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    Predefinito Al di qua e al di là di Gramsci (1972)

    di Valentino Gerratana - «Il Contemporaneo», in «Rinascita», a. XXIX, n. 17, 28 aprile 1972, pp. 18-19.

    Presentando, due anni or sono, una pregevole raccolta di scritti gramsciani di Leonetti (note, testimonianze, polemiche, discussioni), Enzo Santarelli osservava che la storia delle interpretazioni di Gramsci e dei dibattiti che ne sono stati stimolati «è storia politica e storia della cultura, e soltanto guardando in concreto ai nessi continui fra i due aspetti, distinti ma non separati, potrà essere ricostruita e restituita nel suo autentico significato»[1]. L’osservazione è da condividere sostanzialmente, ma conviene forse fare un posto a parte ai casi in cui quei due aspetti non sono né separabili né distinguibili e risultano quindi appiattiti in una confusione interscambiabile di cattiva politica e cattiva cultura. È per questa ragione che merita una particolare segnalazione, tra i numerosi contributi che in questi primi mesi del 1972 hanno arricchito il dibattito su Gramsci[2], un singolare saggio apparso sull’ultimo numero degli eclettici Quaderni piacentini.
    Non è la prima volta che Gramsci viene messo sotto accusa come legittimo padre della «linea riformista» dell’attuale gruppo dirigente del PCI: ma l’autore di questo saggio, Giacomo Marramao, pur non tralasciando di citare abbondantemente buona parte dei suoi predecessori, ha saputo aggiungere a quell’atto di accusa alcune note significative di personale inconseguenza. Se fosse vero, come scrive il Marramao (con un tono, in realtà, eccessivamente asseverativo) che negli ultimi tre anni «la situazione di classe ha posto in termini pratici, fattuali, il processo di distacco dalle analisi gramsciane», bisognerebbe concludere che occuparsi ancora di Gramsci significa in definitiva perdere tempo. Marramao invece lamenta l’abbandono, da parte della cosiddetta «sinistra teorica» italiana, della polemica «sul problema-Gramsci». Una spiegazione di tale incongruenza si trova forse in un rapido accenno, dove la situazione attuale del movimento di classe è definita come fase di «pausa relativa». Non avendo dunque niente di meglio da fare i ricostruttori teorici dell’autentico marxismo sono invitati ad attardarsi in una ennesima resa dei conti «che vada alle radici della dottrina gramsciana, fuggendo alle innumerevoli suggestioni che la sua indubbia complessità può stimolare».

    Accademismo di sinistra

    Per sottrarsi a queste suggestioni e risalire alle radici della dottrina gramsciana, Marramao non esita a scoprire in Gramsci un teorico ante litteram degli «opposti estremismi» e del «produttivismo» riformista, in accordo con un giovane studioso tedesco che ha parlato da parte sua del «bernsteinianismo» di Gramsci. Si capisce a questo punto come polemica politica e trivialità culturale siano non solo connesse, ma coincidano senza residui. Il giovane studioso tedesco è Christian Riechers, che si è occupato di Gramsci scrivendo un libro[3] di cui critici ed editori italiani (tutti infeudati, secondo la tesi cara alla Destra nazionale, alla Sinistra ufficiale) si sono finora disinteressati. Marramao se ne lamenta, ma pur servendosi con liberalità del contenuto del libro, sente il bisogno di prendere in qualche modo le distanze da esso. L’analisi è giudicata «accurata», ma «talvolta anche eccessivamente pedante e puntigliosa», per cui sembra che le tesi gramsciane siano sottoposte più a un «processo giudiziario» che a una critica scientifica. A questo riguardo in realtà non pare che Marramao abbia maggiori scrupoli del suo collega tedesco, al quale rimprovera soprattutto un residuo di accademismo, che si rivelerebbe nello «scolasticismo della forma». Si offre però un’immagine edulcorata dell’accademismo quando lo si presenta come «scolasticismo della forma». L’accademismo è vuoto di sostanza culturale ricoperto dalla correttezza impeccabile della forma esteriore. La «scolasticismo della forma» appartiene piuttosto ai principianti: ma un buon principiante – come mostra l’esempio dello stesso Marramao, conosciuto finora come tale – non tarda ad acquisire rapidamente le disinvolte virtù dell’accademico.
    Non è escluso che simili esercitazioni dell’accademismo «di sinistra» riescano ad avere una certa fortuna perché offrono il vantaggio di presentare formule non prive di eleganza nella loro sostanziale grossolanità e facili da ripetere. Tale è ad esempio la formula secondo cui, mentre Gramsci si limiterebbe a proporre l’alternativa tra metafisica e prassi, il connotato essenziale del marxismo rivoluzionario consisterebbe nell’opporre alla filosofia la scienza. È legittimo tuttavia dubitare che l’esaltazione della scienza, soprattutto quando diventa il comodo surrogato di una effettiva pratica scientifica, basti ad assicurare il progresso del marxismo. Esaltare le virtù taumaturgiche della scienza, in contrapposizione alle discreditate virtù taumaturgiche della filosofia, significa dimenticare una precisa avvertenza di Marx nella prefazione all’edizione francese del Capitale: «Per la scienza non c’è via maestra, e hanno probabilità di arrivare alle sue cime luminose soltanto coloro che non temono di stancarsi a salire i suoi ripidi sentieri». Per Marramao il rifiuto dell’ideologia gramsciana e dei suoi difficili sentieri dovrebbe infine permettere di imboccare la «via maestra» della scienza con «l’impiego massiccio» di giovani forze intellettuali formatesi «al di là di Gramsci». Piuttosto avaro di chiare indicazioni specifiche, su di un punto almeno il nostro giovane teorico socchiude un piccolo spiraglio per fare intravvedere qualcosa di questo «al di là». Vediamo dunque di seguirlo.

