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    Predefinito Arturo Carlo Jemolo - Gli uomini e la storia - 1978



    A. C. Jemolo, "Gli uomini e la storia", Studium, Roma 1978


    Prefazione

    di Leopoldo Elia

    Questo libro è molto di più che una raccolta di articoli apparsi sulle colonne di un quotidiano negli anni 1969-1977: al di là del taglio storico (una storia «in nuce» di un personaggio o di una vicenda) che caratterizza in modo significativo ogni pezzo, rendendolo omogeneo a tutti gli altri, è l’ultima parte del volume a dare ex post un’ispirazione mirabilmente unitaria ai singoli interventi. Le cinque considerazioni di uno storico sopraggiungono dopo trentasei scritti dedicati a figure e ad eventi che vanno dal postrisorgimento ai giorni nostri; ed un altro autore avrebbe forse ceduto alla tentazione di imprimere un carattere visibilmente unitario premettendo al resto le cinque considerazioni, rispetto alle quali, dunque, gli altri articoli sarebbero apparsi come esempi o come casi di applicazione di criteri più generali. Ma non Jemolo, che con grande finezza fa emergere discretissimamente le sue riflessioni generali alla fine del volume, quasi fossero il succo distillato con metodo empirico della rievocazione di singoli episodi o di vite singolari.
    Del resto, l’Autore, tanto propenso a vedere fatti e persone nella concretezza della loro esperienza, è profondamente alieno dal tracciare regole universali od anche a dare carattere teorico alle riflessioni sul metodo storiografico: il suo non metodo di intuizioni collegate (come è stato detto da altri) è in relazione strettissima col suo modo di concepire gli uomini e la storia.
    Quella di Jemolo è una visione che egli stesso definisce «provvidenzialista» […]: ed è qui la chiave per aprire un passaggio ad una zona tanto riservata e silenziosa della sua personalità. Egli non crede, cioè, all’ideologia del progresso né in quella versione più ingenua della fine dell’ottocento (positivista, scientista, evoluzionista) né in quella più consapevole messa in valore dall’idealismo italiano di Croce e di Gentile. Entrambe queste concezioni, pur tanto diverse tra loro, finiscono per appiattire, in qualche modo, il male al bene, il negativo al positivo, l’arbitrario al necessario, il regresso al progresso, la decadenza alla rinascita. Per Jemolo questi appiattimenti, queste riduzioni, queste elisioni non sono ammissibili, sono manipolazioni fatte dopo dagli storici e dai filosofi ottimisti: non si possono negare le vittorie, ma nemmeno le sconfitte della ragione. Il provvidenzialismo di Jemolo gli consente di rifiutare una visione della vicenda umana come puro caos o come trionfo dell’irrazionale: ma gli permette altresì di ritenere imperscrutabili le regole per cui al bene si alterna il male, alla santità la depravazione, alla saggezza la follia. Per uno spirito essenzialmente religioso quale è Jemolo la domanda fondamentale tocca pur sempre il mistero «del perché Dio abbia concesso a Satana di tentare Giobbe» […].
    Ma, se il provvidenzialismo presuppone in Jemolo una visione meno condizionata dalla premessa filosofica ottimistica (egli diffida, per esempio, delle rivoluzioni che credono di tutto innovare), il pensiero della Provvidenza garantisce pure un margine ineliminabile al libero agire dell’uomo: la sfida dell’Avversario a Dio avviene certo sulla persona di Giobbe, ma la risposta dipende in definitiva dall’uomo sofferente e dalla fede dell’uomo. Di qui il monito più alto: «Ma a tutti è dato contrastare alle ondate d’irrazionalità, di torbide passioni. Non vi è nulla d’indispensabile, di necessario; possono convivere uomini di lingue e razze diverse in un medesimo Stato; possono vivere fianco a fianco persone con o senza una fede religiosa; l’economia offre scelte e soluzioni infinite. Quel che può ciascuno di noi è opporsi con coraggio, non limitandosi a tacere, alle tempeste di avversioni, di sospetti quasi sempre irrazionali (se pur c’è chi cerca di trovar loro una base nei fatti), che costituiscono il terreno propizio alle catastrofi storiche ove sorga il cattivo genio che se ne faccia strumento. In questo senso soltanto può dirsi che il singolo è operatore della storia» […].
    Certo la storia non è per Jemolo, come invece per Salvatorelli, interamente opera dell’uomo: il libero agire umano, nel bene e nel male, si compone in un disegno che sarà svelato nella pienezza del tempo. Non a caso l’Autore conclude il libro con questi pensieri: «Lo storico o è moralista e giudica secondo i dogmi di una fede che sono immutabili e che lo portano talvolta a divenire eretico se la Chiesa cui compete di conservarli cerca di accomodarli ai tempi, o, altrimenti, non può giudicare che sui metri del successo e dell’insuccesso. Questo almeno è quel che pensa chi, come me, crede che ci siano leggi nella storia, ma imperscrutabili dagli uomini» […].
    Si direbbe che nel disegno architettonico della Provvidenza, accanto ai «pieni» dell’esplicabile con motivazioni razionali ed umane, vi siano necessariamente i vuoti dell’irrazionale, del caotico, dell’inesplicabile per negazione dell’ordine, destinati anch’essi, peraltro, a servire un «intero» vietato allo sguardo dello storico. Così la profondità della visione provvidenzialistica che l’Autore attinge al cristianesimo consiste in primo luogo nel rispetto per il mistero, al quale resta nella vita e nella storia, come nel libro, un margine bianco non eliminabile; e pecca contro lo spirito chi vuole riempire a tutti i costi, con le spiegazioni riferite alle cause umane, lo spazio riservato all’intervento di poteri di altra natura.
    L’essere cristiano e l’essere praticante (anche se altri, come ci ricorda con manzoniano sorriso l’Autore, sentivano nel suo cattolicesimo «un pochino di odore di zolfo» […]), non ha mai tolto a Jemolo le inquietudini e la propensione per gli interrogativi senza risposta, che caratterizzano la sua vocazione di storico.

