Prefazione
A. C. Jemolo, "Gli uomini e la storia", Studium, Roma 1978
di Leopoldo Elia
Questo libro è molto di più che una raccolta di articoli apparsi sulle colonne di un quotidiano negli anni 1969-1977: al di là del taglio storico (una storia «in nuce» di un personaggio o di una vicenda) che caratterizza in modo significativo ogni pezzo, rendendolo omogeneo a tutti gli altri, è l’ultima parte del volume a dare ex post un’ispirazione mirabilmente unitaria ai singoli interventi. Le cinque considerazioni di uno storico sopraggiungono dopo trentasei scritti dedicati a figure e ad eventi che vanno dal postrisorgimento ai giorni nostri; ed un altro autore avrebbe forse ceduto alla tentazione di imprimere un carattere visibilmente unitario premettendo al resto le cinque considerazioni, rispetto alle quali, dunque, gli altri articoli sarebbero apparsi come esempi o come casi di applicazione di criteri più generali. Ma non Jemolo, che con grande finezza fa emergere discretissimamente le sue riflessioni generali alla fine del volume, quasi fossero il succo distillato con metodo empirico della rievocazione di singoli episodi o di vite singolari.
Del resto, l’Autore, tanto propenso a vedere fatti e persone nella concretezza della loro esperienza, è profondamente alieno dal tracciare regole universali od anche a dare carattere teorico alle riflessioni sul metodo storiografico: il suo non metodo di intuizioni collegate (come è stato detto da altri) è in relazione strettissima col suo modo di concepire gli uomini e la storia.
Quella di Jemolo è una visione che egli stesso definisce «provvidenzialista» […]: ed è qui la chiave per aprire un passaggio ad una zona tanto riservata e silenziosa della sua personalità. Egli non crede, cioè, all’ideologia del progresso né in quella versione più ingenua della fine dell’ottocento (positivista, scientista, evoluzionista) né in quella più consapevole messa in valore dall’idealismo italiano di Croce e di Gentile. Entrambe queste concezioni, pur tanto diverse tra loro, finiscono per appiattire, in qualche modo, il male al bene, il negativo al positivo, l’arbitrario al necessario, il regresso al progresso, la decadenza alla rinascita. Per Jemolo questi appiattimenti, queste riduzioni, queste elisioni non sono ammissibili, sono manipolazioni fatte dopo dagli storici e dai filosofi ottimisti: non si possono negare le vittorie, ma nemmeno le sconfitte della ragione. Il provvidenzialismo di Jemolo gli consente di rifiutare una visione della vicenda umana come puro caos o come trionfo dell’irrazionale: ma gli permette altresì di ritenere imperscrutabili le regole per cui al bene si alterna il male, alla santità la depravazione, alla saggezza la follia. Per uno spirito essenzialmente religioso quale è Jemolo la domanda fondamentale tocca pur sempre il mistero «del perché Dio abbia concesso a Satana di tentare Giobbe» […].
Ma, se il provvidenzialismo presuppone in Jemolo una visione meno condizionata dalla premessa filosofica ottimistica (egli diffida, per esempio, delle rivoluzioni che credono di tutto innovare), il pensiero della Provvidenza garantisce pure un margine ineliminabile al libero agire dell’uomo: la sfida dell’Avversario a Dio avviene certo sulla persona di Giobbe, ma la risposta dipende in definitiva dall’uomo sofferente e dalla fede dell’uomo. Di qui il monito più alto: «Ma a tutti è dato contrastare alle ondate d’irrazionalità, di torbide passioni. Non vi è nulla d’indispensabile, di necessario; possono convivere uomini di lingue e razze diverse in un medesimo Stato; possono vivere fianco a fianco persone con o senza una fede religiosa; l’economia offre scelte e soluzioni infinite. Quel che può ciascuno di noi è opporsi con coraggio, non limitandosi a tacere, alle tempeste di avversioni, di sospetti quasi sempre irrazionali (se pur c’è chi cerca di trovar loro una base nei fatti), che costituiscono il terreno propizio alle catastrofi storiche ove sorga il cattivo genio che se ne faccia strumento. In questo senso soltanto può dirsi che il singolo è operatore della storia» […].
Certo la storia non è per Jemolo, come invece per Salvatorelli, interamente opera dell’uomo: il libero agire umano, nel bene e nel male, si compone in un disegno che sarà svelato nella pienezza del tempo. Non a caso l’Autore conclude il libro con questi pensieri: «Lo storico o è moralista e giudica secondo i dogmi di una fede che sono immutabili e che lo portano talvolta a divenire eretico se la Chiesa cui compete di conservarli cerca di accomodarli ai tempi, o, altrimenti, non può giudicare che sui metri del successo e dell’insuccesso. Questo almeno è quel che pensa chi, come me, crede che ci siano leggi nella storia, ma imperscrutabili dagli uomini» […].