    Centralità dell’egemonia

    L’attacco al gramscismo come concentrato di tutte le nequizie teoriche, diventa più intelligibile quando si esprime nel rifiuto della tematica gramsciana dell’egemonia. In un paese capitalistico sviluppato, afferma Marramao, la funzione egemonica, etico-pedagogica, del «moderno Principe» è diventata impensabile, perché «una strategia tendente a realizzare la direzione egemonica attraverso il “consenso” è messa continuamente in crisi dal continuo rivoluzionamento che il capitale impone al processo produttivo e alla stessa dinamica “sovrastrutturale”, con la frantumazione della tradizione culturale e, quindi, della possibilità d’identificazione del “nazional-popolare”. Il discorso è chiaro e corrisponde infine, bisogna riconoscerlo, a un dato reale. Ma le implicazioni che ne ricava Marramao tornano ad essere fumose e generiche. Limitandosi ad invocare una «ricostruzione della teoria rivoluzionaria» che parta dalla nuova situazione operaia prodotta dallo sviluppo capitalistico, egli si rifugia, ancora una volta, in una formula esortativa vuota di contenuti, con l’aggravante di liquidare il problema reale posto da una pericolosa situazione di fatto.
    Ma il fatto non è un fato, giacché è sempre legato a un problema aperto a diverse soluzioni. Così il fatto che una strategia rivoluzionaria mirante a realizzare la direzione egemonica della classe operaia attraverso il consenso sia messa in difficoltà dalla tendenza alla frantumazione culturale, indotta dal moderno sviluppo capitalistico, può dar luogo a due opposti atteggiamenti: a un abbandono della tematica gramsciana dell’egemonia, e quindi a una rinuncia alla funzione egemonica, etico-pedagogica perché politica, del «moderno Principe» - il che vuol dire praticamente (fino a quando almeno non sia «ricostruita» quell’araba fenice della «nuova teoria rivoluzionaria») lasciar libero corso alle tendenze spontanee che permettono la sopravvivenza del sistema capitalistico – oppure a una ricerca dei limiti che ora incontra il piano previsto per lo sviluppo della funzione egemonica, ed anche degli eventuali errori che possono essere stati commessi nell’interpretare e nell’organizzare le condizioni necessarie ad una efficace lotta per l’egemonia.
    Nel primo caso si è «al di là» di Gramsci (e lì possiamo per il momento lasciare Marramao e i suoi amici), nel secondo caso restiamo «al di qua», e comprendiamo che il confronto con Gramsci ci occorre più che mai.
    Il che non vuol dire sentirsi sicuri sul terremo del «gramscismo». In realtà questa del gramscismo è una leggenda che ora si tenta di accreditare con segno negativo, dopo essere stata liquidata nella sua versione positiva alimentata da particolari vicende storiche (di cui non serve ricordare ad ogni momento le luci e le ombre). Del resto, anche nei tempi della «leggenda», il partito di Gramsci ha sempre ben poco concesso all’esercizio religioso di un «culto». Abbiamo sempre saputo che Gramsci poteva aiutarci ad affrontare i problemi del nostro tempo, ma non pensavamo certo che i suoi scritti potessero risolverli per noi. Oggi però siamo diventati più consapevoli della necessità di evitare facili semplificazioni riduttive, cioè in definitiva un uso «accademico» di alcune formule gramsciane che qualche volta servivano solo a coprire i pigri vuoti dell’analisi. E da ciò deriva la maggiore ricchezza odierna del dibattito e delle ricerche intorno ai temi gramsciani. Ricondurre tutto ciò a generico gramscismo è manifestamente assurdo, dal momento che non si può non riconoscere in questo terreno (dell’«al di qua» di Gramsci) una molteplicità di posizioni che non corrisponde soltanto a un diverso livello di coscienza, di approfondimento e di maturazione, ma esprime in alcuni casi un bisogno rischioso di ricerca non ancora giunto a compimento e di cui quindi non si può dire in anticipo se giungerà ad esiti fecondi.

