi, sempre gli stessi: il grande scrittore di estetica rifuggirà dallo sforzo mentale occorrente per rendersi chiaro conto del lavoro della macchina più semplice. Al bambino piace che la mamma gli racconti più e più volte la stessa storia; piace rileggere infinte volte il medesimo libro di favole: restiamo a certi effetti bambini per tutta la vita: prediligiamo il giornale del nostro partito, ed a stento e rare volte leggiamo quelli avversari.
    Più si scende verso gli umili, e più la frase fatta, o l’immagine scolpita nella mente sin dalla infanzia, assumono valore.
    E in questo faticoso contrasto di ogni giorno per un rinnovamento d’Italia, contro l’inerzia mentale, contro l’apatia, contro l’immobilismo, la frase fatta è un ostacolo che non di rado si para dinanzi.
    Un residuo pudore ha impedito di tirar fuori le frasi di troppo schietto conio fascista; ma credo di non errare asserendo ch’esse sono sempre nella coscienza dei più e che esercitano la loro forza. Non si scrive «Roma o Mosca», ma è il motto che appare sol che si guardino contro luce, nella filigrana, moltissimi degli articoli e degli opuscoli d’oggi.
    Nel terzo numero de «Il Ponte» scrive Calamandrei: Segreti del vocabolario. – Dice il signore benpensante, impensierito della situazione politica italiana: – Ormai il dilemma è chiaro: «o monarchia o comunismo». – Un dilemma simile fioriva sulla bocca dello stesso signore benpensante venticinque anni fa: «O fascismo o comunismo». E, naturalmente, lui scelse il fascismo. – Cinque, o sei anni fa egli preferiva un’altra formula ugualmente perentoria: «O Germania o comunismo». E, naturalmente, lui scelse la Germania. – Ora, si intende, sceglie la monarchia. Ma è coerente: perché nel suo vocabolario «fascismo» «Germania» «monarchia» sono sinonimi che voglion dire sempre la stessa cosa: «la mia fattoria».
    Giustissimo.
    Ma bisogna pur essere guardinghi e decisi, quanti siamo amanti di libertà, contro questi motivi a base di dilemmi, che sentiamo ritornare a distanza di un quarto di secolo, e che ricordiamo a cosa prelusero, allora.
    Non vogliamo Mosca.
    Non ci fa paura il programma economico: c’inchiniamo anzi a quell’anelito di giustizia che ne è alla base. Neppure le concezioni filosofiche che sono a fondamento del comunismo basterebbero, a mio avviso, ad elevare una barriera. Non sono, non saranno mai le mie concezioni. Ma nel mio cattolicesimo liberale è radicata l’idea di possibili alleanze politiche, di possibili accordi in ambiti svariati, con persone e gruppi le cui concezioni religiose e filosofiche siano all’antitesi delle mie. Quel che mi allontana è l’antiliberalismo, e, più ancora che la sostanza, il modo. Mi spiego. Di fronte a chi mi tenesse il discorso: – l’esperienza storica ha dimostrato l’impossibilità di far coesistere libertà e giustizia sociale, ci ha persuasi della necessità di sacrificare quella libertà intellettualistica, ideologica, di cui in fondo siete una minoranza d’intellettuali a sentire il bisogno, alla possibilità per il più gran numero di avere quei beni essenziali della vita che formano, questi sì, un bisogno universalmente sentito, e la cui deficienza toglie di mezzo ogni questione di libertà d’opinioni o d’idee, perché non si pensa più quando la miseria supera un certo grado; – di fronte a chi tenesse questo discorso, non resterei certo persuaso, avrei ottimi argomenti di replica, ma non mi sentirei lontano per il mio dissenso. Mi allontana invece quel conformismo che noto in tutti i comunisti, quell’approvare integralmente tutte le «direttive» del loro partito, tutti i discorsi dei loro uomini rappresentativi – là dove anche il più pio sacerdote mi fa talora qualche riserva sugli atti delle maggiori autorità ecclesiastiche, quante volte non tocchino la fede. Mi allontana quell’identico modo di argomentare di tutti i comunisti, in cui pare anneghino le più forti personalità, le più vive intelligenze. Mi allontanano certi ragionamenti capziosi, come quello in favore del partito unico: scomparse le classi sociali, non ci potrebbero essere più se non dissensi occasionali sopra singoli punti, non già polarizzazioni sopra contrasti perenni d’interessi che giustificassero la pluralità di partiti (e non c’è chi non veda chi in ogni gruppo di uomini, qualunque sia la finalità del raggruppamento, sempre ci saranno, conseguenze della stessa natura fisica, che ci fa esuberanti o timidi ricercatori d’ingrandimento e di sviluppi o fautori del piede di casa, innovatori o tradizionalisti, proclivi ad imporre la personalità nostra o rispettosi dell’altrui, durevoli antitesi e formazioni di gruppi minori in contrasto).
