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  • In seguito alla conquista romana dell'Italia

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  • In epoca augustea

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  • Tra l'epoca augustea e il dominio dioclezianèo

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  • In età tardo-imperiale (284-476 d.C.)

    0 0%
  • È stata il frutto di lungo processo tra l'età repubblicana dell'antica Roma ed il Basso Medioevo

    2 12.50%
  • Nell'Alto Medioevo

    0 0%
  • Nel Basso Medioevo

    0 0%
  • Tra l'Alto e il Basso Medioevo

    1 6.25%
  • È stata il parto finale di una lunga gestazione durata tra il Medioevo e l'età rinascimentale

    0 0%
  • In epoca rinascimentale

    0 0%
  • Tra il XVIII e il XIX secolo

    4 25.00%
  • Con il processo di unificazione politica (ancorché incompleto) avvenuto nel corso dell'Ottocento

    2 12.50%
  • L'Italia come nazione è nata solo con la fine della prima guerra mondiale ed il fascismo

    1 6.25%
  • Con le prime invasioni indoeuropee dei popoli italici

    1 6.25%
  • Non so/Altro specificare

    2 12.50%
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Risultati da 11 a 20 di 55
  1. #11
    Barbaro
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    Predefinito Re: Nascita di una nazione: l'Italia

    Citazione Originariamente Scritto da Draigo Visualizza Messaggio
    E' una premessa errata, confondi l'identità politica con l'identità etnica. Le due cose sono rimaste distinte per la stragrande maggioranza della storia medievale e anche successiva. Un veneto e un napoletano si identificavano POLITICAMENTE con Venezia e Napoli ma in nessun modo questa identificazione POLITICA coincideva con una identificazione ETNICA. L'intera vicenda del nazionalismo ottocentesco si riassume proprio in questo modo: il tentativo di far coincidere le due cose, che è cosa ben diversa dall'affermare che l'identificazione ETNICA fu un'invenzione. Confondere le due cose è aberrante, i guelfi e i ghibellini si odiavano politicamente ma sapevano benissimo di essere entrambi italiani.
    No no, se uno si sente parte di un etnia comune sente la voglia anche di governarsi assieme, altro che palle
    PATRIMONIALE PROGRESSIVA SU IMMOBILI, DEPOSITI, PRODOTTI FINANZIARI, RENDITE E SUCCESSIONI!

  2. #12
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    Predefinito Re: Nascita di una nazione: l'Italia

    In Italia non c'è mai stata una "coscienza identitaria" o di appartenenza razziale.
    L'Italia s'è unita politicamente e male nel 1861.
    Doveva per le sue caratteristiche unirsi in confederazione o federazione.

  3. #13
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    Predefinito Re: Nascita di una nazione: l'Italia

    Citazione Originariamente Scritto da Robert Visualizza Messaggio
    No no, se uno si sente parte di un etnia comune sente la voglia anche di governarsi assieme, altro che palle
    Non è necessariamente così, anzi.
    Hitler or Hell.

  4. #14
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    Predefinito Re: Nascita di una nazione: l'Italia

    Importante, sul piano culturale e storico , la funzione delle guerre sociali, dove la volontà dei popoli italici soggiogati da Roma di essere "cittadini" e non "coloni", comportò de facto lo sviluppo di una prima idea di Nazione.

  5. #15
    Barbaro
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    Predefinito Re: Nascita di una nazione: l'Italia

    Citazione Originariamente Scritto da Sparviero Visualizza Messaggio
    Non è necessariamente così, anzi.
    Esempi?
    I catalani, i baschi non vedono l'ora di andarsene dalla Spagna...
    Quando ne hanno avuto l'occasione i tedeschi dei sudeti e d'Austria han votato plebiscitariamente per unirsi alla Germania...

    Dove sono sti popoli che non vogliono stare uniti malgrado si sentano un unico popolo?
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  6. #16
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    Predefinito Re: Nascita di una nazione: l'Italia

    Qui una qualche sorta di coscienza etnica/nazionale “italiana” (che non significava però nella gran maggioranza dei casi unitaria/padanizzante, nemmeno alla vigilia del garibaldismo, ma piuttosto varie forme di bonapartismo, neoguelfismo, costituzionalismo ecc...) nel senso citato sopra cominció a formarsi nella classe dirigente verso la fine del ‘700, prima al massimo c’erano i latinizzanti in campo religioso e i toscanizzanti in campo linguistico, ma senza nessuna particolare idea di nazionalità panitaliana, se non in senso del tutto astratto e letterario/elitario

    In altre aree del Sud più lineari, meno marginali, forse questo processo avvenne prima, ma non di molto

    Quanto al popolo medio-basso, esso in genere non aveva al 1860 un’autocoscienza italiana o era assai debole
    “Qualche calcio in culo a qualche giornalista servo infame cominceremo a tirarlo. Diamogli almeno un motivo per dire che siamo cattivi.”
    Il Capitano

  7. #17
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    Predefinito Re: Nascita di una nazione: l'Italia

    « Civis Romanus Sum » : romanità, latinità e Mediterraneo nel discorso italico di Benito Mussolini (1915-1922)

    Manuela Bertone
    p. 109-118
    https://doi.org/10.4000/cdlm.9075
    Résumé | Index | Texte | Notes | Citation | Auteur
    Résumés

    ItalianoEnglish

    Ben prima che si scatenino le mire imperialiste del fascismo Benito Mussolini recupera e rielabora la storia di un passato lontano e fastoso, fatto di reminiscenze storico-letterarie diffuse tra gli italiani più colti e, pur in forma molto schematica, già orecchiate dai meno colti. Egli utilizza cioè una certa concezione della latinità, della romanità e del mondo mediterraneo tramandata nel tempo con varie sfumature, in diverse forme e molteplici circostanze, per dare vita a un discorso identitario capace di tenere insieme tutti gli italiani. This article soppesa gli ingredienti della storia che Mussolini racconta agli italiani in testi risalenti agli anni ‘10 e ai primissimi anni ‘20 per appurare in che cosa consistano, nella messe di suggerimenti di varia provenienza della vasta tradizione retorica nazionale, l’originalità e l’efficacia del suo discorso italico ovvero il discorso delle origini, inteso nella doppia accezione di discorso attinente alle radici degli italiani e di discorso intrinseco ai fondamenti del fascismo.