    ***
    Nella parte più ampia del libro, dedicata al periodo tra il crepuscolo del Risorgimento e l’avvento della Repubblica e più in generale a vicende della storia contemporanea, ritorna l’Autore che raramente abbassa la guardia sui criteri di giudizio pur vivi nel foro interno e invece fa storia, in dimensioni diverse ma con risultati non inferiori a quelli conseguiti nei lavori di maggior mole.
    Ad esempio, chi si appassiona per la storia delle istituzioni, non potrà non apprezzare più di un capitolo della prima parte: finissimo è il pezzo sulla caduta della destra storica, perché Jemolo crea una sorta di tertium genus tra il semplice mutamento di ministero, tra una crisi ministeriale qualsiasi, ed il mutamento di regime: certo non era quella una vera rivoluzione ma era sicuramente più di una normale crisi di governo. Anche se alcuni dei protagonisti e degli operatori politici del 1876 furono portati a definire con un sovrappiù d’enfasi quella svolta, è indubbio che ci fu nella vicenda di quell’anno qualcosa, come si direbbe oggi, di irreversibile: taluni dei maggiori esponenti della destra (penso a Quintino Sella) non tornarono mai al governo, malgrado la politica del trasformismo. E insomma, ad onta della garanzia di continuità rappresentata da Vittorio Emanuele II, è pur vero che si passava, senza possibilità di ritorni che non fossero a titolo individuale, ad un personale politico diverso. Siamo lontani dalla transizione, anche incruenta, ad un altro regime, ma siamo egualmente lontani da quegli avvicendamenti tra il partito di Gladstone ed il partito di Disraeli ben conosciuti nella storia costituzionale britannica della seconda metà dell’ottocento. Ciò accade quando una forza politica rimane al potere per un lungo periodo (la destra storica tenne il governo dal D’Azeglio al Minghetti) e non si tratta di un partito di massa. Più difficile è «cancellare» oggi un partito che abbia radici popolari, come fu cancellata la destra, partito di notabili aristocratici, partito parlamentare se altri ve ne fu (ma, ad onor del vero, non solo parlamentare, chi guardi al consenso di rappresentanti del censo e della cultura). Si potrà anche dire che quei governanti illuminati avevano ormai esaurito la loro missione di fondatori dello Stato unitario e che la forza statuale raggiunta in poco più di tre lustri doveva cimentarsi con altro indirizzo e personale politico: e che la maggioranza dell’opinione pubblica nutriva astio e insofferenza per lo stile di governo alquanto duro degli eredi di Cavour.
    Ma, detto questo, bisogna aggiungere che Jemolo vede assai bene allorché scorge nella svolta del ’76 il passaggio del potere ad un altro tipo di uomini politici: e ciò senza esagerare l’elemento dell’innovazione rispetto a quello della continuità. Infatti egli sottolinea come, secondo la storiografia contemporanea, «le condizioni delle classi più povere non miglioravano sotto il governo della sinistra storica, né i prefetti operarono diversamente da quelli di destra» […].
    Altro tema assai caro a Jemolo è quello della legalità costituzionale, così fortemente sentita dagli uomini che ressero prima del 1876 il governo d’Italia (ma ricorderei anche la fermezza di Giolitti senior contro il D’Annunzio di Fiume): durissimo dunque il giudizio sulle giornate del maggio 1915, che insegnarono a Mussolini i metodi della sovversione: «Nord e Sud, Chiesa e Stato, Camera e Popolo volevano la pace…» […]; altrettanto duro l’apprezzamento sui timori di guerra civile che fermarono la mano di re Vittorio Emanuele III, dapprima disposta a firmare il decreto di stato d’assedio nella notta tra il 27 e 28 ottobre 1922. A queste severe condanne («guai a chi si illude che perché oggi l’azione illegale percuote i suoi nemici, essa non cadrà domani su lui» […]), fa riscontro in Jemolo il favore per le decisioni legalitarie dei governi per Aspromonte e per Roma 1870, «fosse pur costato sparare su Garibaldi» […]. In definitiva l’Autore non si lascia commuovere dalle mobilitazioni «popolari», dalle impennate del «paese reale» o, per meglio dire, dalle avanguardie attive che trascinano, volenti per subìta sopraffazione, le autorità cui spetterebbe decidere in piena autonomia. Insomma, pur annoverando gli interventisti spiriti eletti e votati al sacrificio (non furono pochissimi gli interventisti democratici, laici, socialisti e cattolici), per Jemolo niente pareggia il danno subito dalle istituzioni e dalla vita democratica, ferita dall’illegalità anticostituzionale. Influisce il ricordo della marcia su Roma, ma al di là di questo evento-chiave, l’Autore ha presente che in un ordinamento ispirato ai principi costituzionali come quelli sanciti nel 1947 la tutela dell’ordine coincide con la difesa della libertà: ed anche per l’ordinamento prefascista critica Luigi Cadorna che non riconosceva la superiorità del governo […] e apprezza Menabrea, modesto politico ma sicuro per devozione alla monarchia e non generale da colpi di stato […]. L’istituto monarchico è visto anch’esso (fino al fatale periodo 1915-1922) come garante di ordine e di continuità nella legalità costituzionale.
    Quanto alle idee di Jemolo in tema di assetto dei supremi poteri statuali, non è difficile vedervi affinità con le opinioni espresse alla Costituente da Calamandrei e nelle prime legislature repubblicane da Maranini. Al Calamandrei lo uniscono la scarsa simpatia per le enunciazioni programmatiche di tipo weimariano ed anche il giudizio sul ruolo troppo debole che la nuova Carta attribuisce al Capo dello Stato (in particolare gli dispiace che un uomo come Einaudi non abbia da esercitare poteri adeguati […]): inoltre la Costituzione gli sembra eccessivamente influenzata dai no alle soluzioni prevalse nel periodo fascista. Al patto «negativo» Jemolo avrebbe preferito un patto ben più positivo: «… pensiamo, senza illuderci, a quel che potrebbe l’unione in un “sì” anziché in un “no”. È un sogno, ma un bel sogno, un patto di lunghissima tregua, con intese ben definite, in cui per il primo come per l’ultimo cittadino, fossero contrapposti ai diritti i doveri, le sanzioni non apparissero oppressioni, si riuscisse a stabilire un certo accordo su ciò che debba intendersi per giustizia sociale» […].
    A Maranini lo collega la polemica contro la partitocrazia e contro gli straripamenti dei partiti rispetto ai compiti ad essi assegnati nell’art. 49 della Costituzione: in questo egli è assai vicino all’ultimo Sturzo, quello che si opponeva alla conquista «partitica» delle cariche alte e meno alte negli enti pubblici economici. Più discutibile mi sembra invece negare allo Sturzo fondatore e leader del partito popolare (fino all’esilio imposto dall’alto) l’affectio per lo Stato. Bisognerebbe in effetti chiedersi: quale Stato? Perché non dovrebbe considerarsi degno di questo nome la forma di Stato quasi-federale che va affermandosi, più o meno, negli ordinamenti di democrazia occidentale? E la volontà di superare il clientelismo giolittiano (specialmente nel Sud) non indica l’aspirazione ad una democrazia più alta e matura? Nessuno vuole ignorare i pericoli di involuzione e di oligarchismo che minacciano i partiti di massa; la loro permanente tentazione di dividersi le spoglie del potere statuale e di taglieggiare, nell’una o nell’altra forma, i possibili «benefattori» delle finanze partitiche. Ma ciò non toglie che sia una specie di vagheggiamento chiedere per l’Europa quell’indipendenza dei parlamentari rispetto al partito che sopravvive soltanto negli Stati Uniti. Certo, questa posizione emerge con chiarezza piuttosto in Maranini che in Jemolo, il quale si limita ad una dichiarata nostalgia per il distacco dai partiti di origine dimostrato da Crispi o da Giolitti. Ma, appunto, i tempi dei partiti di massa non erano ancora arrivati: mentre oggi il problema è quello di far rientrare l’influenza partitica nell’ambito della «politica nazionale», rimettendo in onore, tra l’altro, la capacità professionale negletta specialmente in regime di «grandi coalizioni» a lunga durata. Tuttavia, di fronte agli abusi in concreto consumati dai partiti italiani e specialmente da quelli di governo (ma lo stesso vale per gli enti locali), più esposti alle tentazioni, bisogna riconoscere che la polemica di Maranini, di Jemolo, di Sturzo reduce dall’esilio, di Einaudi, di Merzagora e di altri è stata nettamente rivalutata in questi ultimi anni: una rivalutazione che attende a tutt’oggi un corrispettivo di provvedimenti, legislativi e amministrativi, e soprattutto di comportamento serio da parte dei leaders dei partiti e non solo da loro.

    ***
    Un altro campo nel quale Jemolo mostra le sue singolari capacità di storico della vita umana (dal punto di vista del grado di moralità e di altruismo di uomini rappresentativi di un intero periodo) è quello dedicato alla rievocazione della santità. Biografie di santi «religiosi» e si santi «laici» (eroi della prima guerra mondiale come i fratelli Garrone, ma anche anonimi demisolde dell’insegnamento medio ed elementare nello Stato unitario) rivelano una specie particolare del genere umano, legata da un dialogo impercettibile ma reale: un tipo di santità «risponde» ad un altro, superando le caratteristiche di ambiente e di tempo. Bellissime e davvero indimenticabile le pagine dedicate a Don Orione; ma molto significativo anche il capitolo su Piergiorgio Frassati, che impersona un tipo di santità contemporanea, ricca di fascino specie in un periodo di retorica nazionalista e di esaltazione della forza esteriore. Ma tutte le piccole e grandi virtù che Jemolo evoca nei suoi personaggi ci toccano nel profondo, a conferma che nella nostra epoca la storia è immensamente più efficace di ogni letteratura edificante.
    È naturale che in queste rievocazioni di santi l’Autore venga a contatto con vicende della storia religiosa (ed in particolare ecclesiastica) e della storia civile: ma in genere si tratta di situazioni che non si potrebbero omettere senza una rinuncia a capire il significato delle figure rievocate. Ed è ovvio che l’interpretazione dell’opera «politica» di una personalità prevalentemente considerata sotto specie di santità possa dar luogo a giudizi più opinabili: così non mi sentirei di accogliere la qualifica di «integralista» a proposito di Dossetti […], ricordando come egli volesse dopo il 18 aprile 1948 una Democrazia Cristiana titolare di tutto il potere di governo, soltanto perché temeva che altrimenti il maggior partito fosse «deresponsabilizzato» scaricando ora sul partito liberale ora sul partito socialdemocratico le proprie interne contraddizioni, le incertezze e le remore di un partito «interclassista». Ma le pagine dedicate a Dossetti sono tra quelle che la dicono più lunga sull’apertura di Jemolo: dopo aver contrapposto il realismo di De Gasperi all’integralismo di Dossetti, l’Autore finisce col rammaricarsi che la Chiesa non abbia arrischiato l’esperimento di Dossetti arcivescovo. Secondo Jemolo egli avrebbe «tentato ed osato» cose fuori dall’ordinario come «capo del governo o presule» […]. Futuribili, non c’è dubbio: ma Jemolo si duole che «da un pezzo la Chiesa non abbia certi ardimenti» […].