    Ma se non vogliamo quel rinnegamento dei valori liberali che individuiamo con il nome di Mosca, non siamo però ciechi nel non riconoscere cosa si raggruppa sotto l’etichetta di anti-Mosca.
    I comunisti, che hanno ai miei occhi il grosso torto di vedere per schemi, scorgono le classi ricche, il capitale in agguato. Io vedo il mondo molto meno sussumibile sotto etichette. Scorgo grandi industriali, che hanno certo l’intenzione di difendere le loro posizioni, ma che saprebbero ancora trovare bella la vita pur il giorno in cui fossero semplici direttori delle loro industrie. Scorgo agricoltori grandi e piccoli, mezzadri inclusi, inetti invece a trasformarsi, a poter vivere fuori dello schema della proprietà o della colonia, a poter amare un mondo in cui i vocaboli mio e tuo non avessero più l’antico significato. Ma le forze della reazione le vedo, oggi come in passato, come nel 1799, come nel carlismo spagnolo, come nel risorgimento, come sempre, soprattutto fuori della cerchia dei ricchi. Masse manovrate dalla plutocrazia, vi dirà la storia materialista: ma questo filo che termina in mano di pochi burattinai è ancora da mettere in luce. Oggi le forze della reazione le scorgo (in una visione d’insieme: qui pure ci sono certo singoli veri amanti di libertà) nella massa burocratica – anche se fa scioperi e si asserraglia negli uffici per avere aumenti di stipendio -, negli ufficiali e sottufficiali: che difendono il passato, e col passato i loro organici ed i loro quadri, e così il proprio pane; ma ancor più le scorgo in tutti coloro che spiritualmente appartengono a quella che chiamo «l’Italia mussulmana» (gl’inerti, quelli delle frasi fatte: «il galantuomo non si occupa di politica», «la donna deve stare in cucina», «i partiti sono tutti gli stessi», «i governanti sono tutti ambiziosi o corrotti o pensosi solo del proprio interesse»), in tutti i depressi ed i pessimisti, in coloro che vi dicono e vi stampano sui manifesti che la repubblica è la migliore forma di governo, ma che per noi italiani non va, che a noi occorre la monarchia, che riconoscono i difetti del collegio uninominale, ma lo vogliono, perché pensano che è bene i più degli Italiani continuino a lottare per la vittoria della famiglia di compare Ciccio contro quella di compare Peppe, giacché combinerebbero guai ben maggiori il giorno che si mettessero a pensare a spunti ideali, in coloro che ritengono ineducabile il nostro popolo.
    Sarebbe ingenuo svalutare le forze di questa reazione: che in un anno di governo uomini sinceramente amanti della libertà non hanno saputo né individuare né combattere. Che hanno anzi senza volere rafforzato con i loro errori (se gli uomini politici girassero sulla piattaforma dei tram saprebbero gli aspri commenti che ha destato la laboriosa negoziazione sbocciata nei venti ministri e ventiquattro sottosegretari). Il disinteressamento per l’amministrazione di molti giovani uomini politici è uno dei pericoli più gravi. Se i governi non riescono a dominare la burocrazia, a foggiare loro quella che dev’essere l’amministrazione dell’Italia povera dei prossimi anni; se lasciano alla burocrazia – che difende se stessa, ed è umano – di foggiare lei, alleata agl’interessi di campanile ed ai particolarismi, l’amministrazione civile, militare e giudiziaria, dell’Italia di domani, con quadri estesissimi d’impiegati mal pagati, con bilanci in cui l’ottanta per cento sia assorbito dalle spese per il personale, è un’Italia levantina (o, se il vocabolo spiaccia, una Italia troppo memore del regno di Napoli di Ferdinando II e dello Stato pontificio di Gregorio XVI) quella che si preannunzia: ed una tale Italia non sarà mai né democratica né liberale; le marcie su Roma saranno sempre pericolo incombente.
    Le forze di questa reazione, almeno per ciò ch’è influenza sulla opinione pubblica, le abbiamo saggiate al confronto dei moti di spiriti che fu provocato in Italia per l’occupazione slava di Trieste e per quella francese della valle d’Aosta. Trieste città maggiore, grande porto, poneva in gioco un ben più vasto ambito territoriale; vero: ma vero anche che con la valle d’Aosta si attentava al confine più palese che la geografia abbia mai scolpito, vero soprattutto che, mentre nella lotta intorno a Trieste erano e sono in gioco due interessi contrastanti, ma reali (posto che purtroppo i vincitori non accennano a creare un mondo in cui le questioni di frontiera e di colori nazionali poco più contino), nella valle d’Aosta non v’era da parte del governo francese che un desiderio di punire o di ferire. Vero altresì, che mentre la pugnalata nella schiena alla Francia del giugno ’40 fu atto di pura volontà del governo fascista, e nove italiani su dieci ne sentirono il rossore, non sono altrettanto numerosi gl’italiani che possano declinare