    1In un articolo intitolato « Passato e avvenire », pubblicato sul Popolo d’Italia il 21 aprile 1922 in occasione della ricorrenza del Natale di Roma, Benito Mussolini si esprime in questi termini :

    Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento ; è il nostro simbolo o, se si vuole, il nostro Mito. Noi sogniamo l’Italia romana, cioè saggia e forte, disciplinata e imperiale. Molto di quel che fu lo spirito immortale di Roma risorge nel Fascismo : romano è il Littorio, romana è la nostra organizzazione di combattimento, romano è il nostro orgoglio e il nostro coraggio : Civis Romanus Sum 1.

    2Quello di essere Civis Romanus non è nient’altro che un solenne auspicio, o meglio un’asserzione dall’intento performativo che diventerà realtà soltanto due anni dopo, il 21 aprile 1924, quando, ormai al potere, Mussolini riceverà la cittadinanza onoraria di Roma in Campidoglio. Nel discorso pronunciato in quell’occasione nella sala degli Orazi e Curiazi, egli dirà :

    sino dai giorni della mia lontana giovinezza, Roma era immensa nel mio spirito che si affacciava alla vita, e dell’amore di Roma ho sognato e sofferto e di Roma ho sentito tutte le nostalgie […] e la semplice parola aveva un rimbombo di tuono nella mia anima.


    3Come si vede, dall’aspirazione collettiva espressa nel discorso militante siamo passati al riferimento a un ricordo personale, com’è comprensibile, date le circostanze. Ma le molle che Mussolini fa scattare nel 1922 e nel 19242 sono le stesse : quella dell’identificazione (prima del proprio movimento e poi di sé) attraverso il mito di Roma e della romanità, e quella della mitizzazione del passato per dar lustro al presente3.



    4Mussolini non sarà certo il primo governante dell’Italia post-unitaria a « mitizzare il passato per ragioni di Stato »4. Giolitti, ricordiamolo, ammetterà che furono belle leggende le analisi confezionate dal governo tra il 1911 e il 1912 durante la guerra di Libia per giustificare, falsificandola, la realtà del conflitto. Analogamente, in precedenza, erano state ampliate le vittorie piemontesi durante il Risorgimento per « confutare le critiche provenienti dai patrioti più radicali come Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo e Giuseppe Garibaldi »5.

    5Ma il caso di Mussolini risulta particolarmente interessante perché, se farà parte di coloro che si adoperano a costruire favole post factum, per coprire le magagne dell’azione di governo o per giustificarla nell’intento di confortare le proprie scelte espansionistiche e rassicurare i cittadini (gli otto milioni di baionette, il complotto demo-pluto-giudaico-massonico, l’Italia imprigionata nel Mediterraneo), se sarà l’ideatore di efficaci strumenti di propaganda, manipolazione e (dis)informazione per conservare il potere, egli ha saputo anzitutto approntare preventivamente narrazioni edificanti per darsi e offrire una consistenza culturale che ha ritenuto essere la premessa indispensabile onde assicurarsi legittimità politica. Ben prima che intervenisse la ragione di stato, ha pianificato interventi al contempo lenitivi ed eccitanti, facendo uso di un collante simbolico antico, intuendolo sicuro e potente, a condizione di propinarlo ad alte dosi e spalmarlo con vigore sull’intera superficie del corpo della nazione. Quel collante non è altro che un passato lontano e fastoso che si presuppone condiviso, fatto di reminiscenze storico-letterarie diffuse tra gli italiani più colti e, pur in forma molto schematica, già orecchiate dai meno colti. È una certa concezione della latinità, della romanità e del mondo mediterraneo tramandata nel tempo con varie sfumature, in diverse forme e molteplici circostanze, che Mussolini recupera e rielabora per dar vita a un discorso identitario capace di tenere insieme tutti gli italiani, un discorso italico che precede non solo le sue notissime, altisonanti dichiarazioni di Duce del fascismo, ma anche la sua nomina a Presidente del Consiglio del Regno d’Italia (31 ottobre 1922) dopo la marcia su Roma (28 ottobre 1922), e la fondazione del Partito Nazionale Fascista (10 novembre 1921), e finanche la nascita di quei fasci italiani di combattimento (23 marzo 1919) che, dandosi come emblema il fascio littorio, costituiscono il primo omaggio-rinvio esplicito a un simbolo (per la verità di origine etrusca) della Roma antica da parte del movimento proto-fascista.

