di Cosimo Ceccuti - «Antologia Vieusseux», n.s., a. VIII, n. 23, maggio-agosto 2002, pp. 27-37; ora, col titolo “Il cappello di Indro Montanelli”, in C. Ceccuti, “Giovanni Spadolini. Quasi una biografia”, Polistampa, Firenze 2019, pp. 47-54.
Era il 22 febbraio 1950, allorché Indro Montanelli con un memorabile articolo sul suo «Corriere» richiamava l’attenzione generale su di un giovane giornalista appassionato di storia particolarmente precoce, Giovanni Spadolini.
Era appena uscito il volume, dal titolo per i tempi provocatorio, Il Papato socialista. Autore quel giovane venticinquenne, che da due anni scriveva elzeviri sul «Messaggero» di Mario Missiroli e che dal febbraio del ’49 era presente, fin dal primo numero, nelle pagine del «Mondo» di Mario Pannunzio. E i pezzi sul «Mondo» avevano a loro volta suscitato l’attenzione e l’interesse di Leo Longanesi: da lì l’idea e il volume, Il Papato socialista, appunto.
Giù il cappello: è il titolo della recensione di Indro sul «Corriere della Sera», recensione che da sola fece esaurire l’intera prima edizione in pochi giorni e fece nascere un’amicizia destinata a protrarsi per l’intero arco della vita.
Montanelli, nel 1950, aveva quarantuno anni; Spadolini venticinque: li separava quasi una generazione. Come giornalista e come storico, o appassionato di storia, Indro aveva già messo a fuoco il giovanissimo autore. In fondo gli era bastato riflettere sul titolo. Il titolo del libro, Il Papato socialista, è già l’enunciazione di una tesi, a proposito di questo conflitto:
La polemica, oggi, la vera polemica non è quella che si dibatte fra cattolicesimo e socialismo, conciliabilissimi, e in parte già conciliati termini: ma quella che si agita fra guelfismo e laicismo. Un sottinteso sociale il cattolicesimo lo ha nella sua immutabile dottrina, e lo ha sempre riaffermato nella sua azione mutevolissima: non per nulla a colorazione spiccatamente socialista sono quelle correnti – dette di sinistra – della democrazia cristiana che con più coerenza si proclamano confessionali; non per nulla leghe bianche e leghe rosse sono coetanee e gemelle, e perfettamente parallelo nello spazio e nel tempo, è il loro tentativo di abbattere lo Stato liberale laico trascinandolo nella lotta su un terreno extraistituzionale. Esse si combattevano fra loro per ragioni puramente elettorali; ma in realtà concordavano nel fine e nei mezzi, come d’altronde si vide ben chiaro quando, di fronte all’incalzare della manomissione fascista, don Sturzo e i socialisti preferirono entrambi spalancare le porte al nemico contingente – Mussolini – piuttosto che allearsi con quello storico e tradizione – Giolitti -: il che, intendiamoci, era perfettamente logico e coerente con le loro premesse.
Claudio Marabini fu fra i tanti che appresero l’esistenza di Spadolini da quella nota di Indro Montanelli. Prima lesse la recensione e più tardi, in occasione della ristampa, il libro. E allora capì fino in fondo il plauso di Montanelli e ciò che lo aveva attratto nella costruzione mentale e nella prosa del giornalista fiorentino innamorato della storia. «A parte la tesi del libro – sono le penetranti parole di Marabini – il giuoco scintillante dell’intelligenza nella difficile e spigolosa materia filosofico-politica, il palleggio delle idee e dei concetti protratto talora sino al limite affascinante e icastico del paradosso, il toscanissimo e lucido razionalismo: tutto ciò era fatto apposta per sollecitare naturalmente l’adesione e la simpatia di quel lucido razionalista toscano, palleggiatore abilissimo e paradossale e sempre polemico di idee e di concetti che è Montanelli».
Siamo agli inizi degli anni Cinquanta. In Montanelli è già viva la conoscenza e la curiosa passione per la storia: anche se di solito, nelle schede biografiche si è soliti fissare la nascita del Montanelli storico o scrittore di storia alla metà degli anni Cinquanta, allorché pubblica a puntante sulla «Domenica del Corriere» la Storia di Roma, su incoraggiamento di Dino Buzzati. Quella storia che alla fine del 1957 assunse la dignità di libro nella collana «Storia d’Italia» portata avanti dalla Rizzoli, destinata a ripercorrere i momenti più significativi del divenire del nostro Paese, fino all’Italia dell’Ulivo 1995-1997, e all’Italia della disfatta (2000).
Già dalle prime puntante sulla «Domenica del Corriere» il successo dell’inviato speciale (Indro era stato fra i primi a giungere a Budapest nel ’56) che si confrontava con un lontano passato, fu pari all’intensità delle polemiche. Da un lato una storia che usciva dalla noia dei consueti insegnamenti e delle accademie, dal ripetitivo nozionismo e dall’incubo delle interrogazioni; dall’altra accuse di superficialità, di leggerezza, di faciloneria, di disfattismo.
È quello che Montanelli in fondo voleva. Con sincera umiltà egli non ambiva a rivelazioni e scoperte, ma piuttosto a scrivere libero, senza appesantire il discorso con note e citazioni «imposte» nel mondo universitario dall’aspirazione a percorrere la «carriera accademica». Il suo interlocutore era il lettore; l’obiettivo era quello di avvicinarne alla storia il numero più elevato possibile. Eliminare la retorica, i toni aulici e apologetici; abbattere i monumenti e far vivere nella loro umanità i protagonisti: busti senza piedistallo.
