«Rinascita», a. XXX, n. 10, 9 marzo 1973, pp. 12-13.
Il colloquio con Rosario Villari, che qui pubblichiamo, apre una serie di conversazioni di Rinascita con gli storici marxisti. Questa nuova inchiesta nasce, prima di tutto, dal desiderio e dalla necessità di informare ampiamente i lettori intorno allo «stato» della ricerca storiografica nel momento in cui si rinnova, specie da parte dei giovani, e non soltanto dentro le università, una domanda nuova di storia; e, in secondo luogo, dal desiderio di aprire in maniera diretta le colonne della rivista del partito alla discussione tra gli storici.
Qual è in questo momento l’oggetto del dibattito e della ricerca tra gli storici? Quale giudizio ciascuno degli studiosi dà della propria opera, della storiografia marxista uscita dalla guerra di liberazione e, più in generale, della storiografia più giovane? Si può dire che storiografia «comunista» e storiografia marxista coincidano? E ancora: quale rapporto va istituito tra storia economica e storia politica? Quale è stato negli ultimi venticinque anni e quale è oggi il rapporto tra storia contemporanea e storia del movimento operaio, tra storia del partito comunista e storia d’Italia, tra storia del partito e storia del socialismo, tra storia dello Stato unitario italiano e storia del tempo in cui viviamo? A queste e analoghe altre domande, saranno gli stessi storiografi marxisti e comunisti a rispondere su queste colonne. Essi ci diranno se e come il loro lavoro di questi anni ha risposto a quel nuovo bisogno di ricerca storica di cui l’ultima generazione si è fatta portavoce.
A questo colloquio con Rosario Villari ne seguiranno altri: tra i primi, quelli con Giuliano Procacci, Ernesto Ragionieri, Leonardo Paggi, Franco De Felice, Gastone Manacorda.
1. Colloquio con Rosario Villari
Il rapporto con il partito
Rinascita. A Rosario Villari, ordinario di storia moderna nell’Università di Firenze, poniamo le seguenti domande: qual è il rapporto tra il partito e la storiografia in generale e tra il partito e la storiografia marxista in particolare? C’è stata, in questi anni, da parte del partito, una reale richiesta di analisi storica?
Villari. Questo rapporto si è instaurato, dopo la caduta del fascismo, sulla base dell’esigenza del partito di collegare l’elaborazione della sua politica con una riflessione «scientifica» sulla società italiana. Il partito mirava non soltanto a chiarire la propria storia interna ma anche e soprattutto a sollecitare un ripensamento del processo generale di sviluppo e dei «caratteri originali» del paese, degli elementi costitutivi della storia nazionale e dei suoi legami col resto del mondo. C’è stata una piena disposizione ad accogliere indicazioni e risultati del lavoro storiografico, ad appagare in modo nuovo, cioè attraverso un rapporto articolato con una cultura in movimento ed in via di rinnovamento, quella sete di conoscenza storica che è stata sempre una caratteristica dei dirigenti e dei militanti del movimento operaio. Mi pare di dover sottolineare il fatto che, anche se un gruppo di giovani studenti marxisti si è orientato, all’inizio degli anni ’50, verso lo studio della storia del movimento operaio, talvolta concepito in modo ristretto e subalterno, la sollecitazione che veniva dal partito, direttamente o indirettamente, era indirizzata verso un impegno più ampio; un impegno ad affrontare da una parte i grandi problemi della vita nazionale, e quindi i modi e i temi anche lontani dalla loro formazione, e dall’altra il rapporto tra cultura storica e orientamenti della coscienza politica collettiva. È superfluo dire che la storiografia offriva un campo particolarmente importante ad un’opera di demistificazione che l’eredità culturale dal fascismo rendeva necessaria. Il partito ha seguito quindi con interesse costruttivo l’attività storiografica, sottolineandone i risultati nuovi e incoraggiando la giusta distinzione tra storiografia e politica immediata e, nello stesso tempo, il legame tra l’indagine storica e la realtà attuale, anche se vi erano alcuni importanti campi di indagine (come, per fare l’esempio maggiore, la storia dell’URSS e della rivoluzione bolscevica) di fronte ai quali questi criteri-guida venivano meno e si oscuravano. Lasciando da parte la funzione e l’opera di Togliatti (che richiederebbero un discorso complesso e approfondito), si può ricordare a questo proposito qualche fatto significativo: il sostegno e l’incoraggiamento dati da Mario Alicata alla fondazione di Studi storici, l’iniziativa presa da Di Vittorio della creazione di un centro di studio della storia sociale delle campagne, il diretto e fondamentale contributi di Emilio Sereni a iniziative che