    6Detto questo, risulta quanto mai utile soppesare gli ingredienti della storia che Mussolini racconta agli italiani e precisare in che cosa consistano, nella messe di suggerimenti di varia provenienza della vasta tradizione retorica nazionale, l’originalità e l’efficacia del suo discorso. In altri termini : come si passa da temi e problemi non nuovi a una visione e a soluzioni personali o, comunque, estese, percepite e acclamate come tali ? Per cercare di rispondere al quesito ci baseremo sulla lettura di testi risalenti agli anni ‘10 e ai primissimi anni ‘20 nei quali è custodito il discorso delle origini, inteso nella doppia accezione di discorso attinente alle radici degli italiani e di discorso intrinseco ai fondamenti del fascismo.


    7Se l’autore dei testi che prenderemo in esame è sempre lo stesso, la fabula che egli svolge viene presentata in sedi diverse e, di volta in volta, adattata per un pubblico diverso. Il diario di guerra, scritto al fronte6, è destinato ai lettori del Popolo d’Italia, il quotidiano nazionale che Mussolini dirige, così come l’articolo « Passato e avvenire » del 22 aprile 1922, che abbiamo già citato in apertura. Il discorso pronunciato a Bologna al Teatro Comunale il 19 maggio 1918, che uscirà sul Popolo d’Italia il 24 maggio 1918, è rivolto in primis ai mutilati e ai reduci di guerra bolognesi. I discorsi di Pavia (23 novembre 1918), di Milano (24 maggio 1920), di Cremona (7 settembre 1920), di Trieste (20 settembre 1920), di Bologna (3 aprile 1921), di Udine (22 settembre 1922) sono comizi destinati a militanti e simpatizzanti, mentre i discorsi alla Camera dei Deputati del 21 giugno 1921 e del 1o dicembre 1921 sono interventi da parlamentare : l’uno, è il primo pronunciato nell’emiciclo da Mussolini (deputato neo-eletto nell’aprile 1921) ; l’altro, è una risposta a precedenti interventi altrui.

    8Ricordiamo subito che la Grande Guerra non costituisce uno spartiacque nel percorso di Mussolini, non segna cioè una rottura come, in precedenza, il suo passaggio dal neutralismo all’interventismo, dalla direzione dell’Avanti alla fondazione del Popolo d’Italia, dalla militanza socialista all’espulsione dal partito. Anzi : i testi qui proposti alla disamina mettono in evidenza una continuità di pensieri e intenzioni che lega anni di guerra e dopoguerra, l’esperienza del soldato e quella del reduce, a vari livelli, non ultimo quello della scelta del modello di riferimento romano-latino-mediterraneo.


    9Dopo essere stato rifiutato come volontario, Mussolini è chiamato alle armi il 31 agosto 1915 e arruolato come soldato semplice tra i bersaglieri ; il 1o marzo 1916 viene promosso caporale per meriti di guerra, il 31 marzo 1916 diventa caporal maggiore, il 23 febbraio 1917 è gravemente ferito durante un’esercitazione sul Carso e viene evacuato dal teatro delle operazioni. Tra il dicembre 1915 e il febbraio 1917, sul Popolo d’Italia, pubblica non consecutivamente quindici corrispondenze, sempre in prima pagina, precedute da altisonanti annunci redazionali destinati a catturare l’attenzione dei lettori. Il diario nasce come racconto mediatico, e infatti contribuisce ampiamente al successo del giornale. Come ricorda Giuseppe Prezzolini, la gente leggeva Il popolo d’Italia per lui, perché era il giornale di una personalità7 : in tempo di guerra dalle usuali trentamila copie la tiratura passa a cinquantamila, con punte di ottantamila.

    10Frutto di una calcolata strategia meno informativa che comunicativa (e certamente già propagandistica) il diario del bersagliere Mussolini serve anzitutto a restaurare la sua immagine pubblica, a far dimenticare che è stato estremista, socialista rivoluzionario, neutralista. L’esercito, però, non ha dimenticato il suo recente passato di agitatore politico e, applicando le disposizioni della Circolare Cadorna (che prevedevano la stretta sorveglianza dei socialisti interventisti nei reparti, perché ritenuti elementi sovversivi), respinge la sua richiesta di ammissione al corso per allievi ufficiali bloccando di fatto la sua carriera militare. Mussolini fa buon viso a cattivo gioco e, per la durata della sua guerra svolge un’intensa attività di mediazione fra la truppa, di cui fa parte, e gli ufficiali, di cui dovrebbe far parte, dialogando con tutti, protagonista di incontri fraterni e commoventi.

    11A pochi giorni dall’inizio della vita di guarnigione, il 17 settembre 1915, Mussolini osserva i commilitoni provenienti da svariati distretti militari, che elenca, per esclamare compiaciuto : « Vecchia e sempre giovane stirpe italica » (p. 23). Utilizza per la prima volta l’aggettivo italico che in seguito preferirà nuovamente ad italiano legandolo a stirpe («la nobile stirpe italica », p. 122) e poi a sangue («Le montagne dell’Alto Isonzo, santificate dal sangue italico », p. 132), per un verso perché probabilmente lo sente aulico, letterario (ed effettivamente l’origine è illustre, poiché italico è l’aggettivo esclusivamente usato da Dante quando intende italiano, tanto nel Convivio che nella Commedia) e per un altro perché, sapendolo attributo consueto dei primi popoli della penisola, gli consente di antichizzare e dunque di rendere più prestigiosi i sostantivi che accompagna. Se il latinismo italico è qui di sicuro effetto espressivo, ben altra valenza assume quando compare nel discorso di Pavia (23 novembre 1918), dove, nel rammentare con orgoglio gli « obiettivi sacri » della guerra appena finita (Trento, Trieste, Fiume e Zara), Mussolini sottolinea la necessità dell’Adriatico per l’Italia e afferma che « ora la missione degli italiani è nel Mediterraneo », come consacrazione solenne del « diritto italico in questi paesi ». L’oratore, come si vede, rimanda addirittura allo ius italicum, ovvero a quello statuto particolare esteso dalla Roma imperiale ai territori fuori d’Italia che garantiva l’appartenenza al suolo italiano e, ai loro abitanti, la cittadinanza romana. Siamo insomma passati dall’uso retorico di una parola suggestiva, romanamente connotata, all’esplicita rivendicazione di un territorio in forza di un’istituzione giuridica romana invocata come norma in vigore. Idealmente e non concretamente in vigore, certo : ma che tra la normativa vagheggiata e il diritto reale il passo sia inteso come molto breve e proposto agli astanti come fattibile e da farsi, lo dimostra un lacerto del discorso di Cremona (7 settembre 1920), in cui Mussolini torna sulla conquista dei territori dell’Adriatico e precisa :