    ***
    È tempo di concludere queste note di apertura troppo invadenti, che dimostrano soltanto l’interesse profondo e partecipe di un lettore legato anche affettivamente al professor Jemolo, di cui ascoltò le lezioni nei pomeriggi dell’anno accademico 1945-1946. Dirò soltanto che i tempi vissuti in questo primo semestre 1978 danno anche troppo ragione al pessimismo cristiano del nostro Autore; accusato più di una volta, magari sottovoce, di dar nel mesto e nel nostalgico, egli ha colto più di altri i pericoli e le minacce che si accumulavano intorno a noi. La nostalgia per gli abiti virtuosi di altri tempi era il modo più consueto in Jemolo di dichiarare il vuoto di moralità personale e civile ormai aperto a voragine sotto casa nostra. Solo questo è ora evidente: che il vuoto è occupato da una ferocia misteriosa e senza smagliature di pietà.


    Leopoldo Elia – Roma, luglio 1978
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    Predefinito Re: Arturo Carlo Jemolo - Gli uomini e la storia - 1978

    Dal Risorgimento alla Repubblica


    I. Risorgimento crepuscolare

    Da qualche decennio è entrato nell’uso il termine (credo sia Salvatorelli ad averne la responsabilità) di post-Risorgimento: termine che segna semplicemente un ordine temporale e non implica il giudizio proprio a raffronti con le stagioni o le parti del giorno: sera od autunno significano che l’ora più splendida, quella in cui il sole più scaldava, è passata, che ora i colori sono smorzati. Post-Risorgimento potrebbe anche significare invece il momento della purificazione dalle scorie e del raccolto.
    Il giudizio che domina sul post-Risorgimento è peraltro quello di un rapido calare del sole, di un celere oscurarsi del paesaggio; ed è giudizio connesso con una visione un po’ scolastica: fulgore di battaglie – Solferino e S. Martino, Calatafimi -, personaggi idealizzati, entusiasmo e concordia di popolo.
    Credo che oltr’Alpe, ove il nostro Risorgimento fu visto con occhi smagati, l’unificazione considerata effetto in parte dell’amore che dalla gioventù Napoleone III aveva serbato per l’Italia, in parte di una serie di fortunate combinazioni, e dove per alcuni decenni sussisté il convincimento che l’unità si sarebbe disfatta con la rapidità con cui si era formata, e se non un ritorno dei vecchi prìncipi si sarebbe avuto un formarsi di repubblichette sud-americane, la visione sia diversa; ed i governanti senza allori bellici, da Lanza Minghetti Sella fino a Giolitti, siano giudicati ben diversamente da spegnitori di un roveto ardente, ma come realizzatori.
    Comunque è il titolo Autunno del Risorgimento che Giovanni Spadolini ha dato ad oltre cinquecento pagine di raccolta di suoi saggi ed articoli, scritti a partire dal 1949, e che veramente superano il post-Risorgimento per inquadrare anche personaggi nettamente risorgimentali, e qualche altro che solo con sforzo, scorgendo in lui il rinnovarsi del tipo del miglior uomo risorgimentale, può riconnettersi a quel periodo: così Einaudi; considerando altresì figure tra le più vive della storiografia che si sofferma sul periodo, come Oriani, Guglielmo Ferrero, e pur uno storico delle Costituzioni, quale Giuseppe Maranini.

    ***
    Nella prefazione Spadolini giustifica il titolo, mostrando che da Firenze capitale e soprattutto dopo il ’70 le maggiori figure del Risorgimento rappresentano ormai dei sopravvissuti, ombre di se stessi. Scopo del libro? «Tentativo di smitizzare il Risorgimento, senza rifiutare l’eredità, richiamandone i valori perenni, di libertà, di civiltà, di umanità»: con l’occhio volto al presente, che mostra pur esso l’autunno di quei valori risorgimentali che sembrava la Resistenza avesse risuscitato, e che oggi appaiono miti: «È lo scetticismo crescente sulla libertà, sulle garanzie dello Stato di diritto, sul valore della tolleranza, e del rispetto delle opinioni altrui – è un certo ritorno ai miti della “violenza” purificatrice, una violenza che unisce le sponde contrastanti dell’opposizione extraparlamentare, con accenti di irrazionalismo che riportano a pose dannunziane, a deteriori residui superomisti e nietzschiani – è la stanchezza della democrazia: una stanchezza che si traduce nel logoramento delle istituzioni, nella ricerca di alleanze al vertice – la famosa “Repubblica conciliare” – capaci di colmare le insufficienze dei partiti, di aggirare gli ostacoli della storia e dell’ideologia. È il mito dei partiti di massa, con la perpetua riammiccante illusione, o speranza, dell’intesa fra rossi e neri».
    Dei molti ritratti coglierei in particolare quello di un personaggio pressoché dimenticato, Cesare Cantù, per cui la tradizione nazionale era «la linea comunale, federale, repubblicana, autonomista, popolare, cattolica e moderata sicché la sua aspirazione era un’Italia “antica”, che non conoscesse distinzione tra cittadino e fedele» (una linea, noto, che durerà fino a don Albertario); l’altro di Silvio Spaventa, «tipo d’uomo che l’Italia contemporanea ha quasi completamente dimenticato», pensatore, giurista, amministratore lucido severo ed onesto: «Spirito profondamente meridionale per educazione, gusti e tendenze, che pur aveva bruciato nella passione unitaria ogni traccia ed ogni residuo di regionalismo».
    Ma d’interesse anche maggiore può essere l’indagine sui miti del Risorgimento, sul modo con cui i maggiori contemporanei scorsero avvenimenti, aspirazioni del loro tempo. Così le pagine sul mito laico di Federico II, sulla polemica intorno a Machiavelli, su Carducci storico, e sulla rivoluzione ch’egli portò negli studi risorgimentali, rompendo il troppo ristretto arco di tempo fino allora assegnato al Risorgimento.

    ***
    Ci sono poi due paragrafi atti a destare polemiche: Marx con i suoi duri giudizi su Mazzini, che giunge ad insultare e calunniare. Per Marx nulla di Mazzini è accettabile; il sogno di democrazia religiosa del genovese è un rigurgito di Medioevo; Marx ha il disprezzo per le prediche, le declamazioni pedagogiche, ed altresì per la democrazia ed il razionalismo, ha il culto della forza, dell’organizzazione e della disciplina. E nutre altresì l’avversione per la Russia; considera la peggiore delle prospettive quella di una Russia che si affacci sul Mediterraneo, si chiede se il bizantinismo cederà di fronte alla civiltà occidentale, o farà rivivere la sua influenza nefasta in forme più terribili e tiranniche che mai.
    I saggi dell’ultima parte del libro, «Le contraddizioni dell’unità», contengono pagine molto acute su alcuni personaggi post-risorgimentali. Così su Oriani, in cui Spadolini scorge l’incontrarsi del mazzinianesimo – Oriani sarebbe uno degli ultimi discepoli del profeta – con l’influenza esercitata su lui dagl’incontri con De Meis e donna Laura Minghetti, ambiente nutrito di princìpi hegeliani e di salda sostanza conservatrice; mazzinianesimo e conservatorismo sarebbero anche le due anime del Risorgimento. Il nazionalismo di Oriani sarebbe quello di un patriota post-mazziniano, di un erede delle posizioni azionistiche che affida alle forze democratiche la funzione di incarnare le esigenze nazionali perché non cadano nel dominio delle Destre. Così la rievocazione di un quasi dimenticato, Saverio Merlino, socialista per vocazione, ma revisionista di fronte all’opera di Marx.
    Tutti saggi scritti nell’ottimo italiano proprio a Spadolini, e tutti che si leggono con vera gioia: seppure talvolta si possa non condividere i giudizi. Così mi sembra che un certo affetto fiorentino porti Spadolini ad innalzare oltre misura quel grande italiano che certo fu Ricasoli; così di fronte a ciò che scrive su Oriani (e che mi fa rammentare miei coetanei che credevano di poter conciliare il culto di Mazzini con il fascismo in virtù del suo corporativismo, e questo li portava persino ad indulgere al corporativismo franchista) mi chiedo fino a che punto si possa parlare d’innesti più o meno felici, e dove invece le incoercibili predilezioni sentimentali verso poli opposti non generino confusione d’idee. Ma comunque volume che nessuno studioso, o semplicemente affezionato al Risorgimento, può trascurare.