hanno rappresentato momenti importanti del dibattito e della ricerca storica (oltre, s’intende, il suo personale apporto diretto alla storiografia), i convegni e il lavoro organizzativo dell’Istituto Gramsci, ecc. Mi piace ricordare anche la decisione di Cronache meridionali – una rivista politica – di dedicare una parte non piccola del suo spazio e del suo impegno ad un primo tentativo di ricostruzione storica della questione meridionale. Oggi è universalmente riconosciuto che non aveva fondamento l’accusa, fatta con insistenza al partito ed agli storici comunisti in tempi di maccartismo, di voler subordinare la ricerca a ragioni immediatamente politiche. Ben altro e ben più fecondo e positivo è stato, fin dall’inizio, il rapporto tra partito e storiografia. Si può dire che l’attenzione alla cultura storica e la riflessione sulla storia del nostro paese sono state elementi non secondari dell’elaborazione politica della «via italiana al socialismo» ed hanno così contribuito a caratterizzare e distinguere, nel panorama della lotta politica del secondo dopoguerra, un modo di far politica proprio dei comunisti, cioè un modo ricco di implicazioni e di contenuti culturali. È stata anche questa impostazione che, in generale, ha permesso al partito di affrontare positivamente e di superare la crisi che gli avvenimenti del 1956 hanno provocato nel rapporto con gli intellettuali.
Sulla base di questo scambio fecondo, che non si è verificato soltanto sul terreno della storiografia politica e sociale e che ha avuto come essenziale punto di riferimento l’opera di Gramsci, è stata esercitata una critica efficace degli orientamenti e delle posizioni tradizionali della storiografia, è stata superata, si può dire in maniera definitiva, una visione aulica, tendenziosa e provinciale della formazione dello Stato italiano ed è stata operata una serie di collegamenti con la cultura storica degli altri paesi. In qualche misura – cioè nei limiti in cui il superamento di determinati miti storiografici e metodi di ricostruzione della storia può influire sulla mentalità generale – la storiografia ha contribuito alla formazione ed allo sviluppo della coscienza democratica del paese, ha operato, in modo più ristretto ma forse di più lunga e costante durata, nello stesso senso in cui hanno operato altre e più clamorose manifestazioni della cultura e dell’arte italiana all’indomani della seconda guerra mondiale. Il lavoro si è svolto prevalentemente in due direzioni: da una parte si è realizzato il recupero alla storia, l’inserimento nella visione complessiva della storia nazionale, di settori (la classe operaia, i contadini) che nella visione ufficiale erano rimasti nell’ombra, come semplici oggetti o elementi poco significativi del processo storico. In questo modo si sono poste, tra l’altro, le basi per una giusta valutazione della lotta contro il fascismo e della nascita dello Stato democratico, in quanto si è potuto chiarire nella sua genesi e nel suo profondo significato il ruolo che in quegli avvenimenti decisivi hanno assunto le classi popolari. Tale «recupero» poneva naturalmente una serie di problemi metodologici che sono stati affrontati e risolti soltanto in parte. In generale, le classi popolari sono state studiate soprattutto nelle loro manifestazioni politiche e non come entità collettive, con i loro orientamenti culturali, religiosi, di costume, di mentalità, con determinati rapporti sociali interni e con altre classi ecc. Una corrente di studi in quest’ultima direzione, nel campo della storia contemporanea, si va delineando soltanto da poco, ma al di fuori del gruppo degli studiosi che si occupano del movimento operaio (uno dei temi che sono stati affrontati di recente è il comportamento delle masse popolari durante la grande guerra). Dall’altra parte, si è avviato un riesame critico del giudizio sulla natura della classe dirigente nazionale, sul modo della sua formazione, sui suoi legami politici e ideali, sulle sue tradizioni, e si è promosso uno studio nuovo (che aveva soltanto pochi precedenti nella cultura storica nazionale) delle strutture economiche, dei rapporti tra le classi sociali, dell’organizzazione della cultura e della sua funzione sociale. Anche se, all’inizio, il primo aspetto ha avuto la prevalenza, credo che in definitiva la storiografia marxista abbia dimostrato nel secondo aspetto maggiore incisività, spaziando dalla storia antica a quella dell’età moderna e dell’età contemporanea. C’è stato anche, contemporaneamente, un certo sforzo per allargare la tematica al di là dei confini nazionali; ma questo rimane ancora uno dei punti deboli della storiografia italiana in generale, e anche di quella marxista.
