User Tag List

Risultati da 1 a 8 di 8
  1. #1
    Partito d'Azione
    Data Registrazione
    22 Apr 2007
    Località
    Roma
    Messaggi
    13,157
     Likes dati
    309
     Like avuti
    928
    Mentioned
    40 Post(s)
    Tagged
    8 Thread(s)

    Predefinito Il partito popolare italiano (1980)



    1921: De Gasperi, Cavazzoni e Don Sturzo alla sede del PPI



    di Francesco Malgeri – In “Storia del movimento cattolico in Italia”, diretta da F. Malgeri, vol. III, Il Poligono, Roma 1980.


    I. Luigi Sturzo e le origini del popolarismo


    1. Impegno sociale e meridionalismo

    Per cogliere a pieno il significato e la novità che nella storia del movimento cattolico italiano sono rappresentati dalla nascita e dalla affermazione del partito popolare italiano nell’immediato dopoguerra, occorre ripercorrere l’azione sociale e politica di Luigi Sturzo negli anni che vanno dalla fine dell’Ottocento alla prima guerra mondiale. Non che questo personaggio possa da solo coprire la multiforme realtà che caratterizzò l’esperienza del popolarismo, ma è indubbio che si deve soprattutto a Luigi Sturzo l’intuizione e la capacità di raccordare e coagulare in una sintesi politica nuova ed originale la complessa realtà del movimento cattolico italiano all’indomani della prima guerra mondiale.
    Il nome di Sturzo ricorre frequentemente nei precedenti volumi di questa opera: lo troviamo negli ultimi e vivaci dibattiti in seno all’Opera dei congressi, nella prima democrazia cristiana, nelle organizzazioni cattoliche che operarono negli anni di Pio X. Ma è indubbio che il suo ruolo in questi anni va interpretato e misurato alla luce dell’ambiente sociale, economico e politico del Mezzogiorno d’Italia ed in particolare della sua regione, la Sicilia.
    Per comprendere Sturzo ed il popolarismo occorre quindi soffermarsi sull’attività di questo prete siciliano, nato a Caltagirone il 26 novembre 1871 da nobile famiglia, formatosi in un ambiente ricco di interessi culturali e di spirito religioso. Giovane seminarista, attratto dalla musica e dalla letteratura, spostò il suo impegno nel campo politico e sociale a contatto con la realtà della sua terra. Il suo pensiero politico e sociale matura quindi con l’attenzione ai problemi di una regione che l’unificazione politica ed economica italiana non era riuscita ad affrancare dalla miseria e da un antico malcostume politico e amministrativo; un pensiero che si arricchisce attraverso l’analisi di una realtà meridionale prevalentemente contadina, esclusa da qualsiasi vantaggio del processo unitario, costretta a pagare i costi economici ed umani delle scelte industrialiste e protezionistiche dei governi liberali, con una grande massa di cittadini che praticamente viveva ai margini della vita politica nazionale, utilizzata spesso come massa di manovra a sostegno delle consorterie locali o nazionali.
    Le idee politiche e sociali di Sturzo prendono forma a contatto con questa realtà e si rafforzano negli anni in cui frequenta a Roma l’Università Gregoriana, dal 1894 al 1898, nella Roma di Leone XIII, vicino ai fermenti e alle iniziative sociali e culturali della più impegnata gioventù cattolica italiana, che aveva trovato in Murri il suo leader. «Fu a Roma – scrisse Sturzo in una pagina autobiografica – che in mezzo ai miei studi fui realmente attirato verso le attività sociali cattoliche. Ciò che mi impressionò di più fu la scoperta di miserie ignote nel quartiere operaio (dove si trovava l’antico ghetto), che io percorsi tutto, il sabato santo del 1895, per benedire le case. Per più giorni mi sentii ammalato e incapace di prender cibo». Ad un suo compagno d’esilio, Giuseppe Stragliati, confidò, in una lettera del 1938: «Perché io mi occupo anche di politica? Perché trovo che in mezzo ad essa potrò fare del bene agli altri e realizzare, per quanto è possibile, un benessere terreno che deve servire a meglio attuare il benessere spirituale delle anime. Gesù non si occupava forse del benessere terreno quando sanava gli infermi, resuscitava i morti e sfamava le turbe nel deserto?».
    Quando Sturzo, nel 1898, ultimati gli studi a Roma, torna in Sicilia, le condizioni dell’isola non erano molto diverse da quelle che avevano determinato solo cinque anni prima il moto dei Fasci siciliani, una di quelle rivolte che, pur avendo alla base rivendicazioni abbastanza precise, assunsero forme ribellistiche e anarcoidi. L’istituzione nel 1896 di un commissario civile per la Sicilia voluto dal Di Rudinì, nel tentativo di offrire all’isola uno strumento capace di eliminare soprusi e ingiustizie fiscali, era miseramente fallito appena un anno dopo, di fronte alla resistenze e all’ostruzionismo di gruppi politici ed economici siciliani; né, d’altro canto, misure d’emergenza come la distribuzione di centomila quintali di grano alla popolazione, nell’autunno 1897, potevano risolvere problemi gravissimi legati alla struttura sociale ed economica dell’isola. Tanto che, nel febbraio 1898 si ebbero altre sollevazioni a Modica e a Troina, che provocarono scontri con la polizia e una decina di morti. Di lì a poco, nel maggio del 1898, si sentirà anche in Sicilia, sia pure in tono minore rispetto ad altre regioni italiane, la drammatica «protesta dello stomaco» che scosse profondamente il paese. Disordini si ebbero a Palermo, Siracusa e Messina.