    Noi non siamo imperialisti alla prussiana, colla smania dell’eterna conquista militare ; noi siamo imperialisti alla romana, perché vogliamo suffragare, colle leggi immortali di Roma, una conquista compiuta colle armi.

    12Nel contrapporre un imperialismo virtuoso – quello romano – a un imperialismo vizioso – quello prussiano – Mussolini introduce altresì una distinzione fondamentale tra i legittimi eredi di una tradizione (gli italiani) e gli usurpatori dell’idea romana di impero (i prussiani). Lo dirà a chiare lettere nel discorso di Bologna del 3 aprile 1921 :

    quelli che ci rimproverano di marciare alla tedesca, devono pensare che non siamo noi che copiamo i tedeschi, ma sono questi che copiavano e copiano i romani, per cui siamo noi che torniamo alle origini, che ritorniamo al nostro stile romano, latino e mediterraneo.

    13La distinzione tra copie e originali è già reperibile nelle pagine del diario di guerra, dove la parola italico serve precisamente a sottolineare una certa ascendenza anche in virtù del contrasto con un nemico che viene fatto risalire a ben altri avi : « abbiamo di fronte dei barbari » (19 settembre 1915, p. 33). In altri termini, l’idea della continuità viene convalidata in forza del paragone per dissimilia symbola : i romani avevano fronteggiato le orde dei barbari, i nuovi romani hanno lottato contro i nuovi barbari nella guerra ‘15-’18, così, nelle intenzioni degli anni ‘20, il nuovo imperialismo alla romana non può che imporsi per arginare il nuovo imperialismo alla tedesca.

    14Il diario è di fatto una sorta di De Bello contra Barbaros e, come tale, costituisce una replica accesa alle storie prodotte dal nemico che mirano a sminuire il valore degli italiani : « I milioni e milioni di italiani – in particolar modo meridionali – che negli ultimi venti anni hanno battuto le strade del mondo, sanno per dolorosa esperienza che cosa vuol dire appartenere a una nazione politicamente e militarmente svalutata » (5 novembre 1915, p. 96-97) ; « Questa strada [la carrozzabile del Canal Dogna] è un lavoro che dovrebbe esser visto da quanti negano a noi – latini – ogni capacità di organizzazione e tenacia » (1o maggio 1916, p. 167-168). Come si vede, presentando gli italiani (« noi ») come « latini » per antonomasia, Mussolini risponde con uno stereotipo edificante a uno stereotipo mortificante di conio straniero. Ma non basta : egli attiva uno dei motivi ai quali ricorrerà regolarmente negli interventi del dopoguerra, allontanandosi dallo stereotipo che avvilisce il carattere degli italiani per richiamare l’attenzione su fatti concreti, su una realtà positiva, quella del lavoro italiano, dell’operosità e della disciplina italiana in tempo di guerra come in tempo di pace, riconducibile all’esempio di Roma. Nel discorso di Bologna del 19 maggio 1918 (pubblicato sul Popolo d’Italia il 24 maggio 1918), leggiamo :

    Basta rappresentare l’Italia col berretto di locandiera, méta di tutti gli sfaccendati, muniti del loro odioso Baedeker ; basta collo spolverare vecchi calcinacci : siamo e vogliamo essere un popolo di produttori ! Saremo un popolo che si espanderà, senza propositi di conquista : ci imporremo con le nostre industrie, col nostro lavoro. Sarà il nome augusto di Roma che dirigerà ancora la nostra forza nell’Adriatico, golfo del Mediterraneo e nel Mediterraneo strada di comunicazione fra tre continenti.

    15E in « Passato e avvenire », dove il legame fra l’Italia moderna e quella di un tempo campeggia fin dal titolo :

    i romani non erano soltanto dei combattenti, ma dei costruttori formidabili […] L’Italia è stata romana, per la prima volta dopo quindici secoli, nella guerra e nella vittoria : dev’essere -ora- romana nella pace : e questa romanità rinnovata e rinnovantesi ha questi nomi : Disciplina e Lavoro.

    16Nelle sue Lezioni di Harvard, ripubblicate di recente, Gaetano Salvemini ricorda che un

    morbo rodeva gli animi dell’intellighenzia italiana negli anni dal 1870 alla guerra mondiale. Era il cancro romano-imperiale : il ricordo e la nostalgia della grandezza dell’Impero romano, e insieme un inquieto anelare ad impossibili imprese, che generava delusione e amarezza, e portava gli uomini a mortificare se stessi. L’Italia era schiacciata dal suo passato8.