    (...)


    [1] A. Leonetti, Note su Gramsci, Urbino, Argalia, 1970, p. 7.

    [2] In particolare abbiamo presente: G. Marramao, «Per una critica dell’ideologia di Gramsci», in Quaderni piacentini, n. 46, marzo 1972, pp. 792; M. L. Salvadori, «Politica, potere e cultura nel pensiero di Gramsci, in Rivista di storia contemporanea, n. 1, gennaio 1972, pp. 6-30; E. Sereni, «Blocco storico e iniziativa politica nell’elaborazione gramsciana e nella politica del PCI», in Critica marxista, Quaderni, n. 5 (supplemento al n. 1 del 1972), pp. 3-20; M. Spinella, «Sul blocco storico in Gramsci» in Utopia, febbraio 1972, pp. 9-14; H. Portelli, Gramsci et le bloc historique, Paris, Presses Universitaires de France, 1972, pp. 175; L. Gruppi, Il concetto di egemonia in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1972, pp. 175; A. Broccoli, Antonio Gramsci e l’educazione come egemonia, Firenze, La Nuova Italia, 1972, pp. 305.

    [3] Ch. Riechers, Antonio Gramsci. Marxismus in Italien, Frankfurt-am-Main, Europäische Verlagsanstalt, 1970.
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    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Al di qua e al di là di Gramsci (1972)