Oggi, però, la situazione è diversa. Mentre il patrimonio della storiografia marxista rimane valido e si accresce continuamente, l’atteggiamento del partito sembra in una certa misura, di fatto, cambiato. La richiesta di analisi storica, per usare la tua puntuale espressione, si è fatta sentire particolarmente in un determinato settore. Il partito ha avvertito l’esigenza di ripensare soprattutto la sua stessa storia e, in parte, di rivedere i giudizi su se stesso, sulle proprie origini, anche in funzione di esigenze attuali. Ciò è avvenuto anzitutto in funzione di una maggiore disponibilità alla collaborazione con gli altri partiti del movimento operaio e con le forze democratiche e popolari cattoliche ed in funzione di una nuova concezione dell’internazionalismo proletario: questi sviluppi della linea politica del partito hanno imposto, per così dire, un riesame delle tradizioni del socialismo italiano, della scissione di Livorno e via via di tutta la storia del comunismo italiano, hanno sollecitato la scoperta delle sue peculiarità e del suo ruolo specifico nell’ambito della Terza Internazionale. Ma un’altra spinta, forse non meno importante, è venuta anche dalla necessità di difendersi dagli attacchi «a scoppio ritardato» dei gruppi di ultra-sinistra e soprattutto dalla necessità di difendersi dai tentativi di porre sotto il segno dello «stalinismo» una parte troppo grande del passato del partito e dell’attività dei suoi dirigenti dal 1926 al 1953. Ciò ha dato risultati molto positivi, anche se gli studiosi hanno risposto spesso con eccessiva cautela e con troppe preoccupazioni «politiche» a quella domanda. Ha portato, per quanto riguarda specificamente la storia del partito, al definitivo superamento di una visione schematica e ufficiale, all’impostazione di nuovi problemi, ad una visione più concreta del legame tra vicende interne e attività complessive del movimento operaio internazionale. È stato un contributo prezioso non soltanto alla conoscenza che il partito ha di se stesso, ma anche alla conoscenza della storia generale del paese. Credo, tuttavia, che tutto ciò abbia anche un risvolto negativo.
L’interesse del partito si è come settorializzato; si è perduto o attenuato il gusto per una storiografia che si muova in un ampio arco di tempi e di problemi e che abbia come oggetto la società nel suo complesso, i processi di formazione di lungo respiro della realtà sociale, statale, politica, economica, culturale. Mi pare di poter notare, insomma, un restringimento di interessi nel rapporto tra partito e storiografia e credo che questa sorta di settorializzazione influisca negativamente sulla spinta egemonica della cultura marxista, creando un circuito chiuso (in cui sono coinvolte parzialmente le principali attività organizzative culturali sostenute dal partito e le iniziative culturali delle sezioni e delle federazioni) che dà soltanto l’illusione di uno sviluppo dell’influenza culturale. Bisognerebbe esaminare le ragioni del fenomeno che ritengo di dover segnalare e che per necessità di cose ho descritto in termini schematici: forse esse sono da ricercare in parte nel ritardo con cui i problemi della storia del partito sono stati affrontati criticamente. Ma vi è un altro aspetto sul quale mi pare che si debba richiamare l’attenzione: è il modo in cui si è venuta sviluppando, in generale, l’attuale corrente di interesse per la storia dei partiti e dei movimenti politici contemporanei in Italia. C’è una diffusa tendenza a ricostruire la storia dei partiti e dei loro gruppi dirigenti senza dare sufficiente rilievo al rapporto tra i partiti e la più complessa realtà sociale, politica, economica e culturale nella quale essi si muovono. C’è la tendenza, insomma, ad esaurire il discorso nella ricostruzione della vita interna, delle lotte tra gruppi e correnti; lotte che, astrattamente considerate (o valutate con indebiti e gratuiti accostamenti alle situazioni di oggi) diventano difficilmente comprensibili per il lettore comune, oscurate da una fastidiosa terminologia gergale, analogamente a quanto avviene in un certo settore del dibattito ideologico sul marxismo che non si pone come obiettivo la migliore conoscenza della realtà attuale ma si esaurisce nella diatriba sui «sacri testi». Sono molto diffidente verso una storia dei partiti che non tenga costantemente presente la totalità del processo storico e che non mantenga il necessario equilibrio tra l’analisi della vita interna della varie formazioni politiche e la visione dei problemi che interessano la vita collettiva. Mancando questo equilibrio, diventa incerta la stessa scelta del materiale documentario, e impossibile il giudizio sul significato delle vicende interne dei raggruppamenti politici. Per questa via si può giungere a vere e proprie aberrazioni ed a gravi distorsioni nel giudizio storico. È facile, a questo punto, la sovrapposizione di un criterio ideologico di giudizio, la distorsione dei fatti, la subordinazione dell’indagine a meschine o ingiustificate esigenze immediate. Ciò non è avvenuto soltanto in alcune opere recenti sul fascismo, ma anche in una parte delle opere che sono state dedicate a momenti e figure della storia del movimento operaio.