    17Contemporaneamente, l’Italia veniva ritratta dagli osservatori stranieri come un paese povero e arretrato, afflitto dal malgoverno. E, prosegue Salvemini, « questa malattia non fu mai tanto diffusa e violenta come negli anni che seguirono la prima guerra mondiale », quando cioè quella stessa intellighenzia trasformò masochisticamente la vittoria in una sconfitta. Ora, in palese controtendenza, mentre l’Italia si infligge e subisce quello che oggi chiameremmo un debito di immagine, Mussolini si adopera a diffondere, durante la guerra e nel dopoguerra, l’idea della continuità nel presente della grandezza passata : non rammenta Roma con nostalgia e rimpianto, ma come un antecedente vivo e fruibile ; non recupera il Leitmotiv della civiltà latina come « un’anticaglia polverosa » e costrittiva, ma come « proiezione di elementi strutturali portanti »9 e, al pessimismo nero della sconfitta, risponde con l’orgoglio del soldato e dell’ex-combattente vittorioso, forte della consapevolezza di un privilegio, quello di far parte del popolo degli eredi naturali di Roma. Pur avendone « acquista(to) all’ingrosso la dottrina »10, Mussolini si smarca di fatto anche dai nazionalisti, per i quali Roma era sostanzialmente un’astrazione velleitaria : se questi « parlavano con grande enfasi della “più grande Italia” e delle aquile di nuovo in volo su tutto il bacino del Mediterraneo e oltre le Alpi »11, riuscendo a diffondere la mentalità nazionalista tra la media e l’alta borghesia, Mussolini si rivolge invece agli italiani senza distinzione di ceto e di cultura, pur consapevole della difficoltà di tenere insieme una collettività composita e, a guerra finita, per lo più mortificata e delusa :

    Oggi non si vuole più sentire parlare di guerra ed è naturale. Ma fra qualche tempo la psicologia del popolo sarà mutata e tutto o gran parte del popolo italiano riconoscerà il valore morale e materiale della vittoria ; tutto il popolo onorerà i suoi combattenti […] (discorso di Milano, 20 maggio 1920).

    18Fin dalle pagine del diario Mussolini aveva costruito un coloratissimo caleidoscopio di voci, di volti, di nomi, presentando il conflitto come esperienza di una comunità valorosa e coesa : la parte combattente del popolo d’Italia veniva unita all’altra parte della stessa comunità nazionale, quella dei civili lontani dalle zone di guerra, attraverso le aspirazioni e intenzioni del nuovo capopopolo in grigioverde, nel contempo protagonista e gregario, leader e seguace, sempre capace di interpretare con semplicità e naturalezza i più elevati sentimenti : « giungo ad Aquileia, città dalla eterna impronta romana » (30 novembre 1916, p. 184) ; « le miei mani hanno ora il segno della più grande nobiltà : sono sporche della terra rossiccia del Carso » (14 dicembre 1916, p. 208) ; « Sulle rive del Tevere è nata l’Italia, sulle rive dell’Isonzo è rinata » (19 gennaio 1917, p. 235). Finito il conflitto, si rivolge a quello che verrà detto il Quinto stato, ovvero alla massa degli ufficiali congedati, dei reduci malmenati di cui invece vorrà lodare i meriti e l’ardimento, chiamandoli insieme ai più umili, ai meno colti, a condividere l’eredità di Roma, utilizzando nuovamente un lessico sobrio, frasi lineari, di sicura efficacia, come risulta dal discorso di Pavia (23 novembre 1918) :

    La Patria non è una frase poetica : l’Italia è una realtà, è qualche cosa che canta in noi. Non possiamo e non dobbiamo essere antipatrioti. Bisogna amare la Patria, amarla come si ama la madre. Se vi potessi leggere il testamento dei nostri morti, che sono morti gridando : « Viva l’Italia ! », essi vi insegnerebbero questo amore. Il nostro popolo non conosce questa grandezza romana. Bisogna elevare la cultura delle masse lavoratrici.

    19Mussolini si assume così il compito di raccontare a tutti gli italiani la loro storia insistendo sul carattere nobile della Patria comune : per elevare la cultura delle masse, egli le eleva anzitutto di rango, rinviandole alla grandezza romana, definendole cioè tramite « il criterio aristocratico fondamentale, la discendenza »12. D’altra parte, nelle cronache dal fronte aveva già sostato ad osservare la « psicologia del vecchio soldato » (14 aprile 1916, p. 157) e aveva poi lungamente insistito sulla necessità di « parlare a quest’umile gente, cercare spesso di scendere verso queste anime semplici e primitive, che costituiscono ancora, malgrado tutto, uno splendido materiale umano » (12 dicembre 1916, p. 205) e riflettuto sulla meravigliosa capacità di adattarsi alle condizioni particolari della guerra come prova delle « qualità individuali e complesse della stirpe italiana » (18 dicembre 1916, p. 214) : qualità tramandate, dunque, e non di conio recente ; qualità che consentiranno all’Italia di scrivere « meraviglios[e] pagin[e] di eroismo latino » (2 dicembre 1916, p. 188).

    20Il diario è il primo testo in cui l’idea di scendere verso gli italiani va di pari passo con quella dell’elevazione degli italiani a massa di nobili discendenti di Roma. Stabilito che il suo 11o bersaglieri è « il reggimento italiano per eccellenza » (15 ottobre 1915, p. 66), l’osservazione ravvicinata degli « umili figli d’Italia », stoici e valorosi, lo porta a decretare la « magnifica solidità della nostra stirpe » (18 ottobre 1915, p. 74) e, contestualmente, ad associare stirpe e patria, stirpe e nazione, procedendo così alla saldatura tra un ideale retaggio comune (la stirpe) e un concreto progetto condiviso (la patria, la nazione). Un progetto interclassista che cancella anche le identità locali per aggregare le masse sotto il segno dell’italianità : « Questa guerra », afferma, « è il grande crogiuolo che mischia e fonde tutti gli italiani. Il regionalismo è finito » (18 aprile 1916, p. 160).