qualsiasi solidarietà morale di colpa, almeno di omissione e di mancata deprecazione, per ciò che hanno sofferto gli slavi nella Venezia Giulia. Ora fu giusta e sacrosanta la reazione che disse – e sarebbe stato bene dire solo questo, e su questo punto raggiungere l’unanimità – che Trieste slava vuol dire un errore analogo a quello commesso da Bismarck nel ’70, e di cui pare si dolesse in vecchiaia, di aver tolto alla Francia Strasburgo e Metz, vuol dire la prostrazione, e la sconfitta in partenza, di quanti in Italia han giurato di combattere tutti i nazionalismi, di essere anzitutto dei pacifisti decisi. Ma la reazione non si fermò qui; si accentuò in una tinta anticomunista ed antisocialista, nel far dire ai comunisti nostri quel che mai avevano detto, nel collegare Tito, non già ad un movimento slavo, violento e bellicoso, che noi vecchi conosciamo da oltre trent’anni e cui diamo per punto di partenza Belgrado, bensì con il bolscevismo. Un uomo politico non degli ultimi diceva in confidenza agli amici che l’ultima disgrazia per l’Italia sarebbe, non già di perdere Trieste, ma di riaverla dalla volontà di Stalin. All’apposto, per la valle d’Aosta e per le altre zone della frontiera alpina minacciate, reazione insignificante. E nessuno che si chiedesse se in quelle minacce dovesse ravvisarsi l’animo del popolo francese o non piuttosto di quella casta – gens à particule, buona borghesia che da cinque generazioni poco ha mutato i suoi ranghi – che tiene le leve del comando allo stato maggiore, al Quai d’Orsay, all’università, dovunque, qualunque sia la risposta delle urne, ed anche se il capo del governo si chiami Combes o Briand; che si chiedesse se de Gaulle non si riannodi ad una tradizione in cui è inserita la spedizione di Roma del ’49, l’ostilità all’Italia unificata e più tardi anche alla nostra modesta espansione coloniale.
    Sbaglierò, ma ho visto in quest’orientamento della opinione pubblica nelle due questioni, di Trieste e della valle d’Aosta, quanto più possano, per lo meno sulla piccola borghesia, quelle che per me sono le forze della reazione.
    I veri amanti della libertà hanno due fronti di lotta. Errerò, ma credo che il pericolo sia più imminente su quello della reazione che sull’altro. Su quello della reazione, comunque, la lotta è più difficile. Il comunismo ci mostra una teoria ben chiara, inaccettabile, una méta, il partito unico, che per noi è inconciliabile con la libertà. La reazione non si presenta mai con il suo nome, parla sempre di democrazia; probabilmente, nella più gran parte dei suoi è in buona fede, ignora la propria essenza: contrariamente a come i comunisti amano raffigurarsela, è qualcosa di eterogeneo, di amorfo, accoglie in sé elementi diversissimi. In pochi è meditata e ferma volontà di raggiungere un dato ordinamento: la sua gran massa è per la reazione solo perché è per l’irrazionale contro la ragione, per la formula fatta contro il pensiero, per la tradizione in quanto evita ogni sforzo mentale: ed altresì perché è per l’egoismo contro la visione di un bene della collettività, per l’interesse individuale divinizzato contro l’impero di una legge morale; ed ancora, perché è per la pigrizia contro il lavoro, per la sedia ed il tavolino d’ufficio su cui leggere il giornale contro il duro lavoro dei muscoli, per la viltà contro il coraggio, per la sfiducia contro la fede.
    Contro una reazione così formata la lotta è difficile e dev’essere di ogni momento. La si combatte, come già si combatteva il fascismo, quante volte si educa altri all’analisi, alla sincerità con se stessi, quante volte si dicono verità sgradite, si perdono amicizie per amore del vero, quante volte soprattutto si denuncia l’egoismo individuale. Ma naturalmente possono venire delle ore in cui tanto non basti. Quanti per oltre venti anni portammo il rimorso di non aver opposto il 28 ottobre 1922 la sola resistenza che in quel momento sarebbe stata adeguata, quella delle armi, cercheremo di comunicare quell’amara esperienza ai più giovani: pure augurandoci che a noi ed a loro sia evitata la prova di altre guerre civili. Si combatte la reazione ricostruendo, colpendo quella miseria, quello spirito di prostrazione, quella indisciplina, di cui si alimenta.
    Non dobbiamo illuderci. Oggi come ieri i veri amanti della libertà, coloro che sentono il bisogno della libertà, sono una minoranza; oserei dire una piccola minoranza. Ma da questa constatazione dobbiamo trarre motivo di fede, ché sempre di tali minoranze fu il domani. Solo attraverso l’intensità della fede, che genera il fervore delle opere, che permette la resistenza a tutti gli allettamenti, potremo spezzare il dilemma di due negazioni di libertà, che altri vorrebbe imporci.