    «Il risveglio delle popolazioni del Meridione – scriveva Sturzo sulla Cultura sociale del 16 febbraio 1902 – si accentua, ma minaccia di cadere nel vuoto di un empirismo rovinoso o di essere assorbito dalle forze prevalenti del socialismo nelle forme più irrazionali, le forme anarcoidi, senza stabilità di pensiero, senza base di cultura, senza coscienza di concezioni nette e precise». Una realtà che imponeva un impegno diverso del movimento cattolico siciliano. Da qui le aspre critiche di Sturzo all’assenteismo del clero isolano, che sembra non cogliere il valore dell’impegno diretto nella società civile. Egli coglie il limite di questo clero meridionale dipendente da patroni laici, dai municipi o dalle case principesche, dalle famiglie ricche e prepotenti, che sostengono molte spese di culto e tengono i preti per amministratori, maggiordomi, maestri di casa. Un clero immiserito dalle spogliazioni dei beni ecclesiastici e costretto più ad ingraziarsi i suoi padroni che a sostenere in diritti della Chiesa e del popolo: un prete che vive la vita di famiglia, ne cura gli interessi materiali e morali, come capo della casa, esercita la mercatura o l’industria agraria e partecipa ai partiti personali locali, municipali e politici, che non sono a base di idee ma di persone; preti che sostengono deputati radicali, altri preti che sostengono massoni o socialisti, e da qui, aggiunge Sturzo, «preti contro preti, mescolando partiti religiosi a partiti politici e creando quella coscienza atrofizzata in popoli materialmente religiosi, i quali non hanno scrupolo a sostenere nella vita politica uomini contrari ad ogni sentimento religioso e a ogni principio di onestà». In una conferenza tenuta a Piazza Armerina nel 1907, Sturzo attaccò ancora questo clero che sciupa il suo tempo prezioso nei cicaleggi delle sacrestie, nelle strade, nei circoli, nella farmacie, «in occupazioni in cui predomina l’ozio come forza principale». Questa realtà del prete più «persona ligia alla ricchezza» (come lo definiva Sturzo) che pastore d’anime, era resa più acuta dalle pratiche corruttrici del clientelismo politico e amministrativo, con una borghesia agraria che voltava le spalle alla Chiesa e tentava di accaparrare quanto poteva dai vantaggi derivanti dalla adesione allo Stato liberale. La propaganda socialista, sia pure inficiata da deviazioni rispetto alla linea ufficiale del partito, faceva breccia anche nelle campagne, come già avvenuto nelle grandi città industriali del Nord. Ci si avviava verso una lenta scristianizzazione delle masse, la parrocchia cominciava a perdere il suo carattere di centro e fulcro della comunità, non solo religiosa ma anche civile. L’emigrazione faceva il resto, disgregando le famiglie.
    L’impegno di Sturzo mirò innanzitutto a ricucire un tessuto sociale estremamente sfilacciato e ad avviare una struttura organizzativa capace di impegnare il movimento cattolico in una azione sociale ed amministrativa, quale premessa alla formazione di una reale coscienza politica. Nel 1895 aveva fondato un comitato nella parrocchia di San Giorgio, nel 1897 a Caltagirone una cassa rurale intitolata a San Giacomo. Nello stesso anno dava vita al suo primo giornale, La Croce di Costantino, che doveva distinguersi per la vivacità e per il tono battagliero. Cercò di animare la presenza dell’Opera dei congressi in Sicilia, organizzò comizi, opere economiche, agitazioni contadine, subendo anche denunce e processi. Ancora ventiquattrenne, nel 1895, aveva affermato la necessità di «non rimpiangere inutilmente i tempi passati» ma di «indirizzare per una via migliore i tempi presenti». «Le epoche si succedono – affermò Sturzo – e con le epoche camminiamo anche noi… Il popolo si vuole raccolto in associazioni perché il numero e la maggioranza, non la ragione e il diritto comandano le amministrazioni e la cosa pubblica; si riunisca dunque, non in società che hanno statuti contrari alla religione, dove trovino il retto tramite del vivere civile, l’esempio dei diritti veri, conservati dalla religione e dalle leggi. Al popolo si è dato il diritto di voto, diritto prezioso, soggetto alle passioni che più si agitano, ai partiti del giorno, alla vergogna del corrompimento elettorale; si disciplini oramai questo popolo inconscio dei suoi diritti, si faccia conoscere ch’è supremo dovere di coscienza che il voto si dia a persone idonee, che difendano la causa della religione, che è causa nostra, che propugnino il bene della patria, che è il bene comune».