    21La saldatura coincide – e può sembrare un paradosso – con la decisa presa di distanze dal massimo cantore dell’Italia unita, Giosuè Carducci, che nel diario Mussolini chiama l’Enotrio Romano, utilizzando in chiave sarcastica lo pseudonimo che il poeta si era dato all’altezza di Giambi ed Epodi (1867), per rammentare, dichiarandolo sorpassato e inservibile, il lamento del poeta : « La nostra Patria è vile ! » (In morte di Giovanni Cairoli).

    22In seguito, nel discorso alla Camera del 21 giugno 1921, citerà nuovamente Carducci, per ricordare le prese di posizione anticlericali diffuse in tanti suoi componimenti poetici, che ormai giudica anacronistici, e per relegarlo una volta per sempre nel solo « campo della letteratura » e in un passato prossimo che nulla ha a che spartire con la spregiudicatezza dei fascisti, a nome dei quali afferma : « la tradizione latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicesimo ».

    23L’unico letterato che trova grazia agli occhi di Mussolini è D’Annunzio, che nel discorso di Trieste (20 settembre 1920) egli proclama « il più grande poeta d’Italia » : ma non è certo il versificatore ad interessarlo, bensì il condottiero, l’uomo « di pura razza italiana » che con i suoi legionari, a Fiume, « ha tenuto in scacco tutte le forze del mondo », restituendo all’Italia l’orgoglio pieno della vittoria.


    24Mussolini si tiene lontano dall’affabulazione dei tanti poeti per i quali l’idea del primato dell’Italia legato alla tradizione dell’antica Roma, restaurato nella sua fisionomia storica, era rimasto un sogno sul piano politico : Dante, Petrarca, Foscolo, Alfieri, Parini, esattamente come Carducci, non lo interessano. Dante e Carducci li nomina di passata, come « reminiscenze letterarie » (discorso alla Camera, 1o dicembre 1921), ma non gli interessa neppure, in questo torno di tempo, recuperarli in chiave retorica come avevano fatto « per calcolo [i] governi dell’Italia unita e [i] relativi ministeri dell’istruzione pubblica e della guerra »13, e come farà lui stesso a fascismo instaurato.

    25Eppure, nei suoi testi, Mussolini batte insistentemente su uno dei tasti ampiamente sfruttati nell’Italia postunitaria, quello della Terza Roma, che non dovrebbe condurlo lontano da Carducci, il cantore, il vate della Terza Italia : dopo quella antica, la prima, e dopo quella dei papi, la seconda, la Terza Roma è appunto la capitale della Terza Italia che si sarebbe inverata con la costruzione del nuovo Stato italiano. Ma per Mussolini le cose stanno diversamente: egli ritiene che « il compito di Roma non è finito » (discorso di Trieste, 20 settembre 1920) in quanto la città « ha dato due civiltà al mondo e darà la terza » (discorso di Bologna, 3 aprile 1921). E anche alla Camera, il 1° dicembre 1921, nel presentare i fascisti come « esaltatori di tutto ciò che è romano », rammenterà che « questo piccolo territorio è stato una volta il centro, il cervello, il cuore dell’impero » e che « su questo breve spazio di suolo, si è realizzato uno dei miracoli religiosi della storia », mentre non spenderà una sola parola d’encomio per la Roma capitale dello Stato nato dal Risorgimento. E questo perché a Mussolini preme sottolineare che la Terza Roma è un progetto non ancora realizzato ; che nemmeno la guerra, da molti voluta, vissuta e poi interpretata (a torto) come una quarta guerra di indipendenza, è riuscita a portare a compimento il glorioso processo di unificazione nazionale interrotto nel 1870, quando la proclamazione di Roma capitale aveva siglato l’epilogo della complessa vicenda risorgimentale. E gli preme sottolineare che questo progetto è suo e gli viene ispirato direttamente da colui che aveva coniato l’idea e l’ideale della Terza Roma, vale a dire Giuseppe Mazzini.

    26Com’è noto, Mussolini scopre il pensiero di Mazzini piuttosto tardi, per la precisione durante la Grande guerra (anche se, a dire il vero, il titolo del suo giornale riformula quello di un foglio mazziniano, L’Italia del Popolo, fondato a Milano nel 1848 e poi ripreso da altri in varie sedi fino al 1859). E proprio le pagine del diario di guerra registrano il primo impatto di questo incontro decisivo. Il 3 maggio 1916 vi scrive infatti di aver letto un volume degli scritti di Mazzini datogli da un soldato interventista. Colpito dalla Lettera a Carlo Alberto (spedita da Marsiglia nel luglio 1831), ne trascrive una parte sul suo taccuino. Ma trascrive anche un lacerto di un testo del 1832, Di alcune cause che impedirono finora lo sviluppo della libertà in Italia, che evidentemente sente come una rivelazione e accoglie come una chiamata :

    Mancarono i capi ; mancarono i pochi a dirigere i molti, mancarono gli uomini forti di fede e di sacrificio, che afferrassero intero il concetto fremente delle moltitudini – che ne intendessero ad un tratto le conseguenze – che, bollenti di tutte le generose passioni, le concentrassero in una sola, quella della vittoria – che calcolassero tutti gli elementi diffusi, trovassero la parola di vita e di ordine per tutti (p. 170).