    [6 novembre 1971]

    https://musicaestoria.wordpress.com/...uscolare-1971/
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    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Arturo Carlo Jemolo - Gli uomini e la storia - 1978

    II. Il mito dell’anti-Risorgimento

    Negli ultimi anni di guerra molti trovammo un qualche sollievo nelle pagine di un bel libro di narrativa, L’alfiere di Carlo Alianello. Era la vicenda dei Mille vista dal lato opposto, quello di un giovane ufficiale borbonico devoto al suo re, pieno di coraggio.
    Il libro aveva pregi intrinseci, figure bene scolpite, una delicatissima di fanciulla, Titina; ma ci pareva anche rispecchiare i giorni che vivevamo. Il discorso scettico che nelle prime pagine teneva un alto ufficiale della marina borbonica rendeva il clima dell’Italia del 1943. Anche se c’erano ancora alcuni entusiasti, soldati coraggiosi, si sentiva il disfacimento, l’ineluttabilità della fine: là dei Borboni, qui del fascismo; là, come ora, al vertice persone incapaci, o preoccupate di non compromettersi, di lasciarsi una via aperta per l’avvenire. E poco appresso scorgemmo nuove analogie, la decomposizione di un esercito, le violenze della guerra civile.

    Nel ’63 Alianello pubblicava L’eredità della priora; qui la Basilicata del ’60-’61, prossima alla annessione o già annessa all’Italia, ma non doma: legittimisti venuti dalla Spagna, ufficiali borbonici inviati con false generalità, magari assunti come impiegati dal nuovo governo, che preparavano la rivolta; autentici e feroci briganti; una plebe ostile ai «piemontesi», contrastavano all’esercito italiano considerato come straniero. Ancora riuscitissime figure femminili, Isabellina e Juzzella.

    Quei romanzi non scandalizzavano chi non fosse del tutto ignaro di storia. Sapevamo che il Risorgimento era stato opera eminentemente della borghesia colta, con partecipazione popolare solo dove il dominio austriaco era sentito come straniero, ed in parte nei due ducati; ma in Toscana ed in gran parte dello Stato Pontificio il popolo non detestava i suoi governanti e nel Mezzogiorno meno ancora che altrove, si poteva ravvisare una coscienza politica della plebe. Il 1860-61, specie in due regioni del Mezzogiorno, fu l’eco di quel che al loro tempo erano state la Vandea, il 1799 piemontese (La bufera di Calandra), quello aretino, ancora nel Mezzogiorno le bande del cardinal Ruffo.

    Da tempo sono stati indicati gli errori commessi dal nuovo regime. Brutta pagina l’essere ricorsi alla camorra per tutelare a Napoli l’ordine pubblico. Sbaglio lo scioglimento dell’esercito napoletano (molti ufficiali, quasi tutti quelli di marina, passarono però nell’esercito italiano, ove diedero ottime prove). Fu pur detto che si volle affrettare troppo la unificazione, anche per la preoccupazione di Cavour della proclamazione di una costituente italiana, che ponesse in forse la forma monarchica.


    Nel secondo romanzo di Alianello però si calcava troppo la mano sulla crudeltà dei «piemontesi» e di quanto ancora operava di garibaldini (se pure sapessimo tutti di un generale Pinelli troppo proclive a fucilare); degl’italiani non si salvava nessuno. Ma almeno i briganti erano detti tali; Borjes ed i Carlisti operavano con loro, salvo, conquistato un paese, chiudersi in una casa per non assistere agli scempi, agli orrori dei briganti: neppure le vecchie monache potevano sentirsi sicure.
    Ora Alianello ci dà un saggio storico, La conquista del Sud (Ed. Rusconi), che stupisce per la passione che lo percorre.
    Oggi si cerca la equanimità anche parlando di avvenimenti meno remoti: si veda il caso di due volumetti, Alfassio Grimaldi e Bozzetti, Farinacci il più fascista, e Nozzoli, I ras del regime; vi è uno sforzo d’imparzialità, di cogliere pur ciò che v’era di falso in quanto fu scritto contro i più invisi, Starace e Farinacci, di riconoscere l’onestà dell’uno, il coraggio fisico dell’altro.

    Quella passione mi ha stupito anche perché quando ero molto giovane frequentavo famiglie in cui i genitori, persone di mezza età, parlavano spesso di padri, suoceri, zii, ufficiali o magistrati o gentiluomini dei Borboni, rimasti fedeli a Francesco II; ed in queste evocazioni apparivano intorno al 1870-80, così nella eco che avevano avuto in loro le morti di Vittorio Emanuele e di Pio IX, pacificati, consci dell’ineluttabile, bene auguranti alla nuova Italia; poco appresso i superstiti avrebbero palpitato per i soldati che combattevano la prima guerra d’Africa, esaltato Toselli e Galliano.


    Il libro d’Alianello considera ancora sanguinanti le remote ferite del ’60; avversione per Gladstone, calunniatore di Ferdinando II; descrizione del carcere di Settembrini e di Spaventa come luogo di sano riposo. Citato come fonte sicura quanto scrissero gli scrittori borbonici contemporanei: che sarebbe come, nel campo opposto, invocare La Cecilia per i Borboni, Bianchi Giovini per la storia della Chiesa, od i Monita secreta per i gesuiti.

    Pagine pregevoli su Francesco II: patetica figura (per quale presentimento di analogia di destini Umberto di Savoia curò pietosamente, intorno al 1935, la traslazione della sua salma?), ma uomo fuori del suo tempo: così ostile all’idea italiana da correggere un ministro straniero che elogiando la bellezza della giovane sposa Maria Sofia aveva detto che sembrava predestinata per il bel suolo d’Italia; «di Napoli» aveva opposto il re; «non conosco l’Italia».

    Rimproverato a Cialdini il bombardamento di Gaeta (pare che anche Garibaldi si allontanasse dicendo che dove si cominciava a bombardare, non era il suo posto); ed altrove si parla di ciò che provocò in Sicilia lo sbarco dei Mille, bande di assassini che uccidono e predano: onde l’episodio di Bronte, che per gli storici socialisti è una macchia su Garibaldi e Bixio.

    Due rimproveri diversi; che non tengono conto del momento. Vero che lo sbarco a Marsala provocò un’adesione di «picciotti», cui nulla diceva il nome d’Italia, ma desiderosi delle terre, di vendette contro i galantuomini. Se Garibaldi non avesse represso, una jacquerie sarebbe dilagata per l’isola; a Bronte era stato ucciso un quindicenne colpevole solo di essere figlio di un notaio inviso. Finché Gaeta non cadeva, restava incerto se la monarchia borbonica potesse o meno sussistere.
    Chi ricorda questi episodi deve pur rammentare che l’unità si stava formando contro il Trattato di Zurigo che prevedeva il ritorno dei vecchi principi; il regno d’Italia non era riconosciuto dalla maggior parte delle Potenze europee; Napoleone III lo sorreggeva invocando il «non intervento», ma aveva avversa l’opinione pubblica francese. Lo stesso Alianello scrisse che se i borbonici avessero potuto scacciare da Potenza «i piemontesi», forse ci sarebbe stato un intervento europeo. Gaeta e Bronte furono due necessità.
    Longanimità dei Borboni… ma senza il ’59 che spinse ad imbarcare per l’America i politici condannati a trent’anni di reclusione, Castromediano, Settembrini, sarebbero rimasti in carcere; i cospiratori borbonici che avessero le mani pulite di sangue non soffrirono mai sotto i Savoia che pochi mesi di detenzione; assoluzioni ed amnistie sollecite.
    Il mito del Risorgimento è sfatato da un pezzo; non creiamo l’altro mito, molto più falso, che si fonda sulla vecchia visione sanfedista del «vero popolo» che è quello analfabeta e senza scarpe che gli intellettuali corrompono.
    Il regime dei Borboni non consentiva alcuno sviluppo; è sintomatico che tra i loro fedeli non emergesse una sola figura comparabile a quella dei devoti al ramo primogenito di Francia, tra cui c’è uno Chateaubriand.

    E chi ama il popolo del Mezzogiorno potrà rimproverare all’Italia di non aver fatto quanto poteva fare per esso; ma vaneggia se lo immagina prospero e felice in un reame borbonico che si fosse protratto per un altro mezzo secolo.


