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Discussione: Il popolo nel fascismo

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    Predefinito Il popolo nel fascismo

    “Il Regime Fascista ha reso possibile la rappre­sentanza reale e continua degli interessi nazionali politici ed economici con il sistema sindacale-corporativo. Ha eliminato la mortifera situazione parlamentaristica col partito unico (il nome di « par­tito » è meramente tradizionale). Il popolo è cosi lo Stato medesimo, in quanto Stato organico.” (Tullio Cianetti, 1938,)

    La vita politica del mondo contemporaneo può dirsi rivolta alla ricerca e allo studio di un tipo di Stato che realizzi la democrazia perfetta. C’è chi si ferma sulle posizioni tradizionali illudendosi che l’epoca moderna, derivata per tanta parte dalla Rivoluzione francese, non abbia esaurito il suo compito. C’è chi spinge alle estreme conseguenze i « diritti dell’Uomo » e le teorie filosofiche in cui hanno il loro capostipite Marx e i suoi eredi, nell’illusione che lo Stato di popolo possa finalmente emergere dal caos. Ma c’è, finalmente, chi è partito da nuove, rivoluzionatrici premesse: il Fascismo. Qui troviamo avverata l’istituzione di un vero e proprio regime di popolo. In senso storico, perché basta la più modesta meditazione sulla dichiarazione prima della Carta del Lavoro (“La nazione italiana è un organismo avente fini, vita, mezzi di azione superiori per potenza e durata a quelli degli individui divisi o raggruppati che la compongono. E’ una unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello stato fascista”, Ndc.),per riconoscere che tutta l’Italia, senza compartimenti stagni di tempo, di spazio, di classi, è presente nel Regime. In senso giuridico, perché nel concetto fascista il popolo è Stato e lo Stato è popolo: gli strumenti realizzatori di questa identità nello Stato, sono il Partito, il Sindacato, la Corporazione. In senso morale, in quanto i due princìpi su esposti si attuano con le realizzazioni promosse dalle formule mussoliniane della giustizia sociale e del mutamento dell’economia in un fatto spirituale e politico. L’equivalenza del Popolo-Stato consiste nel concetto di Stato totalitario eminentemente politico e che non ha nulla a che fare col concetto di Stato sovrano, essenzialmente giuridico e comune a tutti gli Stati moderni. In tal senso, possiamo parlare di un Regime di popolo. Ma ci fu un tempo, quando l’Italia non aveva in materia di produzione e di lavoro alcuna voce in capitolo, che si discuteva della stessa possibilità di lavorare. Il diritto più elementare dell’uomo veniva messo in dubbio, proprio quando le teorie individualiste che reggevano lo Stato e la Società, avrebbero dovuto rispettare almeno i diritti fondamentali. Ma il discorso delle teorie ci porterebbe troppo lontano. Qui bisogna ricordare soltanto che all’aprirsi dell’epoca moderna, il popolo era qualche cosa di molto astratto e certo lontano dall’organizzazione dello Stato e della Società. Urgeva liberare il popolo dei lavoratori, cioè restituire all’uomo il diritto al lavoro. Mentre si venivano affermando i primi tentativi industriali, la libertà del lavoro apparve come il più nobile degli ideali, e l’infrangere delle catene corporativistiche, la più alta conquista dei poveri artigiani. Il divieto di associazione si ammantò di un « principio » più o meno immortale. Si è vituperato Le Chapelier per un secolo e mezzo; ma egli non ebbe altro torto — comune a tutta la Rivoluzione — che di guardare al passato e di demolirlo, senza preoccuparsi dell’avvenire. L’astrattismo democratico francese fece il resto; assunse come un principio il divieto dell’associazione operaia e gettò i lavoratori in balia degli imprenditori, proprio quando la vecchia modesta economia artigiana e industriale si stava mutando nel grande industrialismo del secolo XIX. Da questo momento si può dire nato il proletariato moderno, ingrossato anche dalla piccola antica borghesia rurale, dove espropriata, dove decaduta. Ma non nasce ancora il « popolo » come l’intendiamo noi, inserito e immedesimato nello Stato. Si assiste da allora ad una lotta disperata del proletariato per diventare popolo, cioè attore della sua storia. La lotta si svolge soprattutto nella riconquista del diritto di associazione, incautamente soppresso dalla Rivoluzione Francese. Questa lotta ha un nome: sindacalismo; e attraverso il fenomeno sindacale si può agevolmente osservare il rapporto fra Stato e popolo.