Rifacendosi direttamente ai memorialisti e alle fonti dell’epoca, Montanelli toglieva la pietra dal volto dei personaggi e restituiva loro un’anima e i limiti dei comuni mortali. «Di colpo quei protagonisti che a scuola ci hanno presentato mummificati… non uomini, ma astratti simboli persero la loro minerale immobilità, si animarono, si colorarono di sangue, di vizi, di debolezze, di tic, di piccole o grandi manie, insomma diventarono vivi e veri», scriveva nella premessa «ai lettori» della Storia di Roma nel novembre 1957. Il segreto del grande successo di Montanelli sta soprattutto qui: in un modo di affrontare fatti e figure controcorrente, da «dilettante» come amava definirsi, ma che restava valido qualunque fosse l’età o il personaggio, dal Medioevo al Rinascimento, da Garibaldi a Mazzini, da Giolitti a Mussolini. Ricostruzione di un’epoca, di un ambiente, con immagini semplici e linguaggio accessibile a tutti: e là in quell’ambiente, i protagonisti, tratteggiati nella loro genuina umanità.
È evidente che Montanelli storico è tutt’uno col Montanelli giornalista, con lo straordinario scrittore, con l’inviato speciale e il ritrattista, capace come pochi di accaparrare l’interesse del lettore e renderlo partecipe della storia che sta vivendo o rivivendo.
Spadolini già insegnava, dal 1950, al «Cesare Alfieri», la facoltà dove Indro si era laureato nel 1933 – seconda laurea – discutendo con Niccolò Rodolico una tesi di viva attualità, Lo splendido isolamento, acuta analisi dell’isolazionismo americano. Spadolini non aveva ancora la cattedra. Essa sarebbe arrivata, fra tante difficoltà e avversioni, solo nel 1960, prima cattedra di «Storia contemporanea» nel nostro paese. E questo perché a Spadolini gli accademici, i professori paludati, imputavano di essere un giornalista, anziché uno storico approfondito, puro, come si deve. Aveva sì pubblicato L’opposizione cattolica, ricca di note e documenti di archivio: ma quel libro era nato nelle pagine del «Mondo» di Mario Pannunzio. E Spadolini non era stato un solo giorno assistente, non aveva avuto un grande maestro-protettore, cui rendere costante omaggio per essere beneficiato in sede concorsuale, non riempiva le sue opere con note ossequiose e gratulatorie per i grandi «baroni» della Storia moderna e del Risorgimento. Già vicino, anche in questo, a Indro Montanelli.
Poco importava che fra i primi avesse indirizzato le indagini verso una moderna concezione della storia dei partiti, che per primo avesse posto al centro dell’attenzione degli studi storici le forze politiche non ufficiali, di opposizione e di minoranza, i cattolici da un lato, i democratici (repubblicani e radicali) dall’altro, in un’Italia troppo ufficiale, quasi esclusivamente concentrata sui moderati e i liberali, i monarchici al potere, dall’unità al fascismo.
È quindi comprensibile che fra una certa costrizione accademica e la libertà di scrivere incarnata da Montanelli, Spadolini fosse particolarmente vicino a Indro: valutando, nella sostanza, i contenuti, e la possibilità di avvicinare alla storia il più vasto numero di lettori. Egli stesso, con le varie edizioni de Gli uomini che fecero l’Italia, - il suo ultimo libro, senza una nota – ha superato le centocinquantamila copie di vendita.
Già, l’esordio di Montanelli, con quel primo libro stampato nel novembre 1957. Una delle prime copie, se non addirittura la prima, era per il suo giovane amico Spadolini, divenuto ormai affettuosamente «Giovannone», direttore da poco più di due anni del «Resto del Carlino».
Ho sotto gli occhi la lettera con la quale all’inizio di dicembre del 1957 Indro accompagnava la copia della Storia di Roma al collega, storico direttore del quotidiano bolognese: «Caro Giovannone… venire io, a parlare di storia con te… Ma in realtà io non volevo parlare a te, sibbene a quelli che, come me, la storia non la sanno».
Questa è più di una dedica: è una confessione e insieme un impegno su come svolgere il mestiere di raccontare la storia. I libri degli accademici, certe opere dello stesso Spadolini, danno per scontate solide nozioni, presuppongono che il lettore abbia una conoscenza di base prima ancora di cominciare la lettura: gli addetti ai lavori appunto.
Indro si rivolge a tutti gli altri per introdurli forse per la prima volta nell’affascinante mondo della storia, rendendo loro accessibili e familiari ambienti, avvenimenti, protagonisti.
1955-1968. Montanelli al «Corriere», Spadolini alla direzione del «Resto del Carlino»: si sviluppa la collana della «Storia d’Italia» con i tasselli via via posti da Indro ed il «Carlino» è il quotidiano più attento nelle segnalazioni e nelle recensioni all’uscita dei volumi.
Cito solo uno dei tanti telegrammi di Montanelli a Spadolini, datato 26 novembre 1965: «Come sempre è il tuo giornale a dare il via e nel più intelligente dei modi. Un abbraccio. Indro».
(...)