Rinascita. Si può parlare, qui in Italia, di una storiografia marxista? C’è stato un reale distacco dalla tradizione idealistica e, quindi, una ricerca della metodologia marxista?
Villari. Forse si dovrebbe parlare di una storiografia ispirata al marxismo, facendo l’ovvia osservazione preliminare che il segno distintivo di tale ispirazione non è il fatto di avere come oggetto la storia del movimento operaio, del socialismo e del comunismo. Proprio in questo campo di studi, del resto, non c’è un vero e proprio criterio per fare distinzioni di orientamento storiografico che non sia quello dell’appartenenza dei singoli studiosi a determinati raggruppamenti o organizzazioni; tant’è vero che le discussioni di «metodo» che si sono fatte su quei temi hanno avuto prevalentemente come argomento problemi elementari di correttezza di interpretazione, di conoscenza e uso del materiale documentario, di posizioni politiche, ecc. Certo, il fatto che vi sia un così largo interesse per la storia del movimento socialista è indubbiamente un segno del peso decisivo che quel movimento ha nella società contemporanea e quindi anche, indirettamente, del crescente peso del marxismo.
Qualche volta si è posto un problema: la storiografia marxista italiana è veramente tale o si deve invece parlare di storiografia genericamente democratica? Credo che questo sia un falso problema e che il tentativo di rispondere a questa domanda non sia di molto aiuto per orientarsi nel panorama, del resto non molto intricato, degli orientamenti della storiografia italiana. In Italia si è formata una corrente di studi storici, articolata e complessa, che, distaccandosi dalla tradizione idealistica, ha tratto dallo studio del marxismo, e in ispecie della tradizione italiana del pensiero marxista, dalle esperienze della storiografia marxista di altri paesi e dall’adesione politica del movimento operaio la spinta alla realizzazione del suo impegno di lavoro. Poiché in questo campo anche le intenzioni contano (in quanto esprimono una insoddisfazione per le soluzioni date dalle tradizionali correnti culturali) e poiché si tratta di una corrente cospicua di studiosi, questo solo fatto ha rappresentato una svolta nella nostra cultura; e invano la classe dirigente – che è consapevole dell’importanza di questi fenomeni e sa distinguere tra mode provvisorie e tendenze profonde – si è sforzata di usare i suoi mezzi di pressione per circoscrivere la ribellione. In Italia, d’altra parte, hanno avuto finora debole presa – e su questo punto bisogna dire che ha influito positivamente anche il pensiero crociano – quelle tendenze sociologizzanti e americaneggianti che altrove, e particolarmente in Francia, hanno rappresentato per alcuni studiosi marxisti lo sbocco della crisi subito dopo il 1956. Quanto alla realizzazione delle intenzioni, indubbiamente il cammino si è dimostrato, com’era logico, più difficile e faticoso di quanto si poteva prevedere nel momento del rifiuto e del primo tentativo di superamento delle linee tradizionali. Per alcuni si è trattato, come si è detto, di un cambiamento dell’oggetto dell’indagine, al quale si è accompagnata in misura più o meno grande la coscienza della necessità di affrontare nuovi problemi di metodo; il modo in cui alcuni giovani studiosi «extraparlamentari» si accostano oggi alla storia del movimento operaio fa pensare che il chiarimento del rapporto tra scelta dell’oggetto e mutamento del metodo non è stato sufficiente negli anni scorsi. Comunque, fino a qualche tempo fa, la storiografia marxista si è distinta, rispetto alle altre correnti, per la più aperta tendenza a stabilire collegamenti con altre discipline (originariamente con l’economia, ma poi anche con l’antropologia sociale, la sociologia, la linguistica, ecc.) e nello stesso tempo a respingere la subordinazione della ricerca e della problematica storica ai metodi ed ai problemi propri di quelle altre discipline; si è distinta anche per la pretesa di maggiore organicità nella analisi e nella ricomposizione dei vari elementi del processo storico (economici, politici, culturali) di fronte al settorialismo ed all’empirismo degli studiosi cattolici e di quegli storici che hanno tentato di dare una vernice di «socialità» all’idealismo storiografico. La sforzo di assimilazione della metodologia marxista caratterizza oggi, comunque, una parte importante, che non esiterei a definire la più viva, della storiografia italiana; né ci sono, mi pare, segni rilevanti dell’abbandono di questo orientamento da parte delle nuove generazioni.