    C’è già, in questo discorso, il superamento della questione romana dal quadro angusto della protesta intransigente postunitaria e c’è chiara la visione di un movimento cattolico non più rinchiuso in se stesso. È in sostanza una chiara applicazione dell’invito di Leone XIII ad «uscire fuori di sacrestia». Ma, c’è, soprattutto, la necessità specialmente in Sicilia, di una organizzazione attiva e presente sul piano sociale e politico, che doveva essere il frutto di una preparazione lenta, assidua, fatta non solo di deliberati di congressi che restavano sulla carta senza ulteriori sviluppi. Scriveva sulla Cultura sociale del 1° maggio 1898: «Perché si abbia un programma ben definito e scientificamente redatto di restaurazione sociale, non basta che lo stesso prof. Toniolo lo stenda sulla carta, è d’uopo che i migliori ingegni, gli uomini influenti, i capi del movimento cattolico nell’isola conoscano (non da un voto di un congresso) e siano convinti (non da una bella conferenza) delle linee principali e degli elementi costitutivi del programma, e preparino, con una vera propaganda, coloro che devono riceverlo e accettarlo. Bisogna cominciare ma non è affare d’un giorno o d’un congresso».
    Sturzo, in realtà, non credeva nel potere taumaturgico della democrazia cristiana di marca toniolina, da lui definita «troppo felice e romantica». È un tema su cui ritornerà spesso: «noi non abbiamo la concezione felice della società», disse nel 1903. Egli non crede nella totale palingenesi della società, attraverso la realizzazione del programma sociale cristiano, ma sa che «nel lavoro delle anime è vita di verità e di virtù morali, e nel lavoro sociale è vita di civiltà e di progresso; nell’una e nell’altra le lotte si alternano, e il male può vincere o può essere vinto dal bene». Anche la sofferta problematica culturale-religiosa di Romolo Murri sembra essere al di fuori delle sue preoccupazioni. Per il giovane Sturzo la democrazia cristiana in Sicilia diventa un mezzo, uno strumento per la soluzione di problemi resi sempre più pesanti dall’aggravarsi della crisi economica e agricola.
    Sulla base di questi obiettivi nel marzo 1900 stipulò l’atto costitutivo di una cooperativa agricola di lavoro per la condotta dei latifondi e per altre imprese agricole; nel dicembre successivo concluse l’affitto di un feudo di circa mille ettari. L’iniziativa ebbe successo e venne imitata in altri comuni ma tra contrasti, difficoltà e lotte continue, contro la resistenza di un padronato che non ammetteva cedimenti ai privilegi acquisiti. Si trattava di quello stesso padronato che riunitosi proprio a Caltagirone, all’indomani dei fasci siciliani – come ricorda Giolitti nelle sue memorie – propose «per tutta riforma, l’abolizione dell’istruzione elementare, perché i contadini ed i minatori non potessero, leggendo, assorbire delle idee nuove». Un ambiente, insomma, che, come amaramente rilevava Sturzo, in una lettera a Toniolo dell’8 luglio 1899, «per mia disgrazia vive delle idee di cento anni fa». Resistenze alle iniziative cooperativistiche vennero anche da mediatori e gabellotti, che mal sopportavano il venir meno di privilegi e vantaggi che un sistema vessatorio concedeva loro.
    Il mondo contadino siciliano è quindi, per il giovane Sturzo, un momento essenziale nella sua formazione politica e soprattutto nella ricerca di una via per avviare uno sviluppo, in chiave moderna, della società civile meridionale, con una particolare attenzione all’uomo e all’elemento religioso. Non è presente in lui soltanto il richiamo a quella tradizione cattolica che vedeva nella campagna e nelle attività rurali un elemento di salvezza contro la città che corrompe, allontana dalla fede e mina l’unità famigliare. In Sturzo c’è qualcosa di più: c’è soprattutto l’ottimistica visione di un Mezzogiorno nel quale l’agricoltura avrebbe dovuto svolgere un ruolo essenziale. La visione di un Mezzogiorno agricolo che, attraverso le autonomie amministrative, doveva fare da solo, ove l’iniziativa privata avrebbe dovuto fornire capitali, ove l’industria doveva essere legata all’agricoltura. Un Mezzogiorno centro del commercio mediterraneo, proiettato verso i paesi africani e del medio-oriente, un Mezzogiorno che poggiasse saldamente le sue fondamenta sulle migliori tradizioni cattoliche, robusto moralmente, sano spiritualmente, ove predominasse «il rispetto alla famiglia», la santità del focolare domestico, la continenza dei costumi. Questa prospettiva aveva possibilità di successo solo da un corretto rapporto fra padronato e mondo contadino, senza dar luogo ad attriti e contrasti che inevitabilmente avrebbero frenato lo sviluppo della nuova società meridionale, ottimisticamente vagheggiata da Sturzo.