    La lotta di cui or ora abbiamo accennato caratterizzò il progressivo avanzare delle masse verso lo Stato, finché in Italia, col Regime Fascista, si verificherà un capovolgimento completo della situazione. Non più lo Stato che cede lentamente dinanzi ad un avversario, non mancando di sferrare ritorni offensivi o di tendere trappole nascoste da blandizie; ma lo Stato che si mette dalla parte del popolo, cioè al suo vero posto, sentendosi popolo esso medesimo. Il socialismo che, insieme col capitalismo industriale, è il fatto saliente del XIX secolo, imperniato quasi sempre sulla lotta di classe, contribuiva a tener lontano il popolo dallo Stato. Ma quale Stato? Lo Stato che si disinteressava sostanzialmente del problema sociale, non era che un fenomeno di sottomissione al più forte. La sua neutralità era il prezzo pagato alla borghesia che gli garantiva il potere. Il capitalismo bandiva quattro superbi principii: l’interesse personale, la concorrenza, la responsabilità individuale e, naturalmente, la libertà. Superbi e bellissimi principii, presi in se stessi, ma che distruggevano l’elemento sociale, nazionale, e perfino solidale della vita. Data la debolezza dell’umana natura, essi conducevano dritto all’egoismo e alla prepotenza. Esaltavano l’individuo, cioè la forza bruta del denaro, della potenza, dell’intelligenza. La « Nazione » che presuppone un’idealità comune, uno scopo comune, un senso quasi istintivo di essere parti di un tutto che vive e si perpetua non solo nel presente, ma nel passato e nell’avvenire, non poteva avere nulla in comune con le teorie individualistiche per l’evidente contradizione dei termini. Il Fascismo intese l’avvento del popolo nello Stato soprattutto come un fatto sociale. Lo Stato fascista ha una funzione sovrana e di rappresentanza dell’interesse generale, anzi trascendente la stessa vita umana; ne discende che esso deve praticamente tutelare i singoli e potenziare la collettività. Non preoccuparsi della questione sociale significa abdicare alle elementari funzioni dello Stato, compromettere la sovranità sotto i colpi incomposti delle classi decise ad ottenere giustizia, trasformare il proprio agnosticismo in un compito da gendarmi. Sono proprio gli Stati più liberali, cioè più condiscendenti a permettere che ognuno se la cavi da sé, quelli che più fanno uso di mezzi di polizia. Bene lo sanno le piazze insanguinate della vecchia Italia democratica. Il trionfo della borghesia non poteva che essere il trionfo dell’individualismo, un individualismo reso potente dal capitale, monopolio di una classe. Il popolo fu respinto indietro, non come tale (anzi fu coperto di complimenti), ma come insieme d’individui più deboli. Lo strano è che neppure il socialismo, definitivamente chiamato da Marx sulla scena d’Europa, seppe guidare le masse verso la redenzione. Nemmeno da esso poteva sorgere il « popolo ». Il suo punto di partenza era inficiato dallo stesso vizio del liberalismo borghese: la sua premessa era individualistica; il diritto della società di fronte all’individuo era negato, mentre la meta utopistica era l’affrancazione integrale dell’individuo di fronte alla società. Socialismo e liberalismo procedettero su vie parallele; se l’individualismo rappresentava l’importanza di questo, doveva rappresentarlo necessariamente anche di quello. La lotta fra capitale e lavoro, dilagata ben presto anche nel campo politico, può definirsi la lotta fra due giganti bendati. Nella confusione delle scuole straniere che tentano invano di risolvere la questione sociale attraverso il rapporto Stato-Individuo, il valore dell’elemento intermedio, presente ma negato, il gruppo, il popolo è affermato da Giuseppe Mazzini e da Georges Sorel. Mazzini nega ogni virtù iniziatrice alla Rivoluzione Francese e vuole restituita ad una nuova funzione l’associazione, cellula della vita e dell’organismo nazionale. Sorel, più modernamente, interpreta l’associazione in sindacato, fascio di energie economiche e soprattutto politiche. La chiave di volta della costituzione sociale è trovata; non è l’individuo, ma è il gruppo, la categoria, la solidarietà fra i singoli, fino al popolo, fino alla nazione. Spetterà al Fascismo il compito immane di tradurre i libri in fatti, il pensiero in azione, la teoria in realtà tangibili e creare, finalmente, il popolo italiano. Il « popolo » è la nuova forma sociale e giuridica della società nazionale italiana, ma il popolo italiano aveva già una vita e una storia, la più lunga e illustre d’Europa, che è un altro dei presupposti del Fascismo e che chiarisce il posto di questo nella storia dello spirito umano. Perché nel momento supremo della sua storia, il popolo italiano ritrova la sua idea, la sua unità, la sua ragione d’essere in Roma.