    27Da questo incontro con il patriota che auspicava la costruzione della nuova Italia come nazione di un popolo unito da radici condivise e alimentato da una passione comune trasmessa da un capo che sappia indovinarne le aspirazioni prendono corpo e l’idea mussoliniana della Terza Roma e il discorso che la accompagna.

    28Un’idea e un discorso che danno spazio al solo versante irrealizzato del Risorgimento, quello eroico e più velleitario, incarnato dagli sconfitti Mazzini, Pisacane e Garibaldi, non a caso i soli nomi del passato recente che tornano a varie riprese sotto la penna di Mussolini. Egli costruisce un ponte ideale tra la storia di ieri, quella romana, e la storia di domani, impersonata dal fascismo sulla scorta delle imprese di Garibaldi « latinamente italiano », dei « nostri grandi maestri italiani » (discorso di Trieste) Mazzini e Pisacane.

    29Il « grido mazziniano e garibaldino di “Roma o morte” » («Passato e avvenire »), il « dilemma tragico, inesorabile di “o Roma o morte” » (discorso di Udine, 2 settembre1922) dato da Garibaldi alle sue camicie rosse, che Mussolini rievoca per farlo risuonare con fervore, sembra attraversare il deserto dell’Italia liberale fatta dai Savoia e dai loro seguaci moderati, incapaci di rafforzare il senso di appartenenza degli italiani : capaci di prendere Roma, certo, ma solo per farne « un magnifico quadro dentro ad una mediocre cornice » (discorso di Trieste), senza saperne interpretare il passato né tantomeno l’avvenire :

    La Roma che noi onoriamo – non ha nulla a che vedere con certa trionfante mediocrità modernistica e coi casermoni dai quali sciama l’esercito innumerevole della travetteria dicasteriale. Consideriamo tutto ciò alla stregua di certi funghi che crescono ai piedi delle gigantesche querce (« Passato e avvenire »).

    30Non sarà un caso se Francesco Crispi è l’unico capo di governo dell’Italia unita citato in tante pagine : « uomo grande nel pensiero italiano », Crispi merita un cenno d’omaggio appunto perché « ruppe questa tradizione » (discorso di Trieste) di mediocrità, di conquiste sprecate.

    31In buona sostanza, il discorso italico di Mussolini comporta significativi elementi di novità che ne spiegano l’efficacia e il successo rispetto ad altre estrusioni coeve. Anzitutto, è inclusivo e non esclusivo, nel senso che chiama a raccolta tutti gli italiani come qualificati eredi di Roma e strappa alle classi colte il privilegio della superiorità culturale non per dichiararlo estinto, bensì condivisibile. È inoltre dinamico e non statico, in quanto esprime una progettualità coinvolgente : la latinità, la romanità, il Mediterraneo non sono proposti come vecchie idealità, ma come potenzialità da far rivivere : l’Italia è « la nazione mediterranea dei nostri sogni » (discorso di Bologna, 3 aprile 1921). È per giunta concreto e non astratto, cioè non fondato su un sapere ma su un saper fare (dei romani e degli italiani), ovvero non su conoscenze erudite di ascendenza classica, ma su pratiche e competenze antiche tuttora spendibili. E poi è assertivo e non propositivo, poiché assicura e non si limita a ipotizzare la perpetuazione del privilegio ereditario agli italiani contemporanei. Ed è pratico, non teorico, in quanto poggia non sull’ipotesi di un supposto primato a lungo difeso a parole, ma sull’evidenza del valore dimostrato sul campo e della vittoria riportata nella Grande guerra. E, infine, è insistito e non casuale, nel senso che il rimando a un certo passato, al suo prestigio, alla sua nobiltà, alla sua fruibilità nel presente, per il fatto stesso di essere sistematico, ne stabilizza il senso, ne accredita il valore, in un certo qual modo ne certifica la fondatezza.


    32Il richiamo a Roma, alla romanità « è stato generalmente collegato dagli studiosi del fascismo alla sua velleitaria volontà di potenza imperialista, volta a ricostruire, con la guerra e la conquista, le dimensioni dell’impero romano »14 anziché essere soppesato come elemento di un terreno che contiene le radici della cultura mussoliniana poi in parte trapiantate e rigermogliate nel fascismo. Per concludere, giova quindi insistere sul fatto che l’attrazione esercitata da Roma e dal suo mito su Mussolini15, oltre a risalire a un tempo anteriore all’affermazione del fascismo e alle sue successive velleità imperiali, si esprime nelle parole del Mussolini degli anni della Grande guerra e del dopoguerra anzitutto come esigenza strutturante : non tanto per ricostruire un impero, insomma, quanto per confezionarsi un supporto discorsivo solido e attendibile, capace di mobilitare, per darsi una nuova fisionomia politica da lanciare in un contesto sensibile quanto disorientato, avido di rivoluzionarie rassicurazioni.