    15 luglio 1945

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    Predefinito Re: Arturo Carlo Jemolo, gli scritti del 1945 (1991)

    8. Verso l’uomo provvidenziale

    Nel novero delle storielle tradizionali del popolino di Roma hanno posto notevole quelle dei papi che, travestiti, indagano sugli abusi commessi a danno del popolo: di Sisto V che va per le osterie, constata che gli osti servono le «fogliette» rubando sulla misura, e li fa impiccare; di Benedetto XIV che si finge ferito e strepita di notte alla porta dell’ospedale di S. Spirito, senza ottenere che gli aprano, finché, rivelatosi, incute una tremenda paura ai medici.
    Sin da ragazzo ho desiderato dei ministri che s’ispirassero a queste tradizioni: un ministro delle poste che andasse una volta a spedire una raccomandata, un ministro delle comunicazioni che viaggiasse una volta in terza classe, un ministro delle finanze che si affacciasse una volta ad un ufficio delle imposte, e vedesse la fila di persone in piedi, appoggiate ad un muro, che attendono con in mano la cartolina che le invita a presentarsi «per affari che le riguardano», che dopo un’ora di attesa entrano in una stanza, e ne escono dopo un minuto essendosi sentite dire di ritornare l’indomani con certi documenti.
    Ma oggi avrei proprio caro che i ministri andassero sui tram, od alle osterie, come il popolino di Roma s’immagina vi andasse Sisto V, per ascoltare i discorsi che vi si tengono. Ciò che credo sarebbe in particolar modo necessario per gli uomini di governo che appartengono ai partiti di massa, e che ho l’impressione vivano troppo spesso murati entro questi partiti, conoscendone molto bene l’intima vita, ma scambiando per pensiero e per sentimento del paese quello ch’è del loro partito soltanto.
    Se i ministri si mescolassero al popolo della città e delle campagne, del sud e del nord, e ne sentissero quella viva voce che i giornali non raccolgono, forse scaturirebbero dalle loro labbra quelle parole che Churchill pronunciò nelle ore più fosche della guerra: «non possiamo più concederci il lusso di commettere un altro solo errore».
    I giudizi storici sono sempre discutibili: manca in essi il termine di paragone, che è un futuribile che la mente dell’uomo non può raggiungere: al posto del tale uomo politico che conseguì quei successi, un altro avrebbe potuto conseguire successi maggiori? quegli errori potevano essere evitati? c’era modo di fare fronte a quegli eccessi del popolo? Nessuno potrà mai dare una risposta categorica. Con questa premessa, sono proclive a ritenere che meritino riconoscenza, nel loro insieme, gli uomini di governo che si sono succeduti dal primo ministero Bonomi in poi (non ho elementi per un giudizio sui gabinetti Badoglio); ch’essi abbiano bene meritato dell’Italia. Ma non sono sicuro che tutti gl’italiani ne siano persuasi – anche perché né Bonomi né Parri né i migliori tra gli uomini di governo si sono mai dati cura d’illustrare al popolo italiano le proprie benemerenze, d’illustrargli ed accentuargli i primi passi percorsi sulla via della rinascita. – O, meglio, molti nel fondo della loro coscienza credo ne siano persuasi; ma avviene agl’italiani quel che avviene a tutti noi nei periodi di miseria, d’irritazione: soggiacciono al bisogno di dir male di qualcuno, di criticare, di scaricare su dei responsabili le ragioni del proprio malessere.
    Certo è che chi tasta il polso al paese coglie un senso di scontento sempre crescente: che non si polarizza nell’avversione ad un partito o ad un gruppo di partiti e nella fiducia per certi altri; bensì in quello che a mio avviso è lo stato d’animo più pericoloso, più pregiudizievole ad ogni ricostruzione avvenire, più grave di minaccia di dittatura; lo stato d’animo degli scettici, degli sfiduciati, di coloro che vi dicono che tutti i regimi si equivalgono, che tutti gli uomini politici arrivati al potere non pensano che a sé, o, addirittura, che si stava meglio prima. Fare la diagnosi, non solo, ma la disamina di questo stato d’animo, non è difficile, ed a buon diritto si può ravvisare in esso come precipuo componente quello che per me fu il principale componente del fascismo: l’amoralismo politico. Buono il regime che dà la prosperità economica, le soddisfazioni alla bandiera, l’ordine interno, se anche le sue imprese siano ingiuste, le sue leggi inique, se anche i suoi uomini rappresentativi siano moralmente bacati, se pure talvolta si abbandoni ad eccessi di ferocia od a persecuzioni d’innocenti. Che è, trasportata sul terreno politico, la presunta saggezza di quegli che afferma che