    Così, nessun Regime più del fascista ha posto e risolto il problema della massa. Esso ne ha fatto « popolo » cioè elemento dello Stato e consapevole strumento dei fini della Nazione. Ma con ciò stesso s’immagina una gerarchia di funzioni e di valori che rispecchia la stessa armonia della vita e della natura. Esaltare il popolo e farne il centro e la base dell’azione politica, non significa un nuovo esperimento di quell’ugualitarismo che, proclamato dalla Rivoluzione francese, non fu in realtà mai applicato. A che servirebbero l’uguaglianza e la libertà se l’uomo dovesse trasformarsi in un automa, in un numero, in un autentico schiavo come accadde in Russia, e accadde per forza di principii, al di sopra della volontà stessa dei capi? La libertà individuale è sacra, a patto che sia limitata dal diritto dei nostri simili; proclamata astrattamente non ha che un valore negativo. Il suo valore positivo che la Rivoluzione francese, matrice delle democrazie e dei socialismi continentali, non poté vedere perché assorta nella visione dei singoli individui, è la socialità. La socialità nega l’individuo o meglio lo circoscrive in se stessa, e crea il popolo. È questo il grande principio che il Fascismo oppone all’individualismo liberale, democratico, socialista. La socialità fascista è il rovesciamento del concetto individuale. La socialità è un diritto nuovo (non la somma dei diritti singoli), che nasce dai diritti contrastanti (e il Fascismo non nega il contrasto) degli individui. Ne sorge una fede comune, fede soprattutto nel concetto missionario della vita che annulla le pretese e gli egoismi dei singoli. Ne sorge un’idea, un intelletto collettivo, una chiarezza nel fine comune che spiegano i due concetti cosi strettamente compenetrati di popolo e nazione. L’individuo in seno alla socialità non si annienta, ma si potenzia; egli comincia a ubbidire alla più difficile delle leggi, quella del dovere. In quanto al Fascismo, l’originalità assurge alle altezze di una fondazione di civiltà, perché il dovere è una legge tradotta in realtà concrete e tangibili, trasformatrici del costume; e l’associazione ha ricevuto un’interpretazione psicologico-storica che ne fa la cellula del popolo consapevole della sua personalità, dei suoi doveri-diritti, del suo destino trascendente la carriera mortale dei singoli. Da migliaia d’anni si diceva che l’uomo è un animale socievole; ma solo nell’Era fascista s’è definito il carattere della socialità e se n’è fatto il supremo principio col quale si realizzano i fini della Nazione e si determinano le possibilità che permettono la vita del popolo. Tutti i filosofi e i sistemi positivisti (al centro vi è Karl Marx) immaginano la società umana sotto l’influenza fatale e inevitabile dell’ambiente esterno, delle leggi fisiche, dell’interesse personale, dell’utilitarismo. Il Fascismo, che è realtà e azione, si guarda bene dal negare il valore di questi elementi; ma non ne rimane accecato come codesti filosofi e sistemi. La dottrina fascista lascia all’individuo la responsabilità e perciò al popolo l’obbligo di educarsi, di migliorarsi, di progredire. In questo senso è più che mai esatta la formula della « rivoluzione continua ». La dottrina fascista ordina al popolo (e agli individui che lo formano organicamente), di trasformare l’elemento in cui vive; in altri termini di opporre l’intelletto, la mente, lo spirito alle forze materiali. In questo modo l’organizzazione sociale penetra e forma la vita intima dell’individuo, cosi come l’ordinamento sociale del mondo esterno non è che la proiezione del mondo interno di ciascuno di noi. Di qui la necessità e il dovere di plasmare, educare, rifare gli individui; l’educazione si pone alla base di ognuno e di tutti, come la grande e forse l’unica artefice del popolo fascista. È chiaro, quindi, come la socialità fascista si avvalga degli individui e li sottometta alle sue esigenze; ma non solo non li annulli, bensì li esalti nella loro personalità e responsabilità. L’« io » è un’attività spinta a modificare l’ambiente e quanto più la modificazione sarà profonda tanto più salirà in alto nel perfezionamento morale. Nessuna dottrina, dunque, dà il giusto posto all’individuo quanto il Fascismo, perché basando la società sul dovere, presuppone i due maggiori attributi dell’individualismo: la personalità e la responsabilità. L’irresponsabile diventa nella dottrina fascista un peso morto, un valore negativo, una nullità morale, facile preda delle più ignobili passioni, come dimostrano i vari esperimenti bolscevichi del mondo che, partendo dall’individualismo, hanno soppresso individualità e personalità. Non è esagerato dire che sono riusciti ad uccidere l’anima. La dottrina fascista è una dottrina morale e non esita nell’ordinamento della società a interpretare le stesse ragioni della vita umana. Ai materialisti che anche nel campo politico sembrano far propria la definizione celebre del Bichat : « La vita è l’insieme dei fenomeni che resistono alla morte », il Fascismo raccogliendo l’esperienza religiosa del Popolo e il pensiero dei sommi, oppone: “la vita è missione!” (Estratto da Tullio Cianetti, “Il Popolo nel Fascismo”, Milano, 1938, Anno XVI)


