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    Predefinito [“L’Ordine Nuovo”]: un giornale di pensiero (1972)




    di Paolo Spriano - «Rinascita», a. XXIX, n. 10, 10 marzo 1972, pp. 25-26.

    Non perché è di prammatica ma perché è giusto, acuto, e anche perché e esso stesso una parte della storia del giornale, mette conto di partire da un giudizio classico di Piero Gobetti: «Nel primo anno di vita L’Ordine Nuovo è stato decisamente un giornale di pensiero, singolarissimo in Italia, conscio dell’importanza dei problemi nazionali, preoccupato di fondare una coscienza politica nuova e di ascoltare le esigenze culturali… Per tutto un anno, di fronte al fascismo, L’Ordine Nuovo quotidiano è riuscito a dare la parola d’ordine di coraggiosa resistenza e controffensiva alle classi operaie che, dal titolo stesso, come da simbolo, incominciavano ad apprendere la disciplina e l’autorità… Le declamazioni contro lo Stato sono sempre state intese dagli scrittori dell’Ordine Nuovo come declamazioni contro lo Stato burocratico: essi manifestano il proposito concreto di creare uno Stato che sappia risolvere la crisi borghese ed ereditare i problemi del Risorgimento non risolti: ammettono che la rivoluzione sia la conclusione del liberalismo rivoluzionario dell’800; la professione di internazionalismo è una vera e propria politica estera…».
    Gobetti, quando Gramsci lo chiama, lo invita a collaborare all’Ordine Nuovo quotidiano appena fondato, nel gennaio del 1921, ha vent’anni. Tutto lo interessa nel campo della cultura e di tutto si occupa nei colonnini che il giornale gli mette a disposizione. Il lettore odierno li può vedere attraverso la bella iniziativa degli Editori Riuniti di pubblicare il reprint del primo quotidiano comunista italiano – ne parleremo appresso – e troverà le sigle p.g. in calce alle recensioni librarie, alle cronache di mostre d’arte al Valentino, alle novità di teatro, oppure vedrà la prosa nervosa del giovane critico sotto la firma illuministica e vagamente provocatoria – così tipica del gusto gobettiano – di Baretti Giuseppe. E capirà da questa stessa lettura non solo l’aura di poesia, di curiosità e di freschezza che porta L’Ordine Nuovo nella cultura italiana ma la temperie nuova, rivoluzionaria, irripetibile, in cui respira il giornale. Doveva essere un’atmosfera così eccezionale che Benedetto Croce se ne sarebbe ricordato più di vent’anni dopo, stringendo la mano, alla fine del regime fascista, nella Napoli del 1944, a Palmiro Togliatti che era stato – allora, 1921 – redattore-capo dell’Ordine Nuovo. Quell’Ercoli («che è poi un Togliatti», come segna Croce nel suo diario, nell’aprile del 1944) era oggetto di grande, magari un po’ sospettosa curiosità negli ambienti politici del «regno del Sud». Croce lo saluta e poi annota: «Il Togliatti mi ha ricordato la Torino d’intorno al 1920 e il gruppo di giovani provenienti dall’Università al quale egli apparteneva e che io conoscevo e i parecchi di essi che si volsero al comunismo e al filocomunismo, e il Gramsci, che vi primeggiava e il Gobetti, e una visita che io feci all’Ordine Nuovo dove avevo appuntamento col Gobetti e che trovai già in assetto per ogni evenienza con cavalli di frisia e altri apprestamenti militari».
    Alfonso Leonetti, redattore dell’Ordine Nuovo, che ha una memoria infallibile, ha chiosato questo famoso ricordo di Croce rettificandolo: il filosofo si sarebbe recato alla redazione dell’Ordine Nuovo per incontrare Umberto Calosso e non Gobetti. Sarà stato certo così. L’importante è che, tornando oggi a quelle scure, vecchie pagine del «tempo di ferro e di fuoco», il lettore sappia comprendere che il giornale usciva ogni notte in un clima di guerra civile. La libertà di stampa il quotidiano comunista la difendeva, con la presenza operaia, le armi alla mano, organizzando prima di ogni cosa la resistenza della sua redazione e della sua tipografia agli assalti fascisti: per questo, perché i fascisti sapevano che avrebbero trovato del piombo (anzi si era fatta sapientemente circolare la voce che l’edificio era tutto minato) L’Ordine Nuovo fu il solo quotidiano dichiaratamente antifascista che non subì un’aggressione squadristica nel 1921-22. Ecco come lo stesso Alfonso Leonetti ha rievocato la situazione, diciamo la collocazione fisica prima che politica e sociale, del giornale comunista: «Il sito, del tutto particolare e propizio alla difesa dove era posto l’edificio del giornale, nelle vicinanze di via Roma, al centro della città, tra via Arcivescovado dove, al numero 3, si trovava l’entrata principale e via XX Settembre, sulla quale si apriva la porta carraia, era tale da rendere per se stessa quasi inattaccabile la sede dell’Ordine Nuovo. Per accedere ai locali del giornale bisognava attraversare prima una specie di atrio e poi un vasto cortile, separati l’uno dell’altro da un pesante portone blindato a guardia del quale vi era sempre un operaio armato che fungeva da sentinella. L’Ordine Nuovo aveva ereditato dall’edizione piemontese dell’Avanti! sin dai tempi dell’occupazione delle fabbriche del settembre 1920 un efficace sistema di difesa: reticolati, cavalli di frisia, trappole e un’altra torre costruita nel cortile per la sorveglianza dei tetti, suonerie d’allarme, un posto di guardia permanente costituito da un gruppo di operai armati, le cosiddette guardie rosse, organizzate e dirette dall’operaio Giacomo Bernolfo detto Gargantua, pronte ad intervenire al minimo segnale d’allarme».