solo i farabutti possono essere buoni dirigenti d’imprese, e che dichiara di cercare per le sue terre il fattore intelligente e ladro, dato che non crede ve ne siano d’intelligenti ed onesti. Nei moltissimi che non si stancano di ripetere: - basta con i partiti, basta con le discussioni, basta con le polemiche, basta con l’epurazione, basta col guardare al passato: vogliamo solo i tecnici, vogliamo solo lavorare, vogliamo solo ricostruire – raramente c’è sottintesa una separazione tra condanne morali che possono e debbono attuarsi nell’ambito della coscienza, e condanne (molto minori in numero) che possono tradursi in sanzioni esteriori; nei più c’è quella insensibilità morale che ieri li portava a restare indifferenti a qualsiasi impresa del fascismo, solo che la vita economica del paese fosse od apparisse prospera.
    Ma la diagnosi poco giova. Non riusciremo a costruire dall’oggi al domani queste coscienze morali; o non si può non tener conto di quella che forse è la maggioranza del paese (si badi a molti piccoli sintomi, ad es. alla diffusione che ha in Roma «L’uomo qualunque»).
    Chi ha la mia età, vede una ripetizione, ingrandita ed in un quadro ben più tragico, dell’altro dopo-guerra: con i governi di breve durata, la grande agitazione politica, il malessere economico, i continui scioperi, le richieste di operai e d’impiegati che ogni giorno si ripetono, e soddisfatte ieri sono ripresentate accresciute domani, il dissolversi del capitale od il suo ritirarsi in investimenti non redditizi, in tesoreggiamenti; ed ancora l’incapacità dello Stato a reprimere ed a punire, la falsa idea che sia illiberale applicare la legge, la dimenticanza di quello ch’era il monito che già dava Pietro Colletta ricordando il ventuno napoletano e condannando coloro che, per il timore di offendere la libertà con uno squadrone di cavalleria, l’avevano lasciata perire. C’è qualche piccola variante, in peggio ed in meglio (mi sembra che i partiti nei loro programmi restino molto più nel vago, ed appaiano meno capaci di piani concreti che non fossero venticinque anni fa; mi pare che le commissioni interne funzionino meglio, e non accordino quella solidarietà agli elementi peggiori, che allora accordavano): ma l’insieme è lo stesso: mi sembra di avere già percorso 1919 e di trovarmi in pieno 1920. Come allora, l’indisciplina, la violenza, trionfano sempre. Dei senza tetto, non soddisfatti della caserma o del baraccamento loro dato, occupano una scuola, che non potrà più riaprirsi, od una casa quasi finita, che non potrà venire ultimata? L’indomani il Prefetto accorda il decreto di requisizione. Persone che vogliono tornare in Sardegna e non trovano il mezzo occupano con la forza una nave in un porto? Arriva subito la nave da guerra che la prende a rimorchio e la porta a destinazione. Le carceri sono assalite ed i carcerati liberati, gli uffici comunali e le agenzie delle imposte date alle fiamme senza che si spari un colpo. Così si generalizza l’idea che solo con la violenza verso lo Stato e gli enti pubblici sia possibili ottenere qualcosa, così in chi non era incline a farsi ragione da sé, penetra l’idea che sia da sciocchi obbedire alle leggi.
    La storia non suole ripetersi nei dettagli, e spero che l’esito sarà diverso; ma occorre che gli amici della libertà stiano in guardia, lo ricordo, e lo ricordava qualche mese fa con la sua autorità Carlo Sforza, quella che fu in un primo tempo la popolarità di Mussolini, il consenso che trovò in vastissime cerchie della popolazione. Ai pochi che piangevamo la libertà estinta, ci si opponeva trionfalmente: – almeno, adesso i tram camminano! – Lo stillicidio degli scioperi, delle piccole violenze, delle punture di spillo, aveva esacerbato.
    Ho tanto sofferto, ogni giorno, senza remissione, di ventidue anni di dittatura, che accetterei per quei pochi anni che mi restano di vivere piuttosto in anarchia che in dittatura. Ma ahimè, non credo possibile che un paese viva in continua anarchia: le poche torte residue – le vecchie società anonime, con i loro forti patrimoni – si divorano in fretta; ed in anarchia non è possibile né una economia liberista né una socialista. Si arriva presto ad uno stato di esasperazione, di marasma, in cui sorge fatalmente il padrone, il dittatore.