    https://bibliotecafascista.org/2021/...-nel-fascismo/

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    Predefinito Re: Il popolo nel fascismo

    Il concetto di Volk, la "fratellanza di sangue" tedesca che tanto ha contribuito alla nascita del nazionalsocialismo

    Studiando la cultura germanica ci si imbatte, presto o tardi, in un aspetto di difficile comprensione per chiunque non sia tedesco: si tratta del concetto di Volk. Non esistendo un corrispettivo italiano si potrebbe tentare di tradurre il vocabolo come razza o anche popolo, tuttavia il vero significato trascende quello della pura definizione biologica per sconfinare in un campo che ha a che fare più con la sfera spirituale che con quella materiale.

    Si parla di volk, quando si vuole identificare una comunità di individui di matrice germanica che sentono vibrare dentro di sé il medesimo anelito alla purezza del sangue, che partecipano della natura percependo una sorta di forza vitale o una essenza trascendente cosmica che li tiene insieme.
    Volk è il popolo di un determinato luogo che sa di essere una manifestazione della natura del luogo e ne subisce l'influenza. I teorici volkisch (del volk) asserivano che i germani, essendo nati in una zona tipicamente nordica, cupa e misteriosa, sono guidati inconsciamente da un foltissimo ed inarrestabile anelito alla Luce (concepita anche come Luce divina), una Luce in diretto rapporto con una conoscenza istintiva che deve essere recuperata e attualizzata in un sistema coerente, filosofico affinchè possa uscire dalla sua dimensione inconscia ed affiorare nell'universo senziente. La dottrina razzista tipicamente germanica assorbe la sensibilità vòlkisch e la dispone su piani di conoscenza che tentano una indagine razionale. La relazione tra la natura del luogo di nascita e le caratteristiche caratteriali di un popolo assume tuttavia toni di deciso antisemitismo man mano che si avvicina alla fine del XIX sec., seguendo l'onda di una cultura sotterranea che fuoriesce allo scoperto con filosofi come Otto Gmelin, Friederich Ratzel, Wilhelm Heinrich Riel, Bertold Auerbach e altri.