    (...)
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    Predefinito Re: [“L’Ordine Nuovo”]: un giornale di pensiero (1972)

    La difficile dialettica con Bordiga

    La descrizione è molto efficace e riconduce a quella caratteristica determinante del giornale comunista segnalata da Gobetti: il giornale della resistenza e della controffensiva operaia contro lo squadrismo dilagante dalla pianura padana verso le stesse grandi città industriali. I modi di quella resistenza, le sue parole d’ordine, sono già acquisite alla riflessione storica attraverso lo studio degli scritti di Gramsci del periodo (raccolti nel volume Socialismo e fascismo) e di quelli di Togliatti (nel primo volume delle sue Opere). Le prese di posizione, i giudizi, le congetture che formulano gli uomini dell’Ordine Nuovo indicano la dialettica di quel giornale di pensiero, secondo la definizione gobettiana: si tratta di un organo che, nel pieno di una lotta corpo a corpo, in cui certo non si misurano i colpi, di una situazione politica estremamente confusa nella quale ogni nuova fase della violenza fascista si accompagna ad aspetti di compromesso con il vecchio personale politico liberale, giolittiano, e financo riformista, non rinuncia mai a scoprire il nuovo del fenomeno, la sua natura sociale composita (reazione grande e piccolo-borghese, insieme) il suo confuso e torbido sottofondo ideologico. Ma, sfogliando le pagine del quotidiano, si ha indubbiamente un ritratto più vivo di tutto un intrico drammatico. L’Ordine Nuovo quotidiano è appunto, all’interno del nuovo partito, guidato da Bordiga, un polo di una difficile dialettica. D’un canto, c’è l’applicazione naturale della direttiva generale di rispondere sullo stesso terreno al nemico, dall’altro c’è la contraddizione, evidentissima, tra lo slancio di una risposta proletaria (si vedano le bellissime cronache di Togliatti da Firenze in piena guerra civile, all’inizio del 1921) e il consiglio del Centro di «non esagerare» l’importanza dello squadrismo. Era un consiglio che nasceva sia dalla preoccupazione di non scoraggiare i compagni sia, e più, dalla testarda convinzione di Bordiga che tutto si sarebbe risolto in una riedizione del giolittismo. Si sa quanto Gramsci dovette faticare al congresso di Roma, dell’inizio del 1922, perché non venisse esclusa, come Bordiga voleva, l’eventualità di un colpo di Stato militarista-fascista. E qui si vede anche meglio l’atteggiamento dell’Ordine Nuovo nei confronti del movimento degli Arditi del popolo, un atteggiamento favorevole fino a quando non giunge imperiosa la direttiva dell’Esecutivo di osteggiarlo, come movimento impuro ed equivoco.
    Direi che ancora più istruttiva è tutta la parte – una parte essenziale – che il quotidiano dedica alla lotta operaia nelle fabbriche contro l’ondata di licenziamenti, economici e politici, che scatena il grande padronato, con la Fiat in testa; giorno per giorno, si vede come la lotta si sviluppi, come il fronte operaio sia costretto ad arretrare, come si debba subire una serrata che stronca l’avanguardia. Siamo nel maggio del 1921. Ed è allora che Gramsci scrive il famoso articolo Uomini di carne ed ossa.
    È un articolo citato spesso anche se non sempre a proposito. La sua importanza la si coglie appieno solo vedendo il giornale, la drammaticità di quelle ore, l’affanno di una lotta che di giorno in giorno si rivelava più impari. Gli operai resistettero per un mese, letteralmente affamati, isolati, «immersi – scriveva appunto Gramsci – in un ambiente generale di stanchezza, di indifferenza, di ostilità». Il rivoluzionario riflette questo dramma e scrive una pagina che basterebbe da sé e caratterizzarlo come tale. L’articolo finisce con queste frasi che danno ancora un brivido di emozione rilette oggi, cinquant’anni dopo: «La classe operaia italiana è livellata sotto