    Ordine rosso? Se il triste destino della mia generazione dovesse essere di vedere ancora sorgere una dittatura, se dovessimo ancora ricadere sotto una pietra tombale, chiusi nel silenzio, sarebbe ancora miglior destino soffrire sotto una dittatura che abbia alla base un anelito di giustizia sociale, da cui sia lecito sperare che possa lentamente, in un secolo, al suo maturare od al suo dissolversi, dare vita ad una fioritura di democrazia, che non sotto il lezzo di una dittatura volta a riconsacrare vecchie ingiustizie, idoli spezzati, esperienze su cui l’ultima parola è stata detta. Dittature come quella di Franco. Fondate sui militari, sui nobili, sul poco che v’è di morto, di anticristiano in ciò che si vuol chiamare cattolicesimo, mi paiono le più tristi che sia dato pensare: non v’è in esse alcun bagliore di un domani migliore. L’idea di una dittatura rossa mi spaventa, ma non è ancora il pessimum per me. Senonché io non vedo delinearsi per l’Italia il pericolo della dittatura rossa (non considero tale quella di un dittatore tipo Mussolini, che appoggiandosi sui consueti sostegni delle dittature tradizionali, civetti con simboli e motti rivoluzionari). So che molti pensano ad un comunismo omniveggente, omnisciente, omnipresente, il quale fomenterebbe oggi tutti i disordini, proteggerebbe oggi tutti i violenti, per impedire ogni consolidarsi di forme democratiche; ma il giorno successivo a quello in cui avesse assestato il colpo di grazia al regime democratico, instaurerebbe una disciplina ferrea. Lo storico conosce anche questo tipo di leggende: al popolo è piaciuto credere nell’onnipotenza dei gesuiti, in quella dei massoni, in quella degli ebrei; è piaciuto vedere nella rivoluzione francese o nella prima guerra mondiale l’effetto di una congiura di pochi uomini, attuata secondo un piano preciso sin nei dettagli, negli eccessi della rivoluzione francese l’opera degli agenti provocatori della reazione. Lo storico sorride di queste leggende, e ricorda ben altre realtà: nelle jacqueries, in tutti i movimenti popolari. Cola di Rienzo o Masaniello, vi furono sempre i puri, che erano spesso i temibili fanatici (Les Dieux ont soif di Anatole France vale per tutte le rivoluzioni), e per ogni puro ci furono mille profittatori: facile condurre le turbe al saccheggio; ben arduo portarle poi alla severa disciplina del lavoro e della rinuncia. Quanti capi-popolo, acclamati finché si trattava di andare a rubare ori ed argenti nei palazzi e nelle chiese, non furono massacrati il giorno che pretesero che quegli ori e quegli argenti fossero posti in comune, al servizio della collettività? La bene ordinate schiere comuniste, che all’indomani del trionfo imporrebbero, se non potesse ottenersi spontaneamente, al popolo i duri sacrifici di cui nessuno gli ha mai parlato, molto e disciplinato lavoro, condizioni dure di vita – mi paiono un’altra evocazione di leggenda.
    Vorrei che gli uomini di governo guardassero a fondo nelle loro coscienze. È onesto tacere al popolo certe verità? è onesto non dire ogni giorno, ad ogni ora, non solo che le conseguenze della guerra e della sconfitta devono essere pagate, e che non è possibile ciascuno si ritrovi nelle condizioni di vita in cui era nel 1940, ma che, data la composizione economica del popolo italiano, è altrettanto assurdo sperare che questi effetti della sconfitta li risentano solo i cosiddetti signori, restandone esclusa la maggioranza del popolo, operai, contadini, impiegati, insegnanti? È onesto lasciare che tutti gli egoismi – ricordo quelli di campanile, quelli della burocrazia – si scatenino, e non dire ma che è questa l’ora delle rinunce, e non eccitare alla gara delle rinunce (benemerito della Nazione quel comune che offrirà la soppressione di un ufficio inutile, quegli impiegati che chiederanno una riduzione di organico, l’eliminazione di un posto di direttore generale…)?
    Attenzione!
    Non c’è più molto tempo per commettere errori.
    La storia non si ripete, è vero.
    Spero che non rivedremo dittatori; ma c’è, forse anche un pochino più che non ci fosse nel 1920 (l’abitudine della libertà, una volta perduta, non si è potuto riacquistarla d’un colpo; per molti essa resta un lusso intellettuale, non l’aria che si respira), ampliamente diffuso, se pur non si osi esprimerlo, il desiderio dell’uomo provvidenziale. Divisa da generale o giacca o camiciotto, cravatta azzurra o cravatta rossa, insegna cattolica o socialista, non importerebbe: l’uomo che prendesse il potere, riducesse i ministeri a sette, sopprimesse i sottosegretari, sciogliesse i partiti, mandasse a casa i comitati di liberazione, vietasse gli scioperi: riscuoterebbe il plauso di grande parte della popolazione.
    I sinceri amatori di libertà si guardino d’intorno, e si ricordino di essere minoranza. Non s’illudano. L’uomo provvidenziale può delinearsi ed iniziare il suo cammino prima che sia dato da pensare.