Si direbbe che nel disegno architettonico della Provvidenza, accanto ai «pieni» dell’esplicabile con motivazioni razionali ed umane, vi siano necessariamente i vuoti dell’irrazionale, del caotico, dell’inesplicabile per negazione dell’ordine, destinati anch’essi, peraltro, a servire un «intero» vietato allo sguardo dello storico. Così la profondità della visione provvidenzialistica che l’Autore attinge al cristianesimo consiste in primo luogo nel rispetto per il mistero, al quale resta nella vita e nella storia, come nel libro, un margine bianco non eliminabile; e pecca contro lo spirito chi vuole riempire a tutti i costi, con le spiegazioni riferite alle cause umane, lo spazio riservato all’intervento di poteri di altra natura.
L’essere cristiano e l’essere praticante (anche se altri, come ci ricorda con manzoniano sorriso l’Autore, sentivano nel suo cattolicesimo «un pochino di odore di zolfo» […]), non ha mai tolto a Jemolo le inquietudini e la propensione per gli interrogativi senza risposta, che caratterizzano la sua vocazione di storico.
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Nella parte più ampia del libro, dedicata al periodo tra il crepuscolo del Risorgimento e l’avvento della Repubblica e più in generale a vicende della storia contemporanea, ritorna l’Autore che raramente abbassa la guardia sui criteri di giudizio pur vivi nel foro interno e invece fa storia, in dimensioni diverse ma con risultati non inferiori a quelli conseguiti nei lavori di maggior mole.
Ad esempio, chi si appassiona per la storia delle istituzioni, non potrà non apprezzare più di un capitolo della prima parte: finissimo è il pezzo sulla caduta della destra storica, perché Jemolo crea una sorta di tertium genus tra il semplice mutamento di ministero, tra una crisi ministeriale qualsiasi, ed il mutamento di regime: certo non era quella una vera rivoluzione ma era sicuramente più di una normale crisi di governo. Anche se alcuni dei protagonisti e degli operatori politici del 1876 furono portati a definire con un sovrappiù d’enfasi quella svolta, è indubbio che ci fu nella vicenda di quell’anno qualcosa, come si direbbe oggi, di irreversibile: taluni dei maggiori esponenti della destra (penso a Quintino Sella) non tornarono mai al governo, malgrado la politica del trasformismo. E insomma, ad onta della garanzia di continuità rappresentata da Vittorio Emanuele II, è pur vero che si passava, senza possibilità di ritorni che non fossero a titolo individuale, ad un personale politico diverso. Siamo lontani dalla transizione, anche incruenta, ad un altro regime, ma siamo egualmente lontani da quegli avvicendamenti tra il partito di Gladstone ed il partito di Disraeli ben conosciuti nella storia costituzionale britannica della seconda metà dell’ottocento. Ciò accade quando una forza politica rimane al potere per un lungo periodo (la destra storica tenne il governo dal D’Azeglio al Minghetti) e non si tratta di un partito di massa. Più difficile è «cancellare» oggi un partito che abbia radici popolari, come fu cancellata la destra, partito di notabili aristocratici, partito parlamentare se altri ve ne fu (ma, ad onor del vero, non solo parlamentare, chi guardi al consenso di rappresentanti del censo e della cultura). Si potrà anche dire che quei governanti illuminati avevano ormai esaurito la loro missione di fondatori dello Stato unitario e che la forza statuale raggiunta in poco più di tre lustri doveva cimentarsi con altro indirizzo e personale politico: e che la maggioranza dell’opinione pubblica nutriva astio e insofferenza per lo stile di governo alquanto duro degli eredi di Cavour.
Ma, detto questo, bisogna aggiungere che Jemolo vede assai bene allorché scorge nella svolta del ’76 il passaggio del potere ad un altro tipo di uomini politici: e ciò senza esagerare l’elemento dell’innovazione rispetto a quello della continuità. Infatti egli sottolinea come, secondo la storiografia contemporanea, «le condizioni delle classi più povere non miglioravano sotto il governo della sinistra storica, né i prefetti operarono diversamente da quelli di destra» […].
