Gabellini su Osservatorio Globalizzazione traccia un'interessante analisi su una questione oggi sugli scudi: la sedicente coordinazione nella tassazione globale verso le grandissime aziende. Ma è un obiettivo irrealistico, principalmente perché gli Stati Uniti si sono ormai trasformati nel più grande paradiso fiscale al mondo e hanno tutto l'interesse a rimanerci.

Dal 2014, un numero crescente di Paesi ha sottoscritto la normativa Ocse [del 2010 ndr], compresi Svizzera e Lussemburgo, ma non gli Stati Uniti. I quali, dopo aver richiesto e ottenuto trasparenza dal resto del mondo, si sono guardati bene dal ricambiare il favore consentendo così ad alcuni Stati federali di mantenere il loro elevatissimo livello di opacità finanziaria.

La combinazione tra il livellamento verso il basso indotto dall’attività lobbistica delle grandi imprese hi-tech e la diffusione generalizzata della normativa Ocse che ha imposto ai Paesi firmatari un giro di vite sulle norme in materia di spostamento e deposito dei capitali ha consentito agli Stati Uniti di scalare con estrema rapidità le posizioni del Financial Secrecy Index. Nella graduatoria relativa all’anno 2020 redatta dall’autorevole centro studi Tax Justice Network per classificare i Paesi in cui il segreto bancario è più forte, gli Stati Uniti precedono addirittura le Isole Vergini, il Lussemburgo, la Svizzera e Singapore, pesantemente colpiti dall’entrata in vigore della normativa Ocse. «Gli Stati Uniti sono il più grande paradiso fiscale al mondo», ha commentato Andrew Penney, managing director del gruppo Rothschild. Stefanie Ostfeld, coautrice di un’approfondita inchiesta in materia, ha rincarato la dose affermando che «gli Stati Uniti sono divenuti da parecchio tempo uno dei “porti franchi” più frequentati da politici corrotti, cartelli della droga, organizzazioni terroristiche e grandi evasori fiscali […]. Utilizzando una società anonima statunitense, qualsiasi criminale può facilmente nascondere la propria identità e la provenienza del denaro»

Negli usa i super ricchi pagano meno tasse della classe media:

Si tratta di un rovescio pesantissimo per le classi medie, che già nel 2018, con l’entrata in vigore del Tcja, avevano pagato per la prima volta nella storia degli Stati Uniti un’aliquota fiscale effettiva – calcolata sommando le tasse federali a quelle statali e a quelle locali – superiore alla fascia super-élitaria della società, composta da poco più di 400 famiglie; 23 contro 24,2%. Un risultato di particolare impatto, ma perfettamente coerente con il processo involutivo che ha visto gli Stati Uniti sprofondare in un progressivo incremento della disuguaglianza fiscale in conseguenza della torsione della struttura economica nazionale in funzione degli interessi riconducibili al settore Finance, Insurance and Real Estate.
Biden vuole finanziare il suo piano di investimenti, a scapito dei paradisi fiscali Europei, gli stessi che hanno messo in ginocchio gli altri paesi dell'Europa:

Nell’ottica dell’amministrazione Biden, la necessità di reperire un gettito sufficiente a finanziare il suo colossale piano di investimenti si incrocia con quella di plasmare una struttura tributaria maggiormente equilibrata, e giustifica quindi l’intensificazione delle pressioni sugli altri Paesi dell’Ocse affinché concedano il proprio appoggio alla global minimum tax e alla digital tax proposti dalla Yellen. Il principale ostacolo in tal senso è indubbiamente costituito da nazioni come Irlanda, Olanda e Lussemburgo, le quali molto difficilmente rinunceranno agli ampi benefici garantiti dal dumping attuato a danno di Stati membri dell’Unione Europea dotati di una maggiore pressione fiscale.

Anche qualora la politica miope, contraddittoria e conflittuale condotta sinora dall’Ocse in materia di fiscalità dovesse concretamente cedere il passo ad un atteggiamento più pragmatico e incline alla cooperazione transnazionale, è irrealistico aspettarsi concessioni univoche dal fronte dei paradisi fiscali – specialmente per quanto concerne la proposta più “oltranzista” di spostare la tassazione dagli utili al fatturato a seconda del Paese in cui viene realizzato. Non solo per l’atteggiamento assai poco lineare e coerente tenuto dagli Stati Uniti nel momento in cui si era trattato di istituire un accordo di collaborazione internazionale per lo scambio di informazioni sull’operato delle grandi multinazionali, ma anche a causa della complessità e della eterogeneità dei meccanismi utilizzati per determinare il prelievo.
Gli Usa hanno interessi su hard e soft power per intestarsi un finto cambiamento a solo loro vantaggio:

Nello scenario più probabile, le lunghe e complesse trattative intavolate per iniziativa statunitense produrranno un mediocre compromesso, implicante un innalzamento dell’aliquota nominale appena percettibile che consenta tuttavia al governo di Washington di intestarsi la paternità politica dell’inversione della tendenza alla bassa pressione fiscale nei confronti delle multinazionali, senza privare Irlanda, Olanda, Lussemburgo, ecc. del loro status di porti franchi. Una soluzione “gattopardesca”, i cui pur insignificanti effetti risulterebbero per di più completamente vanificati dall’ampio ventaglio di appigli legali che i regimi vigenti continuano a offrire alle multinazionali per eludere il fisco.
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