    [17 giugno 1972]

    https://musicaestoria.wordpress.com/...rgimento-1972/
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    Predefinito Re: Arturo Carlo Jemolo - Gli uomini e la storia - 1978

    III. Come fu abbattuta la Destra storica

    Nel 1876 il ministero presieduto da Minghetti era battuto alla Camera, su una questione di differimento d’interpellanze, con ben sessantun voti di prevalenza a favore dei suoi avversari. Era la fine della Destra storica, fine già prevista, ché il lungo governo della Destra si era andato indebolendo, avendo già subìto una certa crisi quando i deputati piemontesi avevano formato gruppo a sé sulla questione del trasporto della capitale a Firenze.
    Il Governo passava alla Sinistra con Depretis: non poteva parlarsi di homines novi, ché i nuovi ministri erano quasi tutti vecchi parlamentari. L’ultimo ministero della Destra aveva un presidente non inferiore per meriti al primo. Non comparabili come figure umane, ma di pari altezza, D’Azeglio e Minghetti.
    Sul terreno politico la grande ora di D’Azeglio era stata quella del principio del regno di Vittorio Emanuele; l’aver tenuto fermo lo Statuto, non aver rinnegato le speranze unitarie, avere sconfitto i giacobini che volevano una impossibile ripresa della guerra contro l’Austria. Merito di Minghetti di aver tenuto fede al programma cavourriano, l’aver giocato la propria popolarità con la convenzione con la Francia del 1864, che l’esperienza mostrò essere poi stata una tappa necessaria per poter andare a Roma, e comunque aiutava l’opera di fusione e faceva venir meno l’assurdo di una capitale nobilissima, benemerita più di ogni altra città per la parte avuta nella concessione dello Statuto, ma ormai troppo prossima alla frontiera. Letterato, pittore, uomo affascinante fino alla vecchiaia, D’Azeglio; cattolico liberale con profondo senso religioso, scrittore politico meditativo, autore di libri che sarebbe utile rileggere, dalla vita coerente alla sua profonda moralità, Minghetti.
    L’aristocratico piemontese e l’appartenente alla buona borghesia di Bologna erano entrambi due insigni servitori della cosa pubblica; certa apparente frivolità del primo, certo misticismo del secondo, non li avevano mai fatti deviare.
    La Destra aveva governato dunque per ventisette anni (direi con la parentesi dei due infausti ministeri Rattazzi contrassegnati da Aspromonte e da Mentana, ché considero Rattazzi uomo di sinistra, se pure avesse formato il connubio con Cavour; ma qualche uomo della Sinistra era pure entrato in ministeri della Destra; Depretis era stato ministro con Ricasoli).
    Alla Sinistra, la Destra consegnava un’Italia che aveva al suo passivo le difficoltà economiche che avevano accompagnato l’unificazione, la bassa quotazione in Borsa della sua rendita, la poca disponibilità per imprese pubbliche. Ma ormai sufficientemente unificata, riconosciuta con Roma capitale da tutte le Potenze. Era svanito il pericolo di una restaurazione monarchica in Francia, possibile sostenitrice di un ritorno del potere temporale; approvata la Costituzione del ’75, sarebbe venuto il governo di Mac Mahon, con molte forze cattoliche, ma controbilanciate da uomini come Gambetta, e che non avrebbe certo mosso guerra all’Italia. Questa era in buoni rapporti con la Germania, con l’Inghilterra, con la stessa Austria (ben pochi pensavano allora a Trieste e Trento e nessuno più a Nizza), ed in Italia gli atteggiamenti antivaticani di Bismarck, la fioritura dottrinale tedesca, avevano trovato adesione ed ammirazione, specie negl’intellettuali.
    Le condizioni della sicurezza pubblica non avrebbero potuto dirsi ottime; ma era stata la Destra a vincere la guerra civile, nota col nome di brigantaggio, nel Mezzogiorno, ed anche a superare i conati rivoluzionari dell’Emilia e Romagna, talora esplicantisi solo nel coltello vibrato contro il funzionario di polizia.
    In politica estera sarebbe stata la Sinistra a dover ingoiare tra non molto l’amaro boccone del protettorato francese su Tunisi, ed a dover mantenere l’ordine pubblico con sistemi non diversi da quelli fino allora usati.
    Studente di terza liceo e «violino», come dicevasi allora, volli portare al professore di storia un mio lavoretto sulla caduta della Destra, e non so quanti quotidiani scorsi. E vidi con stupore l’eco dell’avvenimento. Garibaldi accettava il dono nazionale prima respinto, il presidente della Camera Biancheri si dimetteva, ma la Camera lo pregava di restare al suo posto, non rieleggendolo però più nella nuova legislatura iniziatasi pochi mesi dopo. Molti diplomatici, direttori generali, preposti ad alti uffici, si ritiravano, non credendo di poter servire un governo di Sinistra, e Vittorio Emanuele che li riceveva nella visita di congedo cercava di tranquillizzarli: il capo dello Stato era sempre lui, l’indirizzo generale non sarebbe mutato. Ma parecchi sentivano come un cambiamento di regime; il nuovo prefetto di Milano che volle andare a far visita alla contessa Clara Maffei, che teneva un salotto ben noto, d’italianissimi, ma tutti di Destra, fu ricevuto gelidamente e comprese che in quella cerchia non c’era posto per lui.
    L’adolescente ch’ero allora e che vedeva cambiare governi senza che il Paese se ne sentisse turbato non comprendeva questo sdegno dei vinti, e meno che mai l’accanimento di gran parte del popolo contro quel partito che pure aveva operato l’unità d’Italia e con la legge delle Guarentigie evitato che il Papa si allontanasse da Roma, sia pur restando chiuso in Vaticano, e che si delineasse anche un embrione di guerra religiosa. Ma l’astio c’era, sicché quando qualche anno dopo, in un momento difficile, Umberto I pensò di dare l’incarico di formare un ministero a Quintino Sella, ne fu impedito da manifestazioni di piazza; Sella era sempre l’uomo della impopolarissima tassa sul macinato.
    A distanza di un secolo mi rendo conto che quella non fu una crisi ministeriale come le altre, ma veramente il passaggio del potere ad un altro tipo di uomini politici: meno rigidi, più disposti ai compromessi, più inclini alle sfumature.
    La Destra aveva avuto deputati di una borghesia cittadina o provinciale, professionisti o che vivevano sia pur modestamente delle proprie rendite; ed era già stato per lei un duro colpo nel 1868-69 il processo della «regìa»; l’opinione pubblica era stata non poco turbata dall’accusa, che non risultò poi provata, che tre deputati, di cui uno era un recente convertito dalla Sinistra alla Destra, avessero spinto verso la convenzione del giugno 1868 con cui lo Stato concedeva il monopolio dei tabacchi ad una società, che anticipava alle stremate finanze italiane 180 milioni in oro.
    Venivano ora avanti uomini diversi, più consci che da decenni la banca, il commercio, l’industria, dovevano con sempre maggior frequenza stipulare convenzioni con i governi, essendo ancora nella coscienza pubblica che lo Stato non dovesse essere industriale, dovesse affidare a società private le ferrovie, lo sfruttamento di certi monopolî, dovesse passare attraverso le banche per collocare le nuove emissioni di titoli del debito pubblico.
    Fin dal principio del sistema parlamentare il deputato era stato l’intermediario tra l’elettore, soprattutto il grosso elettore, ed il governo; si trattava però allora di una decorazione, del trasferimento di un impiegato, al più del percorso di una nuova linea ferroviaria. Ma avrebbe dato scandalo che un uomo politico s’ingerisse in quelle grosse operazioni, e soprattutto ne traesse anche un minimo utile personale. Ora le cose mutavano. Circa quindici anni dopo, con lo scandalo della Banca Romana – piccolo scandaluccio di fronte a quelli d’oggi – si vide che le banche operavano un trattamento particolare a certi uomini politici, tenevano le loro cambiali in sofferenza, senza protestarle.
    Con la prevalenza degli uomini di Sinistra (se pur questa avesse uomini di dottrina non solo, ma di oratoria eccezionale, come Mancini) il tono dei discorsi parlamentari si sarebbe abbassato; a deputati per lo più con buoni studi umanistici succedevano spesso uomini con forti benemerenze risorgimentali, ma notevoli lacune nella cultura (di «parlamento indotto» parla nei suoi ricordi Ferdinando Martini, e rievoca certa formidabile cantonata presa dal ministro Nicotera, per aver letto male un bigliettino fattogli pervenire in fretta dai suoi segretari perché rispondesse ad una interpellanza: menzionando un re d’Inghilterra Teodoro, mentre il biglietto parlava dei Tudor).
    La Sinistra era però reclamata dalla opinione pubblica, che voleva ed ottenne l’allargamento del suffragio, e mal sopportava la finanza rigida, quella che ricorreva anche alle imposte più impopolari purché il potere della lira non scendesse ancora.
    Qui pure non si può rimproverare né a popoli né a governi di non avere anticipato i tempi; in fondo anche per gli uomini della estrema sinistra di allora la proprietà privata era sacra, non si potevano fare leggi di confisca, occorreva ricorrere alle imposte, e lo stesso principio della imposta progressiva pareva avere già in sé qualcosa di rivoluzionario. E sarebbe poi sembrata una stravaganza dare il voto alle donne ed agli analfabeti.
    La Sinistra fu tuttavia un passo nel senso del cammino verso il suffragio universale, verso lo Stato che s’immerge sempre più nell’economia, che diviene esercente prima delle ferrovie, poi, direttamente o indirettamente, di una serie d’industrie.
    Non si può giudicare il cammino della storia, né restare stupiti che gli elettori non sempre scelgano gli uomini migliori. Si può aggiungere che la storiografia contemporanea riconosce che le condizioni delle classi più povere non migliorarono durante il governo della Sinistra storica, né i prefetti operarono diversamente da quelli di Destra.
    Essa ebbe certo uomini intemerati; eppure quando si pensa all’uomo politico superiore ad ogni sospetto i primi nomi che corrono alla mente sono di uomini della Destra, Silvio Spaventa o Quintino Sella o Giovanni Lanza. E dalla Destra vennero uomini che servirono lo Stato fino alla tarda vecchiaia, non facendo questione di partito allorché l’opera loro era necessaria, come Emilio Visconti Venosta.