Altro tema assai caro a Jemolo è quello della legalità costituzionale, così fortemente sentita dagli uomini che ressero prima del 1876 il governo d’Italia (ma ricorderei anche la fermezza di Giolitti senior contro il D’Annunzio di Fiume): durissimo dunque il giudizio sulle giornate del maggio 1915, che insegnarono a Mussolini i metodi della sovversione: «Nord e Sud, Chiesa e Stato, Camera e Popolo volevano la pace…» […]; altrettanto duro l’apprezzamento sui timori di guerra civile che fermarono la mano di re Vittorio Emanuele III, dapprima disposta a firmare il decreto di stato d’assedio nella notta tra il 27 e 28 ottobre 1922. A queste severe condanne («guai a chi si illude che perché oggi l’azione illegale percuote i suoi nemici, essa non cadrà domani su lui» […]), fa riscontro in Jemolo il favore per le decisioni legalitarie dei governi per Aspromonte e per Roma 1870, «fosse pur costato sparare su Garibaldi» […]. In definitiva l’Autore non si lascia commuovere dalle mobilitazioni «popolari», dalle impennate del «paese reale» o, per meglio dire, dalle avanguardie attive che trascinano, volenti per subìta sopraffazione, le autorità cui spetterebbe decidere in piena autonomia. Insomma, pur annoverando gli interventisti spiriti eletti e votati al sacrificio (non furono pochissimi gli interventisti democratici, laici, socialisti e cattolici), per Jemolo niente pareggia il danno subito dalle istituzioni e dalla vita democratica, ferita dall’illegalità anticostituzionale. Influisce il ricordo della marcia su Roma, ma al di là di questo evento-chiave, l’Autore ha presente che in un ordinamento ispirato ai principi costituzionali come quelli sanciti nel 1947 la tutela dell’ordine coincide con la difesa della libertà: ed anche per l’ordinamento prefascista critica Luigi Cadorna che non riconosceva la superiorità del governo […] e apprezza Menabrea, modesto politico ma sicuro per devozione alla monarchia e non generale da colpi di stato […]. L’istituto monarchico è visto anch’esso (fino al fatale periodo 1915-1922) come garante di ordine e di continuità nella legalità costituzionale.
Quanto alle idee di Jemolo in tema di assetto dei supremi poteri statuali, non è difficile vedervi affinità con le opinioni espresse alla Costituente da Calamandrei e nelle prime legislature repubblicane da Maranini. Al Calamandrei lo uniscono la scarsa simpatia per le enunciazioni programmatiche di tipo weimariano ed anche il giudizio sul ruolo troppo debole che la nuova Carta attribuisce al Capo dello Stato (in particolare gli dispiace che un uomo come Einaudi non abbia da esercitare poteri adeguati […]): inoltre la Costituzione gli sembra eccessivamente influenzata dai no alle soluzioni prevalse nel periodo fascista. Al patto «negativo» Jemolo avrebbe preferito un patto ben più positivo: «… pensiamo, senza illuderci, a quel che potrebbe l’unione in un “sì” anziché in un “no”. È un sogno, ma un bel sogno, un patto di lunghissima tregua, con intese ben definite, in cui per il primo come per l’ultimo cittadino, fossero contrapposti ai diritti i doveri, le sanzioni non apparissero oppressioni, si riuscisse a stabilire un certo accordo su ciò che debba intendersi per giustizia sociale» […].
A Maranini lo collega la polemica contro la partitocrazia e contro gli straripamenti dei partiti rispetto ai compiti ad essi assegnati nell’art. 49 della Costituzione: in questo egli è assai vicino all’ultimo Sturzo, quello che si opponeva alla conquista «partitica» delle cariche alte e meno alte negli enti pubblici economici. Più discutibile mi sembra invece negare allo Sturzo fondatore e leader del partito popolare (fino all’esilio imposto dall’alto) l’affectio per lo Stato. Bisognerebbe in effetti chiedersi: quale Stato? Perché non dovrebbe considerarsi degno di questo nome la forma di Stato quasi-federale che va affermandosi, più o meno, negli ordinamenti di democrazia occidentale? E la volontà di superare il clientelismo giolittiano (specialmente nel Sud) non indica l’aspirazione ad una democrazia più alta e matura? Nessuno vuole ignorare i pericoli di involuzione e di oligarchismo che minacciano i partiti di massa; la loro permanente tentazione di dividersi le spoglie del potere statuale e di taglieggiare, nell’una o nell’altra forma, i possibili «benefattori» delle finanze partitiche. Ma ciò non toglie che sia una specie di vagheggiamento chiedere per l’Europa quell’indipendenza dei parlamentari rispetto al partito che sopravvive soltanto negli Stati Uniti. Certo, questa posizione emerge con chiarezza piuttosto in Maranini che in Jemolo, il quale si limita ad una dichiarata nostalgia per il distacco dai partiti di origine dimostrato da Crispi o da Giolitti. Ma, appunto, i tempi dei partiti di massa non erano ancora arrivati: mentre oggi il problema è quello di far rientrare l’influenza partitica nell’ambito della «politica nazionale», rimettendo in onore, tra l’altro, la capacità professionale negletta specialmente in regime di «grandi coalizioni» a lunga durata. Tuttavia, di fronte agli abusi in concreto consumati dai partiti italiani e specialmente da quelli di governo (ma lo stesso vale per gli enti locali), più esposti alle tentazioni, bisogna riconoscere che la polemica di Maranini, di Jemolo, di Sturzo reduce dall’esilio, di Einaudi, di Merzagora e di altri è stata nettamente rivalutata in questi ultimi anni: una rivalutazione che attende a tutt’oggi un corrispettivo di provvedimenti, legislativi e amministrativi, e soprattutto di comportamento serio da parte dei leaders dei partiti e non solo da loro.