    1° settembre 1945

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    Predefinito Re: Arturo Carlo Jemolo, gli scritti del 1945 (1991)

    9. Chi deve pagare i servizi pubblici?


    L’ambito dei servizi pubblici varia nel tempo: nell’antichità, se il concetto fosse stato formulato, i giochi del circo vi sarebbero stati inclusi; e in tutto le utopie (da L’anno duemila di Bellamy a Travail di Zola) anche gli svaghi sono gratuiti, a disposizione dei cittadini.
    Oggi peraltro credo tutti si sia d’accordo su ciò che la collettività deve soddisfare, attraverso i tributi, all’onere di quei servizi pubblici rispetto ai quali non sia possibile individuare gli utenti; ma che sarebbe iniquo che il contadino, che non usa il tram, non ha gas, non telefono, non radio, forze non luce elettrica, dovesse contribuire, con i tributi diretti e indiretti che lo gravano, a pagare gas, luce, radio, telefono, tram, a chi li usa.
    Se né lo Stato né i Comuni debbono sostenere quegli oneri, chi pagherà tali servizi? Dovrebbe rispondersi: - Gli utenti, e li pagheranno quello che costano.
    Ma oggi non è questa la risposta più comune. Da molti si sostiene che, se non le aziende statali e municipalizzate, quanto meno le aziende private debbono lavorare in perdita, e ciò perché hanno guadagnato in passato.
    Purtroppo né l’educazione economica né quella giuridica sono molto diffuse in quella che fu pure la patria dell’abate Galiani e che si dice la madre del diritto. Molti pensano che nelle grandi società vi sia necessariamente una cassa piena di zecchini, su cui sia scritto «riserve», e un’altra cassa, più nascosta e più stipata, su cui sarebbe scritto «riserve occulte». Si svuotino queste casse prima di aumentare le tariffe. Nella patria del diritto si pensa poi che le varie forme di proprietà debbono avere protezione diversa, quasi vi fossero proprietà oneste e proprietà vergognose (veramente la proprietà di certe speciali aziende, che potrebbe proprio chiamarsi proprietà vergognosa, è la sola che non abbia mai subìto assalti dai legislatori): proprietà della terra, della casa di abitazione, della casa di affitto, delle obbligazioni, delle azioni di industrie concessionarie di pubblici servizi, di azioni di altre società, di carature o quote di piccole aziende… a nessuno passa in mente che in un regime di diritto i sacrifici da chiedersi a queste varie forme di proprietà, lievi o gravi, o addirittura totali, dovrebbero essere gli stessi.
    E sia pure; si finga pure – ché spesso sarà semplice finzione – che gli azionisti di una società rimangano immutati nel tempo, e che perciò chi per vari anni riscosse dividendi dal 7 all’8% debba ora, non soltanto restare per vari anni senza dividendi, ma perdere il capitale.
    Qui però occorre, fuori di ogni termine di giustizia e di diritto, avere idee chiare e sapere dove si vuole giungere. Alla statizzazione di tutte le imprese esercenti servizi pubblici? È una mèta possibile (non sono economista, e non mi pronuncio intorno al moltissimo che è stato detto pro e contro; certo è una soluzione attuabile e se anche ragioni economiche la sconsigliassero, un partito può ben sostenerla in nome di esigenze politiche e di giustizia).
    Ma perché non attuarla subito? La tattica di portare prima alla rovina le società, per poi rilevarle, non è certo la buona; di fronte al vantaggio della minore resistenza che incontra la conquista di un’impresa dissestata in mano di azionisti che già hanno perduto ogni speranza di vedere mai più fruttifero il loro bene, sta il danno immenso che lo Stato prenda aziende in rovina, dove il dissesto economico avrà portato lo sfacelo anche negli spiriti, anche tra il personale.
    Si vuole invece giungere alla «impresa ai lavoratori»? Vale lo stesso argomento rafforzato. Solo un nemico dell’esperimento, che desideri vederlo fallire, può augurarsi che siano consegnate ai lavoratori imprese cariche di debiti (che saranno sempre più onerosi man mano che la fiducia avrà disertato l’azienda), senza credito sul mercato, da cui siano già esulati i migliori elementi.
    Non si vuole nulla di questo, ma soltanto un salasso – radicale, di tutto il capitale – praticato una volta tanto sulle società? In deroga al criterio che lo Stato deve essere l’unico creditore di tutte le imposte, palesi o larvate, e che i prelevamenti di ricchezza debbono seguire secondo un piano organico, commisurandone il quantum, si vuole togliere tutto il capitale a certe società, colpevoli, rispetto alle consorelle, di esercitare un pubblico servizio (quasi che l’essere una società telefonica costituisca un grandino d’indegnità rispetto alle consorelle costruttrici di apparecchi elettrici o di prodotti farmaceutici), ma con l’idea di lasciare loro gl’impianti e le concessioni, col proposito che col versamento di un nuovo capitale, da parte dei vecchi azionisti se lo potranno, degli acquirenti del pacchetto azionario diversamente, la società continui? Anche questo si può fare: ma occorre proclamare tale proposito, proclamare che ci sono dei saturnali del 1945, ma che con il 1946 gli utenti dei servizi pubblici li pagheranno quanto costano, e prendere un solenne impegno di rispettare quella promessa. Solo così sarà possibile che le società trovino credito, che non si sfascino prima di arrivare al traguardo.
    Tutto si può fare: ma quello che è delittuoso è, per gli uomini di governo, il non fare, il vivere alla giornata con la preoccupazione di evitare i fastidi di certe campagne di stampa: per i giornalisti, per chi deve illuminare il popolo, tacergli la semplice verità, che i servizi pubblici debbono essere pagati o dagli utenti o dallo Stato, che il dissanguamento delle società è il peggiore degli espedienti, ed è espediente che non può avere che una breve durata.


    15 settembre 1945

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    Predefinito Re: Arturo Carlo Jemolo, gli scritti del 1945 (1991)