Rinascita. Qual è il rapporto tra la storiografia marxista e la storiografia non marxista?
Villari. Permettimi di accennare soltanto ad un aspetto della questione, senza entrare nel merito dell’importanza delle diverse correnti e dell’influenza che l’una esercita sull’altra. Una volta accertato il fatto che vi è stata un’influenza del marxismo anche sulle correnti della cultura storica che hanno diverso orientamento e che questa influenza si è esercitata specialmente quando si è trattato di individuare i temi della ricerca e della discussione (tipico, per esempio, il caso della «questione contadina» nel Risorgimento), credo che non si possa sfuggire all’impressione di uno stato di disattenzione reciproca. Questo è forse il segno di una crisi della storiografia italiana, di una diminuzione del suo peso nel quadro complessivo della cultura e di una attenuazione della sua incidenza nell’elaborazione politica. La permanenza di zone di accademismo e di retorica, legate al mancato rinnovamento delle organizzazioni ufficiali (gli istituti storici nazionali, le società di storia patria ecc.), il prevalere del politicismo immediato e del settorialismo, il collasso dell’Università come centro di organizzazione della ricerca, la corruzione sottogovernativa anche in questo campo e infine la penosa inerzia di un organismo come la Società degli storici italiani non potevano non avere effetti mortificanti. Tutto ciò contrasta singolarmente con l’interesse crescente del pubblico e dei giovani per la cultura storica.
Rinascita. C’è un rinnovato interesse dei giovani per la storia?
Villari. Mi pare che l’interesse dei giovani per la storia permanga molto vivo ed anzi si sia accentuato rispetto al passato. Mentre prima l’interesse per la storia riguardava determinati gruppi politicamente impegnati ma tendenzialmente specialisti, ora esso tende ad assumere carattere di massa, non solo sotto la forma dell’interesse per l’apprendimento ma soprattutto come partecipazione all’elaborazione. Molti giovani chiedono non soltanto di conoscere ma anche di partecipare alla formulazione del giudizio storico, di partecipare alla ricerca. È un dato molto importante, anche se questo fenomeno non ha trovato condizioni favorevoli, sia dal punto di vista dell’organizzazione della ricerca che da quello dell’orientamento.
Data la debolezza delle strutture della ricerca l’interesse dei giovani per la storiografia tende a indirizzarsi verso modi ideologizzanti e verso una ristretta sfera di problemi; e noi non facciamo molto per arricchire, approfondire e ampliare l’orizzonte di questo interesse.
Facciamo un esempio. I giovani, proprio perché sono profondamente immersi nella realtà politica e sociale del nostro tempo, avvertono in maniera più netta l’unità dei problemi che si pongono su scala mondiale e, quindi, sono spinti ad occuparsi della storia degli altri popoli e degli altri paesi. Da questo punto di vista, sia le tradizioni e i limiti della storiografia italiana sia le carenze delle strutture costituiscono per loro un ostacolo quasi insormontabile. Noi non possiamo, in queste condizioni, dare una risposta sufficiente all’esigenza dei giovani di affrontare sotto l’aspetto storico i grandi problemi del mondo contemporaneo in modo autonomo e originale. L’attivismo degli insegnanti, la molteplicità delle iniziative, il numero crescente delle pubblicazioni talvolta o spesso non escludono una sostanziale passività, una mancanza di intervento critico e organizzativo da parte della generazione più matura nei confronti di coloro che si avviano alla ricerca. Anche qui, il nodo principale è, a mio avviso, la riforma dell’Università, la cui mancanza rischia di vanificare anche quella parte di «ricchezza della nazione» che è il grande e diffuso interesse dei giovani per la storia.
(a cura di Ottavio Cecchi)
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