il rullo compressore della reazione capitalistica. Per quanto tempo? Nulla è perduto se rimane intatta la fede, se i corpi si arrendono ma non gli animi. Gli operai della Fiat per anni ed anni hanno lottato strenuamente, hanno bagnato del loro sangue le strade, hanno sofferto la fame e il freddo; essi rimangono per questo loro passato glorioso all’avanguardia del proletariato italiano, essi rimangono militi fedeli e devoti alla rivoluzione. Hanno fatto quanto è dato di fare a uomini di carne ed ossa; togliamoci il cappello dinanzi alla loro umiliazione, perché anche in essa è qualcosa di grande che si impone ai sinceri e agli onesti».
    L’importanza dell’atteggiamento morale e politico che lo stile di Gramsci qui svela credo non vada solo colta nella tragica altezza del tono che il direttore riesce a raggiungere in questo episodio. È tutto un modo di guardare al proletariato, con fiducia, con chiarezza, con verità, che le pagine del quotidiano riflettono continuamente. E che insegnano molto non solo ai compagni, ai militanti ma agli intellettuali che seguono l’opera del giornale. Un uomo come Gobetti, ad esempio, non dimenticherà quello stile appreso nelle stanze di via Arcivescovado. Se si vanno a rileggere alcuni scritti del direttore di Rivoluzione liberale, di due o tre anni dopo, la ispirazione gramsciana appare clamorosa. E degno di Gramsci sarà il giovane rivoluzionario liberale che esalterà il contegno degli operai della Fiat, nel 1923, quando Mussolini andrà a visitare la Lingotto, invitatovi da Agnelli (in ringraziamento della nomina a senatore venuta subito dopo la marcia su Roma) e che, quando scriverà la famosa lettera a una amico di Parigi, nel 1925, gli dirà che bisogna rendere onore al proletariato torinese.
    Beninteso, nelle cronache, nei corsivi, negli editoriali dell’Ordine Nuovo, non c’è soltanto un’epopea. C’è la vicenda quotidiana di una polemica aspra, portata fino al parossismo degli insulti personali, condotta contro il partito socialista (e Gramsci e Togliatti, nella bisogna, sono non meno duri e corrosivi, e a volte francamente monotoni, di Bordiga o dei suoi collaboratori romani più vicini), contro i suoi uomini, Serrati in testa, tacciati di codardia, di tradimento, ecc. È il segno, per un aspetto, della violenza con cui la scissione di Livorno era stata vissuta, e continuata, per l’altro dell’errore gravissimo di continuare a considerare i «centristi» il nemico principale. E Lenin lo disse chiaro a Terracini a Mosca, al III Congresso dell’Internazionale: basta con questa lotta che sta diventando uno sport…
    Eppure, la collezione dell’Ordine Nuovo è, anche da questo punto di vista, un’utilissima lettura per mettere in guardia contro un settarismo e un estremismo che non possono se non condurre alla sconfitta (e va da sé che i socialisti, a loro volta, avevano responsabilità ancora più gravi per la loro inerzia, la loro sottovalutazione, quasi incredibile, dell’aggressività fascista, che si tradusse in una predicazione di viltà). Per seguire da vicino tutta la vita politica la seconda annata del giornale torinese, il 1922, non è meno interessante. È vero che, nel secondo anno, si assiste a una diaspora dei maggiori dirigenti del giornale. Gramsci parte per Mosca. Pastore va al Lavoratore di Trieste, Togliatti va a Roma a fare Il comunista quotidiano, ed è sostituito da Leonetti come redattore-capo. Ma L’Ordine Nuovo non cessa di esercitare una funzione positiva. Nella seconda annata, in specie nell’estate del 1922, che vede l’ultimo disperato soprassalto di resistenza armata al fascismo, la sensazione della guerra civile sempre più dura ti viene incontro da quei titoli di battaglia a tutta pagina, da quegli articoli di incitamento un po’ accorati, con l’evidenza di un film. Basti citare le cronache della disperata lotta di Novara, nel luglio-agosto.