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Un altro campo nel quale Jemolo mostra le sue singolari capacità di storico della vita umana (dal punto di vista del grado di moralità e di altruismo di uomini rappresentativi di un intero periodo) è quello dedicato alla rievocazione della santità. Biografie di santi «religiosi» e si santi «laici» (eroi della prima guerra mondiale come i fratelli Garrone, ma anche anonimi demisolde dell’insegnamento medio ed elementare nello Stato unitario) rivelano una specie particolare del genere umano, legata da un dialogo impercettibile ma reale: un tipo di santità «risponde» ad un altro, superando le caratteristiche di ambiente e di tempo. Bellissime e davvero indimenticabile le pagine dedicate a Don Orione; ma molto significativo anche il capitolo su Piergiorgio Frassati, che impersona un tipo di santità contemporanea, ricca di fascino specie in un periodo di retorica nazionalista e di esaltazione della forza esteriore. Ma tutte le piccole e grandi virtù che Jemolo evoca nei suoi personaggi ci toccano nel profondo, a conferma che nella nostra epoca la storia è immensamente più efficace di ogni letteratura edificante.
È naturale che in queste rievocazioni di santi l’Autore venga a contatto con vicende della storia religiosa (ed in particolare ecclesiastica) e della storia civile: ma in genere si tratta di situazioni che non si potrebbero omettere senza una rinuncia a capire il significato delle figure rievocate. Ed è ovvio che l’interpretazione dell’opera «politica» di una personalità prevalentemente considerata sotto specie di santità possa dar luogo a giudizi più opinabili: così non mi sentirei di accogliere la qualifica di «integralista» a proposito di Dossetti […], ricordando come egli volesse dopo il 18 aprile 1948 una Democrazia Cristiana titolare di tutto il potere di governo, soltanto perché temeva che altrimenti il maggior partito fosse «deresponsabilizzato» scaricando ora sul partito liberale ora sul partito socialdemocratico le proprie interne contraddizioni, le incertezze e le remore di un partito «interclassista». Ma le pagine dedicate a Dossetti sono tra quelle che la dicono più lunga sull’apertura di Jemolo: dopo aver contrapposto il realismo di De Gasperi all’integralismo di Dossetti, l’Autore finisce col rammaricarsi che la Chiesa non abbia arrischiato l’esperimento di Dossetti arcivescovo. Secondo Jemolo egli avrebbe «tentato ed osato» cose fuori dall’ordinario come «capo del governo o presule» […]. Futuribili, non c’è dubbio: ma Jemolo si duole che «da un pezzo la Chiesa non abbia certi ardimenti» […].
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È tempo di concludere queste note di apertura troppo invadenti, che dimostrano soltanto l’interesse profondo e partecipe di un lettore legato anche affettivamente al professor Jemolo, di cui ascoltò le lezioni nei pomeriggi dell’anno accademico 1945-1946. Dirò soltanto che i tempi vissuti in questo primo semestre 1978 danno anche troppo ragione al pessimismo cristiano del nostro Autore; accusato più di una volta, magari sottovoce, di dar nel mesto e nel nostalgico, egli ha colto più di altri i pericoli e le minacce che si accumulavano intorno a noi. La nostalgia per gli abiti virtuosi di altri tempi era il modo più consueto in Jemolo di dichiarare il vuoto di moralità personale e civile ormai aperto a voragine sotto casa nostra. Solo questo è ora evidente: che il vuoto è occupato da una ferocia misteriosa e senza smagliature di pietà.
Leopoldo Elia – Roma, luglio 1978