    La rivoluzione in occidente

    Sul versante opposto a quello di Marramao si colloca il francese Hugues Portelli con un’agile e compatta monografia (Gramsci et le bloc historique), che può essere tanto più apprezzata se si trascrivono in termini approssimativi le conclusioni che l’autore presenta in modo eccessivamente apodittico. Anche il metodo di approccio per l’indagine – un tentativo di ricostruzione sistematica del concetto gramsciano di «blocco storico» in tutte le sue implicazioni – merita forse qualche riserva. Ma è più importante segnalare le conclusioni. Per Portelli l’analisi gramsciana «è il solo vero tentativo marxista di porre globalmente la questione del passaggio al socialismo nei paesi occidentali»; e in questo senso egli può dire anche che Gramsci «completa» Marx e Lenin. Portelli tuttavia non trova che lo «schema» gramsciano «sia stato applicato nei paesi occidentali» e attribuisce a questa mancata applicazione il fatto che le organizzazioni politiche della classe operaia vi siano rimaste minoritarie. I suoi argomenti sono in realtà un po’ troppo sommari, ma non si può negare che certe osservazioni risultano tutt’altro che prive di fondamento: come quella che richiede maggiore attenzione per i rischi del trasformismo sottolineati costantemente da Gramsci. È chiaro tuttavia che a questo livello la denuncia rimane generica e priva di mordente critico fino a quando non si trasforma in un’analisi circostanziata di precise scelte politiche e organizzative. Inoltre, se non vi è motivo di attribuire al Portelli l’ingenuità di pensare che è con la semplice applicazione di un perfetto schema teorico che si risolve il problema di fondere teoria e pratica politica, si deve riconoscere che il compito principale resta ancora da affrontare, anche ai fini di una più chiara definizione teorica, e che lavori come questo di Portelli possono servire a questo scopo solo da stimolo.
    Nello stesso modo vanno anche accolte positivamente le osservazioni di Emilio Sereni che – nell’articolo citato dell’ultimo «Quaderno» di Critica marxista – sottolinea la necessità d’integrare come momento essenziale della teoria gramsciana del «blocco storico» il momento dell’iniziativa politica. Il richiamo alla polemica tra Roger Garaudy e Giorgio Napolitano sulla proposta di una «nuovo blocco storico» (la polemica è ricordata, per quanto con accenti diversi, sia da Sereni che da Portelli) è da questo punto di vista illuminante. Una proposta riduttiva di iniziativa politica trascina inevitabilmente con sé una interpretazione riduttiva e mistificante dello stesso concetto gramsciano di «blocco storico»: in questo senso le obiezioni di Napolitano e di Garaudy colgono perfettamente il segno. Ma non si può dire certo l’inverso. Da una perfetta teoria dell’iniziativa politica, integrata correttamente nel concetto di «blocco storico», non scaturisce automaticamente una efficace iniziativa politica, la cui scelta può venire solo da una specifica analisi sovrastrutturale adeguata al livello della concreta situazione strutturale. L’unità di struttura e di sovrastruttura, implicata da Gramsci nel concetto di blocco storico, non toglie che i momenti di questa unità rimangano diseguali. La filosofia della prassi procede dalla prassi e non dalla filosofia. Se si perde di vista questo aspetto fondamentale del materialismo storico, l’uso delle formule gramsciane diventa non solo riduttiva ma anche fuorviante, non solo «accademico» ma banalmente trasformistico. L’esempio di Garaudy non è il solo, anche se molti altri casi sono passati troppo spesso sotto silenzio: come l’esortazione propagandistica a «fare politica», al posto del chiarimento delle condizioni in cui determinate scelte politiche riescono a diventare veicolo di una direzione egemonica.
    Il concetto di «direzione egemonica» - il principio gramsciano di egemonia – non è quindi di per sé evidente. Non basta evocarlo per farne un uso corretto. Solo attraverso uno studio approfondito di tutta l’opera di Gramsci – dagli scritti giornalistici ai Quaderni – sarà possibile infine abbandonare la cattiva abitudine di limitarsi, come è stato fatto, alla «ricerca delle “massime” gramsciane da applicare, o da coinvolgere, nella fattispecie concreta» di cui ci si sta occupando. L’osservazione è di Angelo Broccoli, autore di un libro (Antonio Gramsci e l’educazione come egemonia) che è certo fra i contributi più importanti all’impegno di ricerca intorno alla tematica gramsciana, al di là del settore pedagogico che è l’oggetto specifico dell’indagine. Broccoli sa bene che l’opera di Gramsci non è un albero di Porfirio, dove si possa isolare tra i tanti rami quello pedagogico per studiarlo meglio nella sua particolare configurazione: rifiutando il metodo di una lettura settoriale dei testi gramsciani, egli ha scelto una più feconda ipotesi di lavoro che si propone di ritrovare nell’intreccio unitario, pur nella tensione di motivi discordi, il valore più autentico di una teoria gramsciana[1]. Il progetto è perseguito in modo conseguente, con un lavoro approfondito di scandaglio in tutte le direzioni, dai testi di Gramsci alle sue fonti, e non sarebbe qui possibile valutarne i risultati (che sono del resto in gran parte aperti esplicitamente ad ulteriori e più ampie ricerche e a più attente verifiche). Interessa invece sottolineare la validità di un metodo che consente di illuminare, insieme alla teoria educativa di Gramsci, la portata spesso insospettata che assume la sua tematica della egemonia. Ponendo al centro di questa tematica il momento dell’egemonia come «rapporto pedagogico» non solo si dissolve ogni possibile versione paternalistica dell’educazione (a cui, ad esempio, il Marramao sembra tuttora legato: e i termini «educativo» o «pedagogico» acquistano in questo caso un curioso senso dispregiativo), ma al tempo stesso si battono tutte le concezioni paternalistiche della politica e le stesse ipotesi deterministiche della struttura economica. La natura del «rapporto pedagogico» investe ugualmente, in questa visione, sia il rapporto maestro-allievo che quello dirigenti-diretti e intellettuali-masse: non per perpetuarsi come rapporto inevitabile di dipendenza, ma al contrario per dissolversi come tale.
    In polemica con Nardone e con il suo irrigidimento della teoria del partito, Broccoli cita opportunamente il passo dei Quaderni, dove questa prospettiva è non solo chiaramente enunciata, ma presupposto di tutto il resto: «È vero che si può dire che un partito non è mai compiuto e formato, nel senso che ogni sviluppo crea nuovi compiti e mansioni e nel senso che per molti partiti è vero il paradosso che essi sono compiuti e formati quando la loro esistenza è diventata storicamente inutile. Così, poiché ogni partito non è che una nomenclatura di classe, è evidente che per il partito che si propone di annullare la divisione in classi, la sua perfezione e compiutezza consiste nel non esistere più, perché non esistono classi e quindi loro espressioni». Si elimini nella teoria dell’egemonia la ricerca del consenso, e tutta questa prospettiva rovina come un castello di carte. Basti del resto pensare che la ricerca del consenso nella tematica gramsciana dell’egemonia è necessaria sia per la guerra di posizione che per la guerra di movimento, e che è deformante, come osserva giustamente Portelli, vedere nella concezione gramsciana della guerra di posizione solo il rifiuto (del resto parziale e non irreversibile) della guerra di movimento.