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    Predefinito Re: [“L’Ordine Nuovo”]: un giornale di pensiero (1972)

    Il primo modello di quotidiano comunista

    Ci sarebbero molte altre cose da notare su quel primo modello di quotidiano comunista. Ad esempio, accanto al costume di modestia straordinario mostrato dalla redazione (Gramsci non firmava quasi mai, Togliatti si limitava a siglare qualche editoriale) si avverte la natura di un giornale che è, sì, radicato nella città e nella regione in cui si stampa, ma non è per niente provinciale. È, ad esempio, in una misura ignota in Italia, il giornale dell’Internazionale comunista, il giornale dell’internazionalismo rivoluzionario. La terza pagina serve essenzialmente a far conoscere posizioni e situazioni del proletariato europeo dei vari paesi e, in primo luogo, la vita della giovane Repubblica dei Soviet. Trovate spesso le firme di Carlo Radek, di Gregorio Zinoviev, di Victor Serge, trovate anche l’eco del movimento del «Proletkult» russo. Calosso ha sostituito Gobetti (certo il secondo non valeva il primo) ma l’attenzione ai problemi di cultura non è scomparsa. Il giornale è sulle barricate e non per nulla, dopo la marcia su Roma, L’Ordine Nuovo, soppresso nell’edizione legale, o meglio, occupato illegalmente dai fascisti, è il primo giornale clandestino del partito comunista. Si riesce infatti a stamparne ben 26 numeri alla macchia (in qualche edicola, si distribuisce sottobanco, e il giornale venne persino spedito agli abbonati!).
    L’iniziativa degli Editori Riuniti va quindi accolta come un’ottima occasione di riflessione politica e culturale. Il prezzo, necessariamente (140.000 lire per quattro volumi) non è accessibile alle borse dei singoli compagni. Però, il discorso cambia per le biblioteche e per le organizzazioni di partito. Una collezione come quella dell’Ordine Nuovo non è tanto un ornamento per una bacheca di sezione quanto uno strumento che può invogliare molti giovani a fare studi, ricerche, dibattiti. È un mezzo per continuare quel lavoro che nel cinquantenario si è intrapreso e che, per dare frutti, va proprio esteso a un approfondimento storiografico, critico, che oggi è più necessario che mai. Possiamo essere fieri che i giovani di oggi vedano con i loro occhi il primo quotidiano che i comunisti abbiano fatto in Italia, quel giornale che, tra gli operai e le guardie rosse, Gramsci e i suoi compagni preparavano ogni notte per i compiti dell’ora ma anche per la prospettiva di domani.

    Paolo Spriano

    https://musicaestoria.wordpress.com/...pensiero-1972/
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