    Notes

    1 Alcuni dei discorsi di Benito Mussolini citati in questa sede sono compresi in Renzo De Felice, Autobiografia del fascismo. Antologia di testi fascisti 1919-1945 (2001), Torino, Einaudi, 2004. Altrimenti sono ormai tutti reperibili e consultabili in rete. Pertanto le nostre citazioni saranno semplicemente accompagnate dall’indicazione del luogo, del momento o dell’occasione in cui furono pronunciati.
    2 Vero è che nel 1924 siamo in piena autocelebrazione nobilitante : Mussolini sublima ricordi e si inventa improbabili genealogie di pensiero per vantare una cultura che non possedeva, aprendo così la strada agli agiografi già all’opera. Non a caso, in Dux, la sedicente biografia di Margherita Sarfatti pubblicata nel 1926 (Milano, Mondadori), la ricostruzione della sua maturazione politica viene fatta risalire agli anni dell’adolescenza che sarebbero stati appunto segnati dall’amore di Roma e dalla conoscenza dei classici : Roma è il nome ch’egli scriveva « nei libri di testo e in margine ai quaderni », il nome che « incise nella corteccia degli alberi e sui banchi della scuola » ; « aveva imparato a reclinarsi sui libri dei padri : […] le memorie di Cesare, la sapienza di Tacito, il poema di Enea » (p. 42). Peraltro, dopo una conversazione con Margherita Sarfatti, Renzo De Felice rammenta di essersi chiesto « quanto del mito della romanità fosse farina del sacco di Mussolini, e non invece piuttosto frutto dell’influenza della Sarfatti. Perché non ho mai conosciuto in vita mia una persona malata come lei di romanità » (Renzo De Felice, Intervista sul fascismo [1975], a cura di Michael A. Ledeen, Bari-Roma, Laterza, 1985, p. 12).
    3 Il secondo lacerto citato è notoriamente la riproduzione di un ricordo mazziniano. Infatti, in una delle sue Note autobiografiche (1864) Mazzini rammenta il 5 marzo 1849, giorno del suo primo ingresso a Roma a seguito della proclamazione della Repubblica romana, in questi termini : « Roma era il sogno dei miei giovani anni, l’idea-madre del concetto della mente, la religione dell’anima » (Giuseppe Mazzini, Note autobiografiche, a cura di Roberto Pertici, Milano, Rizzoli, 1986, p. 382).
    4 Denis Mack Smith, La storia manipolata (1998), Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 59.
    5 Ibid., p. 70.
    6 Le corrispondenze dal fronte saranno raccolte in volume con il titolo Il mio diario di guerra (1915-1917), pubblicato in varie edizioni degli scritti di Mussolini a partire dal 1931, preceduto da una dedica dell’autore ai commilitoni dell’11o bersaglieri, con fotografie, titoli trionfalistici, commenti edificanti in corsivo. Le nostre citazioni, d’ora in poi tra parentesi nel testo per comodità di lettura, sono tratte dall’edizione romana della Libreria del Littorio risalente al 1931.
    7 Cf. Giuseppe Prezzolini, Quattro scoperte, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1964.
    8 Gaetano Salvemini, Le origini del fascismo in Italia. Lezioni di Harvard, a cura di Roberto Vivarelli, Milano, Feltrinelli, 2015, p. 33. Il testo è la ristampa di quello contenuto nel vol. I di Scritti sul fascimo pubblicato nel 1961 da Feltrinelli nelle Opere di Gaeano Salvemini.
    9 Giulio Bollati, L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione (1983), Torino, Einaudi, 1996, p. 74.
    10 Ibid., p. 79.
    11 Ibid., p. 78.
    12 Eric J. Hobsbawm, « Tradizione e genesi dell’identità di massa in Europa, 1870-1914 », in Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger, L’invenzione della tradizione (1987), Torino, Einaudi, 1994, p. 281.
    13 Giulio Bollati, L’italiano…, op. cit., p. 71.
    14 Emilio Gentile, Il mito dello Stato nuovo, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 247.
    15 In proposito cfr. almeno Andrea Giardina - A. Vauchez, Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini, Roma-Bari, Laterza, 2008.

    https://journals.openedition.org/cdlm/9075
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  8. #18
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    Predefinito Re: Nascita di una nazione: l'Italia

    Citazione Originariamente Scritto da Robert Visualizza Messaggio
    Esempi?
    I catalani, i baschi non vedono l'ora di andarsene dalla Spagna...
    Quando ne hanno avuto l'occasione i tedeschi dei sudeti e d'Austria han votato plebiscitariamente per unirsi alla Germania...

    Dove sono sti popoli che non vogliono stare uniti malgrado si sentano un unico popolo?
    Il concetto di "guerra civile" ti è ignoto o cosa?

    (per dirne una)
    Hitler or Hell.

  9. #19
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    Predefinito Re: Nascita di una nazione: l'Italia

    Citazione Originariamente Scritto da Robert Visualizza Messaggio
    No no, se uno si sente parte di un etnia comune sente la voglia anche di governarsi assieme, altro che palle
    uhm... quindi i coloni inglesi che nella seconda metà del XVIII secolo vollero separarsi dalla madrepatria, lo fecero perché non si sentivano più etnicamente britannici? Teoria interessante, probabilmente si erano meticciati coi pellerossa...

  10. #20
    (revi) Sionista
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    Predefinito Re: Nascita di una nazione: l'Italia

    Direi che il primo embrione di quella che si può definire "Italia" come entità etno-linguistica e territorio geografico più o meno delimitato è sicuramente in epoca augustea, che è quella che ho votato.

    L'idea di consolida nell'Alto Medioevo e raggiunge l'apice nell'800. Impossibile comunque datare la sua nascita in epoca successiva al Medioevo, se consideriamo che il concetto di "Italia", con tanto di confini anche leggermente più ampi di quelli attuali, esiste anche in Dante Alighieri, che collocava addirittura il limes occidentale sul Rodano.

 

 
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