    SANGUE; COSMO E NATURA
    Se, infatti, i tedeschi anelavano alla Luce, che non è solo fisica ma anche spirituale, i popoli semitici, per il fatto di provenire da lande deserte e sterili, sarebbero dotati di scarsa spiritualità e di attitudini materiali, dedicando la loro vita ad attività esecrabili come l'usura. Si tratta di una indagine teorica speculativa, senza basi effettive o scientifiche, che cercherà l'appoggio della comunità accademica attraverso il processo conoscitivo eugenetico (cioè che tende al miglioramento della stirpe) operato sotto il III Reich e le indagini antropologiche e antropometriche. Va notato che la sensibilità vòlkisch (si tratta di questo, prima di una sistematizzazione in una filosofia) si fonda sulla dottrina del radicamento nel luogo di nascita e della misteriosa "forza vitale", aspetto condiviso anche da G. B. Shaw, un'energia che lega l'individuo ad un destino di potenza. Nel caso germanico verso la realizzazione darwinista della supremazia del più forte, anch'essa una legge naturale. Una posizione antimodernista e anti-industriale poiché rigetta il progresso tecnologico in favore di un ritorno alle campagne, all'universo di origine, in cui il popolo tedesco avrebbe ritrovato la sua reale genesi, confuso dallo sradicamento operato dalla civiltà industriale che aveva allontanato l'uomo dal suovólk. La natura è percepita come un organismo vitale spontaneo, ricolmo di energia vitale a cui attingere a piene mani con una volontaria immersione spirituale: si tratta, quindi, di un sentimento che presenta tracce evidenti di sapore mistico. Chi partecipa del medesimo vòlk percepisce nettamente il legame che si instaura naturalmente tra i membri del gruppo e le caratteristiche caratteriali si riflettono nell'ambiente di nascita: nessun estraneo può appropriarsi di un vòlk che non è suo né trovare autorealizzazione al di fuori del suo alveo naturale. Tuttavia, il concetto di popolo o razza in questo senso non va racchiuso all'interno di un argine nazionale, in quanto i membri dello stesso vòlk possono appartenere anche a stati diversi ma con caratteristiche somatiche e spirituali simili; allo stesso modo una nazione può essere spaccata in due dalla differente anima volkish degli abitanti. L'uomo perde ogni illusione illuministica razionale, empirica di dominatore della natura per entrare in una dimensione naturale di fusione cosmica, lasciandosi guidare dal proprio istintuale bisogno di una realizzazione spirituale e biologica con la natura.