    [18 marzo 1976]

    https://musicaestoria.wordpress.com/...-storica-1976/
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    Predefinito Re: Arturo Carlo Jemolo - Gli uomini e la storia - 1978

    IV. Due Rome

    Le storie dei rapporti tra Chiesa e Stato durante lunghi periodi cominciano con l’Ottocento. Prima abbondano storie delle chiese nazionali, alcune con tendenze gallicane o regaliste, polemiche intorno ai diritti della Chiesa ed a quelli dello Stato, storie di singoli episodi, come l’interdetto di Venezia.
    Quelle storie dell’Ottocento e della prima metà del Novecento sono quasi senza eccezioni opera di giuristi o di dotti archivisti; e risentono delle loro origini; molta precisione di dati, molto posto dato ai documenti, legislativi o diplomatici. Spadolini, professore universitario, laureato in diritto, grande raccoglitore di documenti, molto informato, ci dà invece in una prosa snella libri piacevoli a leggersi, pur nel loro rigore di opere di storia, in cui fa emergere le persone: volta a volta gl’intransigenti dell’Opera dei congressi, Giolitti, il cardinale Gasparri.
    Ora ci dà un grosso volume, dal titolo Le due Rome. Chiesa e Stato fra ‘800 e ‘900 (Le Monnier), composto di parti diverse, di cui a mio avviso la più interessante è quella destinata a tre Papi, Pio IX, dopo la formazione dell’unità italiana, Leone XIII e Pio X. Le pagine su Pio IX potrebbero essere utilizzate, ciò che è certo fuori delle intenzioni di Spadolini, dal postulatore della causa di beatificazione di papa Mastai; appare l’uomo della fiducia in Dio, della sottomissione ai suoi voleri; sa senza esitazioni quale sia il suo dovere di Pontefice, cosa debba approvare e cosa riprovare; non ha esitazioni, non pronuncia parole suscettibili di opposte interpretazioni; ma al tempo medesimo si rimette a Dio per quel che sarà l’esito della sua azione, senza angoscia se anche sarà opposto alle sue previsioni.
    Da un punto di vista umano, se pure Spadolini lo consideri «uno dei Papi meno politici che la Chiesa abbia avuto nei tempi moderni», appare invece il più saggio, che si rende subito conto di non poter contare su iniziative diplomatiche, sull’appoggio di qualsiasi Nazione, ma che invece provvede a rendere più rigorosa che mai la disciplina ecclesiastica, a centralizzare il governo della Chiesa, rinsaldare l’esercito anziché pensare a riconquiste di territorio, per il momento impensabili.
    Con il successore, invece, si ritorna al gioco diplomatico, all’affermazione della S. Sede come potestà sovrana, una Potenza tra le altre Potenze mondiali; ed in effetto innegabile l’aumento di prestigio internazionale della S. Sede. L’autore dà il giusto risalto all’opera compiuta in Francia con l’avvicinare i cattolici alla repubblica, lasciar cadere ogni appoggio ai tenaci legittimisti, ai residui bonapartisti; ma avrei desiderato ponesse pure l’accento sulle debolezze che il Pontefice, ormai molto vecchio, mostrò nel non impedire al clero, alle congregazioni francesi, di partecipare, più o meno, alla passione antidreyfusarda, in definitiva nazionalista, militarista, mentre poi a Roma non si era così ciechi da credere nella colpevolezza di Dreyfus. Né si sentì mai un monito da Roma ai cattolici francesi di pensare a mantenere la pace piuttosto che ad avere l’assillo della riconquista delle province perdute nel ’71.
    Spadolini vede una certa continuità tra Pio IX, Pio X, Pio XI. Per Pio X non parlerei proprio di un suo «grande sogno di restaurazione teocratica», ma piuttosto che, come Pio IX aveva guardato soprattutto al rafforzamento della disciplina ecclesiastica, Pio X guardò all’unità di fede, a conservare intatto il patrimonio dottrinale: poco o nulla curante se qualche parte di questo patrimonio apparisse inassimilabile alle nuove generazioni. Nel modernismo egli vedeva realmente il crollo dell’accettazione da parte degli uomini del deposito della fede; da qui la sua implacabilità.
    Bene è vista la posizione di Benedetto XV, che si rese conto della inutile strage; eppure non resto persuaso che il Papa, anche suscitando per il momento una tempesta ostile, non avrebbe in seguito guadagnato enorme prestigio condannando gli sciovinismi, riprendendo i vescovi che distorcevano i suoi messaggi di pace; dubito che la canonizzazione di Giovanna d’Arco, nel momento storico in cui seguì, abbia rappresentato una mossa felice.
    Rispetto a Pio XII Spadolini parla di due fasi del suo pontificato, durante la guerra e dopo; nella prima veramente defensor pacis, difensore degli oppressi (per quanto poté; e non credo che esplicite condanne del nazismo avrebbero avuto altro risultato che quello negativo, di intensificare le persecuzioni); ma nel secondo, oltranzista, in Italia contrastante all’opera di De Gasperi, con la mira di un’Italia confessionale, che avrebbe avuto per effetto la formazione di un unico grande blocco anticlericale.
    Non è qui possibile toccare tutti i punti del libro ma vanno segnalate le pagine, in gran parte inedite, tratte dalle Memorie del cardinal Gasparri, circa la condanna dell’Action française e di Maurras; pronunciata già sotto Pio X, che però garantì che mai sarebbe stata pubblicata lui vivo, resa pubblica sotto Pio XI; ma con un perdono poi del vecchissimo Maurras sotto Pio XII.
    Per l’osservatore della vita cattolica da tre secoli in qua, direi che la Francia sia punto di mira più interessante assai che non l’Italia; lì ci sarà sempre lo scontro tra due gruppi che si proclamano cattolici, ma sono irreconciliabili; lì si trova Le Sillon, Marc Sangnier, ma ivi anche i cattolici disposti ad alleanze con gli atei, con gli uomini dell’odio e della violenza. Déroulède, Maurras, Léon Daudet, gli antidreyfusardi feroci (si condanni pure un innocente per l’onore dell’esercito, sempre in vista della riconquista dell’Alsazia e Lorena): un filone che non viene mai meno, che si manifesta nel governo di Vichy e più ancora nel collaborazionismo con i nazisti. E se c’è aspetto in cui l’azione dei Pontefici può essere considerata con riserva è la frequente indulgenza verso questo filone.
    Su qualche punto farei riserve: sul valore che dà l’autore al plebiscito romano del 2 ottobre ’70, come schietta manifestazione di volontà popolare; sull’avere dato non sufficiente rilievo, pure menzionandolo, al liberalismo teologico di Leone XIII, stroncato dal successore; su Umberto I, considerato esponente della Sinistra, ma senza nessuna delle lacerazioni e rotture del passato, e con un desiderio di pace; che ancora principe ereditario aveva però detto a Gregorovius che solo l’irreconciliabilità con la Curia avrebbe permesso di maturare il processo destinato a condurre alla soluzione della discordia: che mi pare sia elevare il personaggio oltre la sua statura; su una intenzione di Pio XI di condannare il fascismo, non potuta attuare per la sua morte, che non riesco a scorgere nello schema di discorso pubblicato da Giovanni XXIII.
    Ma sono piccoli dissensi; il libro è felice, corredato da amplissima bibliografia, sempre vivo, sempre denso di pensieri, di ricostruzioni della psicologia dei personaggi, con sicura conoscenza delle correnti: a differenza di altre storie di questi rapporti tra Chiesa e Stato che valgono solo per chi sia già interessato al tema, può proprio attrarre a considerarlo chi vi aveva poco o nulla pensato: e credo che oggi questi indifferenti non siano rari.