    Impostazione politico-pedagogica

    Nella stessa direzione si muove M. L. Salvadori nel suo saggio su Politica, potere e cultura nel pensiero di Gramsci. «Una impostazione – egli scrive – che si fondava tutta contro ogni pedagogismo paternalistico, contro la volgarizzazione, contro la tradizione gesuitica della doppia verità, non poteva non impostare dovunque la questione della verità e del rapporto che di fronte ad essa devono avere tutti i gruppi sociali impegnati nel processo rivoluzionario come una questione di significato strettamente e rigorosamente politico». Deriva da questa impostazione il rapporto tra principio dell’egemonia e concezione marxista. Il rapporto egemonico esiste nell’esperienza storica ancora prima del sorgere del marxismo, come strumento di governo delle classi dominanti; ma è solo con il marxismo che acquista il carattere di un nuovo rapporto pedagogico. «La filosofia della prassi – afferma Gramsci in un passo citato parzialmente da Salvadori – non tende a risolvere pacificamente le contraddizioni esistenti nella storia e nella società, anzi è la stessa teoria di tali contraddizioni; non è lo strumento di governo di gruppi dominanti per avere il consenso ed esercitare l’egemonia su classi subalterne; è l’espressione di queste classi subalterne, che vogliono educare se stesse all’arte di governo e che hanno interesse a conoscere tutte le verità, anche le sgradevoli, e ad evitare gli inganni (impossibili) della classe superiore e tanto più di se stesse»[2].
    Che questa metodologia politico-pedagogica non abbia trovato finora adeguati sviluppi, e che sia stata invece occultata nella pratica politica da grosse sacche di regressione, non è motivo atto a sminuire la validità dell’impostazione gramsciana, e serve anzi a sottolinearne la virtualità potenziale per aiutarci a rimuovere gli ostacoli che ingombrano ancora il nostro cammino. Salvadori conclude parlando di un «margine di ambiguità» che sussisterebbe a questo proposito in Gramsci come in Lenin. Margini di ambiguità sono certo connaturati ad ogni pedagogia di ricerca che riesca ad individuare i problemi da risolvere, invece di costruire astratti modelli che ci sollevino da ogni responsabilità nelle scelte che ci competono per la nostra parte.
    La grandezza tormentata di Gramsci è anche in questo: nella sua capacità di avvicinarsi ai nostri dubbi per offrirci la possibilità di raggiungere la sue certezze.

    Valentino Gerratana


    [1] Basti pensare che le famose note sul «principio educativo», su cui di solito il pedagogista è portato ad appuntare la sua attenzione, sono qui giudicate, almeno per alcuni passi, «tra le meno significative ed originali dei Quaderni».

    [2] A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, Torino, Einaudi […], p. 237.
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