    IL RITORNO ALLE ORIGINI
    II vòlk si manifesta anche come entità storica proveniente da un remoto passato e l'uomo germanico sente vibrare il suo retaggio atavico nel sangue della razza pura volkish che così bene viene descritta nel "De Bello Gallico" di Cesare e, soprattutto, nella "Germania" di Tacito. In un periodo in cui il romanticismo tedesco aveva risvegliato i sentimenti archetipici, migliaia di tedeschi rilessero la loro storia, le loro origini nelle pagine dell'autore latino e si riscoprirono biondi, forti e pieni di energia esplosiva. Tuttavia, come nel caso del periodo post-Versailles di Weimar, la tensione spirituale non riusciva a trovare un corrispettivo politico: ancora prima, moti e le rivoluzioni del 1848, malgrado le speranze diffuse, non avevano portato in Germania ad una unificazione reale di tipo volkish. Alla proclamazione del re di Prussia come imperatore da parte di Bismark nel 1871 seguì il nuovo governo che fu chiamato Secondo Reich e che si occupò di problemi burocratici che, come nel periodo di Weimar, nulla avevano a che spartire con la frustrazione di una mancata realizzazione spirituale di unità della comunità tedesca volkish. In effetti, il II Reich si preoccupava di rafforzare la sua stabilità politica ed economica, aumentare l'industrializzazione e l'inurbamento a scapito del legame naturale del popolo con la sua terra e questo dovette sembrare un tradimento culturale alla sensibilità volkish. Come ricorda G. Mosse, il nuovo Reich fu salutato da entusiasmi che maturavano da un un'attesa pressoché messianica di unità politica e spirituale mai ottenuta, ma la Realpolitik di Bismark fu fonte di cocente delusione in quanto il germanesimo non entrava a far parte di alcun aspetto del nuovo governo. Fu facile allora rivolgersi al passato, in una ricerca delle proprie origini razziali e ritrovare nella natura e nel concetto di vòlk quella unità spirituale che era stata disattesa per così tanto tempo. Il processo psichico archetipico scattò come una molla e si manifestò naturalmente, autonomamente, come una manifestazione generale di spiritualità cosmica, nel fenomeno dei Wandervogel, gruppi di giovani che organizzavano lunghe gite domenicali nelle foreste tedesche alla ricerca di una identità spirituale. Non si tratta di una semplice insofferenza politica, questi gruppi, che diventarono sempre più grandi e organizzati, avevano come scopo il ripristino degli antichi riti e usanze germaniche. Molti di essi svolsero ricerche approfondite allo scopo di ritrovare e riattualizzare gli antichi culti solari; come nuovi adoratori del Geist (lo Spirito) sentivano la potenza della forza vitale spingerli verso un punto di genesi. Si tratta, in termini tecnici, di un regressus ad uterum (ritorno all'utero), un bisogno di ritrovare coesione, sicurezza, approvazione all'interno del seno materno, in un legame con la madre terra che solo così poteva essere realizzato. La dottrina hitleriana della Herrenvòlk, la razza padrona,come si ritrova nel "Mein Kampf, il testo autobiografico di Hitler, affonda le sue radici proprio nel movimento vòlkisch; le dottrine antisemite si rivestono di paganesimo e lo stesso simbolo dell'albero che si ritrova continuamente negli scritti del movimento, la forza del contadino tedesco che si radica nella terra e si protegge verso il Sole e il Cosmo intero richiama Yggdrasyl, il mistico albero della conoscenza e concepito dai Germani come axis mundi. L'ebreo diviene, invece, uno straniero in un territorio che gli è estraneo, un essere demoniaco che tenta, come un serpente, di minare alla base la felicità del popolo germanico, distruggendone le radici, poiché non fa parte dello stesso vòlk. E' interessante un particolare relativo allo scrittore Paul de Lagarde, filosofo vòlkisch della seconda metà del XIX sec.: egli era dell'idea che fosse necessario esiliare gli ebrei nel Madagascar, scrivendo che "non si poteva discutere con dei bacilli". Nel 1942 Hitler riprendeva la stessa idea: "La battaglia che noi intraprendiamo è della stessa natura della battaglia intrapresa nello scorso secolo da Pasteur e da Koch". Noi aggiungiamo che l'idea di confinare gli Ebrei in Madagascar venne ef­fettivamente presa in considerazione da Hitler prima della soluzione finale. Questo e altri indizi fanno comprendere quanto il sentimeli vòlkisch permeasse l'ideologia nazista.