    [11 dicembre 1973]


    https://musicaestoria.wordpress.com/...due-rome-1973/
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    Predefinito Re: Arturo Carlo Jemolo - Gli uomini e la storia - 1978

    V. Una disfatta della ragione


    Finito l’anno del Cinquantenario continuano le pubblicazioni sulla prima «grande guerra»; è una letteratura lungi dall’esaurirsi, ché sempre più emerge la coscienza che quella guerra segnò la chiusura di un’epoca, la fine della posizione egemonica dell’Europa, la crisi dei valori umani e politici che si erano affermati dall’illuminismo al liberalismo.
    Per quel che tocca l’Italia, sono comparsi quasi contemporaneamente il volume di Piero Melograni, Storia politica della grande guerra (ed. Laterza), la traduzione italiana dell’opera di John A. Thayer, L’Italia e la grande guerra (ed. Vallecchi) e Il diario di Salandra a cura di G. B. Gifuni (ed. Pan).
    Nel volume del Melograni è molto bene messa in risalto la contrapposizione tra la psicologia della massa dei soldati, eminentemente dei fanti (tratti nella quasi totalità dalle classi rurali, in anni in cui ancora l’analfabetismo abbonda, la lettura dei giornali è molto rara tra i contadini: sottoposti così a sofferenze, fatiche senza nome, decimati nelle offensive, senza poter accedere agli entusiasmi o alle illusioni che confortano il sacrificio dei volontari, tutti di appartenenza borghese), e quella dei capi militari, per cui questo tipo di guerra era una cosa nuova (ma molti non avevano mai visto guerre), e che ritenevano non si desse limite in ciò che si poteva esigere dai soldati.
    C’è il contrasto altresì tra ufficiali effettivi ed ufficiali di complemento; tra ufficiali di complemento che per nascita, o perché già affermatisi nella vita civile, erano stati chiamati presso comandi o in uffici di propaganda, ed i loro colleghi sempre rimasti fra le truppe; il disagio dei politici intimiditi dalla possente personalità di Cadorna, che non riconosceva la superiorità del governo, non voleva controlli né pretese di informazioni. Appare altresì l’ossessione degli uomini politici che più avevano spinto all’intervento, smarriti di fronte agli enormi ed imprevisti sacrifici, al numero dei caduti e dei mutilati, terrorizzati all’idea di quella che sarebbe stata la reazione popolare ad una pace di compromesso, che non ci avesse dato Trento e Trieste.
    È una storia del tutto diversa, antitetica a quella degli scritti del tempo e degli anni immediatamente di poi, alla storia apologetica, con il popolo che vibra come un sol uomo di odio al tedesco, di desiderio di resistere sino alla fine.
    Il libro del Thayer prende le mosse dal 1870, ed anche rispetto agli anni 1915-’18 dà posto alle preoccupazioni dell’Italia per le possibili rivendicazioni della Santa Sede al momento della pace: che portarono alla inclusione di un apposito articolo nel trattato di Londra, considerato un errore.
    Il diario di Salandra non dice cose nuove: acredine e non finire verso Giolitti, ma anche malevolenza verso Orlando e Nitti; conferma della mancanza di ogni duttilità in Sonnino, incomprensione assoluta di questi verso l’Europa che nascerà dalla guerra, verso il posto che avranno i popoli slavi, verso le nuove Nazioni che sorgeranno e che bisognerebbe assicurare amiche all’Italia. Di qualche maggiore interesse le pagine del diario relative al decennio che segue il termine della guerra, alla crisi dopo il delitto Matteotti.
    Chi legga tutte queste pagine a tanti anni di distanza, spenta ormai ogni passione, ne trae il senso della vanità di ogni dottrina che creda di poter razionalizzare la storia, trovare la causa degli eventi in squilibri di classi o ragioni economiche; gli risuona piuttosto all’orecchio il vecchio detto che Dio toglie il senno a coloro che vuole perdere. Come si poteva nella primavera del ’15 pensare che la guerra sarebbe finita al sopravvenire dell’autunno?
    C’è da ridere, per non piangere, nel ricordare che il segno che l’Italia stava per entrare in guerra fu dato dall’ordine di abbrunire le sciabole degli ufficiali e relativi foderi; si era al decimo mese della guerra europea, ed a Roma ancora si pensava che gli ufficiali levassero al cielo la sciabola per condurre al fuoco i soldati.
    Accecamento generale; ma chi si salva? Neppure quelli che ciechi non furono nel prevedere la durata della guerra, la somma dei sacrifici, la svalutazione della lira, il colpo a tutte le vecchie strutture. Giolitti e Nitti vedevano con sufficiente chiarezza; ma Giolitti preferì – nell’inverno e primavera tra il ’14 e il ’15 – di riservarsi, essere discreto, stare lontano da Roma, allorché sarebbe occorso dare ogni sforzo per riprendere in mano le redini del governo, come fa il cocchiere smontato che vede il cavallo avviarsi al trotto verso il burrone.
    Responsabilità massiccia di Salandra che lascia scatenare le passioni politiche (non consta ci fosse, appena noto l’ultimatum alla Serbia, l’appello a tutti i direttori di giornali, uomini d’ordine, Albertini per primo, di non prendere posizione, non ostacolare l’opera del governo), e crede di cavalcare la tigre, pieno di sé. Il re assennatamente il 9 maggio gli dice che è bene vedere Giolitti che viene a Roma, intendersi con lui; e Salandra risponde che mai avrebbe fatto il presidente sotto il protettorato di Giolitti, come Luzzatti e Fortis.
    Salandra nel diario parla molto della benevolenza del re per lui: «Che gran brav’uomo è lei!» gli dice Vittorio Emanuele; Salandra non sospetta che ci possa essere un’ombra di malizia in quelle parole. Il re dice di essere pronto ad andarsene col figlio, lasciando il regno al duca d’Aosta; parlerà sul serio? Espertissimo in cose dinastiche, ben sa che un re non può impegnare i discendenti; si dovrebbe pensare ad un piano mefistofelico per dare all’inviso cugino un regno dalla legittimità sempre contestata?
    Più interessano gli accenni che sono nel libro del Melograni – e si tratta di cosa di cui spesso si è parlato – ad un colpo di Stato da effettuare con l’aiuto dell’esercito, partecipe Cadorna, ventilato nella primavera e nell’estate del ’17: follia pura, fare di tutto il neutralismo il difensore della Costituzione, eccitare reggimenti (ci sono intere brigate di cui si dubita) a lasciare il fronte per venire a difendere lo Statuto.
    Sull’intervento duro giudizio del Thayer: l’Italia era unita nei mesi della neutralità; Nord e Sud, Chiesa e Stato, Camera e popolo volevano la pace; e questa saggezza era il successo del post-Risorgimento; le giornate di maggio furono la vittoria dell’anarchia intellettuale, del giornalismo dannunziano ed insegnarono a Mussolini i metodi della sovversione. Mancava ogni giustificazione utilistica e razionalistica; l’intervento fu «un atto di follia politica e diplomatica, il trionfo dell’irrazionalismo». Ma l’autore non può ignorare quanto pur nel suo Paese i miti, le repulsioni irrazionali ostacolino la vittoria della ragione.
    Nel libro del Melograni interessante anche la pagina finale; dopo l’armistizio Orlando vieta la pubblicazione di un comunicato del Comando Supremo sulle condizioni dell’esercito austriaco, sui molti morti nella ritirata, sull’assalto di treni da parte di soldati austriaci affamati. Orlando teme che l’immagine dei morti alimenti la reazione contro la guerra, che gli assalti di soldati affamati eccitino pensieri di anarchia, che lo sfacelo dell’esercito austriaco diminuisca agli occhi del mondo l’importanza della vittoria italiana. Conclude l’autore: la vittoria «mutilata» era già nell’aria prima di Versailles.
    È tutta una storia che potrebbe intitolarsi «la disfatta della ragione». Non la prima, non l’ultima: è il nesso che mi fa unire lo scoppio della prima guerra mondiale alle cronache sulla contestazione.