    10. Azzolini


    Quando la radio fascista ci disse della legge sulla epurazione promulgata dal governo salernitano, credetti si trattasse di una delle tante manovre di propaganda. Dopo la liberazione, mentre si sapeva prossima l’emanazione di quello che è poi stato il decreto legislativo 27 luglio 1944, preparai quel manifesto dei giuristi che rievocava l’ultimo numero di «Meridiano». Pochi colleghi consentirono a sottoscriverlo – nessuno dei più anziani ed autorevoli – ed anche per raccogliere le venti firme dovetti edulcorarne ed attenuarne il testo.
    Il meccanismo della epurazione si è attuato più disastrosamente che non fosse dato pensare. Forti di amicizie, di sostegni di parentele – casi di prole di alti funzionari ripartita equamente tra i partiti – si sono salvati i più altolocati, qualcuno conservando il grado acquistato proprio in virtù di uffici politici conferiti dal fascismo; si è battuto forte sui piccoli. Negli organi di epurazione nelle magistrature speciali, sono riusciti ad infiltrarsi alcuni che più avevano insudiciato le ginocchia durante il fascismo.
    Molto mi sarebbe piaciuto annotare in proposito, ma quando ho visto iniziarsi, e rapidamente crescere, la reazione ed il tentativo di rivincita del fascismo sconfitto, ho taciuto. Avrei desiderato questa rivoluzione antifascista diversa, più generosa, più legalitaria, con meno errori; ma l’amo e la difendo anche così com’è. Girondino, avrei rammaricato e pianto gli eccessi dei giacobini, ma solo se Dio mi avesse tolto la sua grazia, mi sarei posto al servizio del conte di Lilla e degli emigrati di Coblenza. Credo di saper distinguere l’essenziale dal contingente. Deploro molto gli eccessi dei partigiani e dei piccoli comitati di liberazione delle zone rurali dell’Italia del nord; ma questa deplorazione è cosa diversa del prurito alle mani che provo allorché qualche cialtrone, che sempre fu tale, su un foglio insulta uomini che hanno la purezza e la nobiltà di Parri o di Vinciguerra. Posso non condividere la più gran parte delle visuali di Nenni: ma provo sdegno allorché si tenta d’insudiciare un uomo la cui vita durante il fascismo è stato un modello che nessuno di noi seppe imitare.
    Per questo ho suggellato le mie labbra, pur senza aver nulla mutato delle mie idee.
    Tuttavia, se anche, come confido, la reazione fascista non trionferà, verrà un giorno in cui il meccanismo delle epurazioni e delle sanzioni sarà alfine esaurito; ed in quel giorno bisognerà che, senza riaprire più procedimenti, scenda la amnistia o l’indulto su molti che ancora saranno nelle carceri, scontando lunghe condanne. La politica ha le sue esigenze; l’uomo politico deve operare secondo giustizia, ma non può dire ad ogni istante pereat mundus purché si attui la giustizia. Si potrà accettare, pur di porre la parola «fine», che abbia perduto il laticlavio il senatore A, meno colpevole del senatore B che lo ha conservato, che sia stato defenestrato il direttore generale Caio, assai meno compromesso del direttore generale Tizio che è rimasto. Non si potrà accettare che terminino la loro vita in carcere uomini che non furono dei violenti né delle spie, le cui mani sono nette di sangue.
    Ai detenuti penso sempre, ben più che ai morti. Vi ho sempre pensato, concentrando nell’immagine di uno la mia pena.
    Quest’uno fu, negli anni del fascismo, Tito Zaniboni: condannato a trent’anni per un fatto che non era neppure tentativo, ma proposito di reato, e che un giudice rispettoso della legalità avrebbe dichiarato esente da sanzione (ricordo la dimostrazione che ce ne dava Alessandro Stoppato nella sala dei professori della facoltà giuridica bolognese). Ho pregato anni ed anni ogni sera perché Dio lo sostenesse e gli desse prima il coraggio di resistere alla prova, e poi la libertà. Quest’uno cui va il pensiero penoso e la preghiera è oggi Vincenzo Azzolini: mai conosciuto di persona, come mai conobbi Zaniboni. (Amico di sinistra, tu dici che scelgo male i destinatari della mia pena e della mia preghiera, e mi chiedi di non accomunarti mai a loro; amico moderato, tu protesti per il raccostamento di Azzolini a Zaniboni, ch’era stato in guerra un eroe e meditava un gesto alla Bruto; dico ad entrambi che guardo solo all’uomo che soffre, che considero solo l’ingiustizia della condanna).
    La storia di Azzolini è semplice. È un burocratico che ad un certo momento dovrebbe rischiare la vita. Egli non ha alcuna tenerezza per i tedeschi: si guarda bene dal rivelare loro i gioielli della Corona, la riserva della banca di Albania, che ignorano; ma non rischia la propria vita occultando con un muretto improvvisato nei sotterranei della banca d’Italia, o distribuendo, la riserva aurea della banca, di cui i tedeschi conoscono l’esistenza. Che questa incapacità a gettare la propria vita in un’ora suprema gli costasse il posto di governatore della Banca, le onorificenze raccolte, era giusto; ma ogni senso di giustizia si ribella all’idea che debba finire i suoi giorni in un carcere.
    Vi si ribella il senso della giustizia assoluta. Ancor più insorge quello della giustizia distributiva. Tolto per pochi giorni nel nord, non si è attuato da noi un «novantatré», un olocausto di vittime alla reazione popolare od alle nuove tavole di valori. Si è proceduto in massima con indulgenza. Lo spirito di casta ha ottenuto una lenità che fa pensare all’inesauribile tesoro d’indulgenze di cui dispone la Chiesa, a favore dei generali e colonnelli dell’8 settembre, di quelli che lasciarono le stelle per il gladio: a nessuno di loro si è pensato di dire che dovevano fare getto della propria vita. Persino su quei marinai che nell’aprile ’41, salpati dalla Sardegna su una piccola nave, massacrarono i loro ufficiali per sbarcare nell’Italia occupata dai tedeschi, si è fatto il silenzio (nulla se ne sarebbe mai saputo, anzi, senza il necrologio che nell’anniversario pubblicò la vedova del comandante ucciso). Solo per il burocrate Azzolini si è stati inesorabili, solo per lui si è rievocata l’immagine carducciana:

    … Che più far si potea? – Morir – risponde l’Assemblea seduta.

    Che l’amnistia o l’indulto – strumenti che costituiscono il completamento necessario di ogni ordinamento giuridico – scendano presto a togliere ai non pochi che sentono come me l’assillo di queste vittime: non colpevoli, se non sia colpa l’esser vissuti in ore per cui occorreva una grandezza di animo ch’essi non possedevano.


    30 settembre 1945


    Arturo Carlo Jemolo
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