    LA MISTICA WAGNERIANA
    La connessione tra il sentimento vòlkisch e la musica di Wagner è palese: il romanticismo tedesco riconosceva un intimo legame tra l'uomo e il suo mondo, la forza vitale che dal cosmo irradiava sulla terra, possedendo solo gli individui in perfetta sintonia con essa. Wagner diviene il maestro del sentimento tedesco, una sorta di vate che officia i riti del ritorno al Graal, alla purezza d sangue e della propria natura. La sua musica infiammò gli animi dei tedeschi, e Hitler, che si sentiva affratellato in questo legame vòlkisch pianse più volte di fronte al Parsifal e fu spinto ad esclamare: "(...) Chiunque voglia capire la Germania nazionalsocialista deve prima capire Wagner"
    L'identificazione dei tedeschi con gli eroi e le situazioni delle opere wagneriane è esemplificatrice di un dramma che si rivela nel dramma in una sorta di metateatro: si ricerca il mito delle origini perché il torrente di emozioni che Wagner riesce a generare nel suo pubblico provoca una sofferenza purificante e getta i cuori nell'arena delle emozioni ottenendo così un effetto unificatore. Wagner diviene il vate che riesce per primo a calarsi nel limbo della storia e a ritrovare la vera anima tedesca e lo offre all'interno di un Graal al suo popolo. "L'Anello dei Nibelunghi" assurge così a vangelo della razza esprimendo una potenza che si lancia ben al di là della semplice composizione musicale, assumendo toni religiosi e politici, un programma di ricupero di una cultura persa tra i flutti della storia. La sola speranza di vittoria e riscatto della Germania risiede nella forza cosmica che può entrare e possedere solo un corpo purificato nel sangue del Graal. Gli eroi wagneriani sono la più concreta rappresentazioni dell'ideale germanico di Tacito, con in più un elemento spirituale, una ricerca della propria autorealizzazione mistica con un dio che non è già più quello cristiano ma assume i toni mistici e guerrieri, di Wotan/Odin. Hagen, Grimilde, Sigfrido e Brunilde sono l'anima oscura e vitale della Germania, personaggi di un dramma che la nazione sta vivendo e da cui non sa come uscire; nela tragedia del mythos ritroviamo il "Ragnarokk" del maggio 1945 in cui Hitler aveva deciso di bruciare il suo popolo: "Se perdiamo la guerra allora la Germania non merita di vivere" aveva detto e decise che il "Crepuscolo degli Dèi" doveva manifestarsi nella distruzione totale, nel suicidio rituale, nell'offerta finale per una rigenerazione del mondo. Anche per Wagner esiste una realtà che deve essere afferrata e assorbita istintivamente, una verità che viene a coincidere con la forza vitale; riattualizzare la forza della vita significa ridare ai tedeschi le caratteristiche guerriere che sembrano aver perso. Egli percepisce la confusione spirituale della Germania e offre, con il "Parsifal" una visione peculiare della vita, in cui il concetto fondamentale è la ricerca del magico calice del sangue di Cristo che viene a coincidere con il concetto di razza pura. Parsifal è un ariano e ricerca l'unione mistica attraverso la purezza della razza.

    l'alito DEL DRAGO
    Il singolare sincretismo tra cristianesimo e germanesimo genera una dottrina volkisch che non si è ancora liberata dai precetti cristiani come nella ideologia hitleriana. Gesù di Nazareth serve al musicista per giustificare la sua teoria mistica: sangue ariano -pentimento - salvezza. Una sorta di audace sincretismo mai del tutto risolto. La carne è un elemento perturbatore e contaminante, l'unione di razze differenti, come pure il nutrirsi di carne animale, corrompe l'individuo: su questo punto Hitler è perfett­mente d'accordo, essendo egli, come Wagner, vegetariano, aveva quasi orrore della carne e a volte riprendeva i membri del suo staff che, invece, ne erano ghiotti. L'antisemitismo wagneriano trae origine da questa concezione di purezza del sangue: un tedesco che si fosse unito ad una donna ebrea avrebbe commesso qualcosa di abominevole, infettando la propria perfezione spirituale che ancora prima deve essere biologica e di conseguenza la forza vitale non avrebbe illuminato l'individuo e il popolo. Si può, quindi, affermare che Wagner avesse concepito un evangelo musicale, che aveva come scopo la rinascita della potenza tedesca, egli, come Hitler viveva nell'ideale dell'Uomo-Dio, dei procedimenti metafisici e, potremmo dire, alchemici, di trasmutazione della personalità ed elevazione verso l'onnipotenza. L'odore del sangue, l'alito del drago, la terra sotterranea brulicante di esseri di una umanità inferiore, la magia, i suoni e le grida nella furia della battaglia, l'odio tra Sigfrido e Hagen: sono tutti elementi che trasposti in un universo mitico si connettono al presente e ammaliano la Germania perché sono visioni antiche del dramma religioso e psichico che vive. Wagner verrà esaltato e acclamato in tutta Europa, la sua fama universale continuerà dopo la morte con il festival di Bayreuth, dove si sviluppò una specie di culto della personalità del musicista. La sua casa sarà trasformata in museo e la moglie Cosima entusiasta ideologa volkisch, porterà avanti la sua opera culturale.

    FONTE E ARTICOLO COMPLETO:http://www.thule-italia.net/dossier/nazismo2.html

 

 

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