    [13 luglio 1969]

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    Predefinito Re: Arturo Carlo Jemolo - Gli uomini e la storia - 1978

    VI. Dove nasce la marcia su Roma

    Una marcia su Roma sarebbe stata del tutto impensabile nella prima metà del 1914 e nei cinquant’anni che avevano preceduto. Il Risorgimento aveva avuto crisi, ma si erano sempre risolte nel rispetto della legalità (fosse pur costato sparare su Garibaldi), salvaguardando il prestigio della Corona e del Parlamento. Così era seguìto nell’avanzata estate del ’70; piuttosto che mostrare di andare a Roma sotto la pressione popolare, andarvi per decisione di governo, pure ferendo l’animo del re, passando sopra ad affidamenti dati a Parigi.
    Ma il Risorgimento aveva anche altri esempi che restarono dimenticati: il proclama di Moncalieri, per sé l’atto più incostituzionale, la minaccia agli elettori di passare sopra la loro volontà, forse di non più riconvocarli, se non votino in un certo senso: però corretto dalla controfirma dell’uomo ch’era nel ’49 il più sicuro campione di libertà, D’Azeglio; il ricorso in un’ora di generale scompiglio, quella di Mentana, a un uomo, modesto politico, ma sicuro per devozione alla monarchia e non generale da colpi di Stato, Menabrea.
    Sta comunque che gli otto anni trascorsi dal ’14 avevano tutto trasformato: abbassato il prestigio del Parlamento come quello della monarchia, e la borghesia italiana da scettica, pacifista, vagamente socialisteggiante qual era all’inizio del secolo, divenuta sensibile alle formule di vittoria tradita, di grandezza nazionale, di destini imperiali.
    Il Parlamento non si era ripreso dall’umiliazione del maggio del ’15; le elezioni del ’19 e del ’21 non consentivano salde maggioranze parlamentari; gli uomini politici restavano attaccati a vecchi rancori, inetti a scegliere tra una difesa di assetto liberistico e la decisa attuazione di un socialismo riformista.
    Quanto alla monarchia si parlava di re vittorioso, ma anche i più devoti dell’istituzione vedevano la situazione reale; c’è una sintomatica lettera di Salandra a Sonnino del periodo dell’intervento: il re non dirà mai esplicitamente né di sì né di no; un riservarsi, non impegnarsi; una gelida aspettativa; mai una parola, un gesto che dicesse alla nazione: affidatevi a me.
    La guerra aveva lasciato ferite profonde, ma non più da noi che altrove; sacrifici delle popolazioni, dura disciplina militare con decimazioni, rancore dei soldati per una condotta di guerra che si riteneva sciupasse inutilmente vite umane; acredine per gli imboscamenti, per la tracotanza di giovani ufficialetti improvvisati, per gl’industriali arricchitisi con le forniture; tutto comune al nostro come agli altri Paesi. E da noi meno intense che nei vinti le carenze dell’economia del dopoguerra, la difficoltà di sistemarsi dei reduci, il desiderio delle masse lavoratrici di avere un po’ di benessere dopo tante sofferenze, di vedere adempiute le promesse fatte.
    Sta però che quei tre anni 1919-21 di continui scioperi e tumulti, con l’assillo del peggio, scuotevano ulteriormente la borghesia italiana, timorosa più che mai, ora che a levante si era affermato un regime comunista, con guerra civile, miseria nera, tanti orrori; e decisa a difendere se stessa.
    Il combattentismo non era all’origine, e forse non fu mai, un movimento conservatore, e neppure, a guardare la sostanza, rivendicatore di una certa linea di politica estera – trarre i massimi frutti dalla vittoria, affermarsi decisamente l’Italia come grande potenza -; era movimento vago, di persone scontente, deluse, cui tornava difficile reinserirsi nella vita civile, che, come tante volte nella storia, volevano un assetto giusto (ma ciascuna con un senso diverso della giustizia), senza alcuna idea chiara del come realizzarlo.
    La guerra ci aveva tolto l’uomo che avrebbe potuto avere un grande e benefico compito in quegli anni, Cesare Battisti; moriva nel maggio del ’20, dopo un anno e più di depressione e malattia, Bissolati, che si diceva avesse la fiducia del re. Salandra, Giolitti, Nitti, si avversavano; Bonomi era combattuto tra l’originario socialismo ed il fervido interventismo; Turati aveva il vincolo di un partito che non gli consentiva di partecipare al governo; grave la responsabilità storica dei dirigenti del partito popolare per l’avversione a Giolitti, per essersi sentiti troppo forti, e non avere accettato di essere collaboratori decisi di quanto di meglio dava il vecchio liberalismo.
    Il fascismo trovava un terreno propizio, una via spianata; ma non possono negarsi le doti di capo popolo, di uomo atto a toccare le corde sensibili dell’anima popolare, a sfruttare le debolezze ed inclinazioni ataviche degl’italiani che Borgese più tardi indicava nel suo Golia proprie a Mussolini.
    La marcia su Roma conchiudeva un periodo in cui il partito fascista aveva potuto distruggere, con il favore delle autorità governative, delle questure, della stessa magistratura (che, salvo rare eccezioni, faceva un trattamento ben diverso ai «nazionali» ed ai «rossi»), tutte le organizzazioni politiche ed economiche del socialismo, di quei repubblicani che non si erano piegati, delle leghe bianche, delle realizzazioni sociali dei cattolici. Un periodo che aveva prostrato gli avversari, consci di essere vittime indifese di qualsiasi violenza, devastazioni di tipografie, di studi professionali, percosse, diffamazioni; l’olio di ricino fatto bere agli avversari resta una delle caratteristiche non tra le più feroci, ma le più odiose, del periodo.
    Tutto ciò era seguito con certo compiacimento della più gran parte della borghesia, dei ceti che un tempo si dicevano conservatori o degli uomini d’ordine, che scorgevano volentieri chi soddisfaceva per loro vecchi rancori, chi li liberava dall’assillo dell’avvento di un comunismo che facesse piazza pulita di tutto, istituzioni giuridiche ed economiche; e s’illudevano di potere poi riprendere in mano il potere e far fare ai fascisti la parte di chi aveva lavorato per il re di Prussia. Con l’indulgenza altresì della maggior parte del clero, che vedeva esso pure messi a terra i suoi nemici di sempre.
    E tuttavia fino alla vigilia della marcia ci fu chi s’illuse che all’ultimo il re non avrebbe accettato l’umiliazione, avrebbe detto di no, avrebbe difeso lo Statuto. Pare che Diaz fosse il primo a sconsigliarlo; e non è dato tacere che più di uno di quelli che erano a furono poi fermi antifascisti ritennero che bene avesse fatto il re ad evitare la guerra civile.
    Ancora una volta, magia delle parole! Probabilmente una resistenza non avrebbe mietuto vittime; pare che Mussolini prevedesse di ritirarsi in Svizzera. Ma comunque chi pensa alle centinaia di migliaia di morti, prime nelle carceri (un Gramsci), nelle uccisioni vendicative (un Gobetti ed un Amendola), poi nelle guerre di Africa e di Spagna, ed infine nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, si rende conto quanto meno sarebbe costato, anche se avessero parlato i fucili, il troncare dagl’inizi la marcia, e la difesa della capitale.
    Dei quattro quadrunviri della marcia due venivano dalle file degli uomini d’ordine; un militare di carriera, De Bono, un monarchico piemontese, De Vecchi; sindacalista rivoluzionario, già condannato per antimilitarismo, Michele Bianchi, nato in Calabria, ma formatosi tra Genova e Ferrara; dalle file repubblicane usciva Italo Balbo. Ma si errerebbe dando soverchio valore alla qualifica di quadrunviro. Mussolini non ebbe mai amici che riscuotessero tutta la sua fiducia, fu un solitario; fino all’ultimo subì il fascino dei violenti, degli uomini delle squadre d’azione, che sentiva per natura più prossimi a sé.
    La lezione della marcia su Roma? Si potrebbe anche trarre dalle pagine di Machiavelli; guai quando i popoli s’infiacchiscono, preferiscono perdere la libertà che combattere per lei; guai quando non credono più che in valori materiali, nel benessere; guai se gli uomini politici ragionano in termini di partito, di conservazione del potere, se non sono disposti ad essere impopolari, a scomparire anche, pur di difendere le garanzie che le carte costituzionali assicurano a tutti i cittadini, a quelli che sono loro sostenitori come agli avversari; guai a chi s’illude che perché oggi l’azione illegale percuote i suoi nemici, essa non cadrà domani su lui.

    [28 ottobre 1972]


    https://musicaestoria.wordpress.com/...-su-roma-1972/

    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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