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #2
    Partito d'Azione
    Data Registrazione
    22 Apr 2007
    Località
    Roma
    Messaggi
    13,157
     Likes dati
    309
     Like avuti
    928
    Mentioned
    40 Post(s)
    Tagged
    8 Thread(s)

    Predefinito Re: Il partito popolare italiano (1980)

    2. La battaglia per le autonomie amministrative

    Sin dagli ultimi anni del secolo Sturzo aveva denunciato i limiti dell’organizzazione accentrata dell’apparato amministrativo dello Stato, «nel cui immane corpo disorganico e caotico – scriveva in un articolo del giugno 1901 – si sviluppano i germi mortiferi dell’affarismo parlamentare, dell’intrigo politico, della compra e vendita del voto, della irresponsabilità dei governanti, di tutto un deforme e viziato ambiente». La sua critica era diretta contro questo Stato che faceva proprie le attribuzioni dei comuni, che violava la libertà d’insegnamento, i diritti personali e famigliari, «creando gli spostati e gli spiriti superficiali e riducendo la scienza e le lettere ad un bagaglio di mestieranti, pensionati dello Stato». La critica di Sturzo allo Stato liberale non mirava a colpire lo Stato in sé, non metteva in dubbio il risultato storico della unificazione nazionale, ma denunciava la tendenza accentratrice e livellatrice della vita amministrativa locale.
    La componente meridionalistica alimentò naturalmente questa battaglia di Sturzo, che si inserisce nella tradizione dell’autonomismo meridionalistico che ebbe in De Viti De Marco il suo maggiore esponente. Al di là degli aspetti tecnici, Sturzo vi immette un elemento di natura pedagogica. Il Mezzogiorno doveva fare da solo, svincolarsi dalla uniformità legislativa, tributaria e finanziaria che regolava la vita economica dell’intero paese, anche per acquistare una sua coscienza civile, per superare i vecchi schemi ereditati dal regalismo borbonico, che permanevano tenacemente nella società meridionale, favorendo le prassi trasformistiche e clientelari. Doveva essere anche una scuola di vita pubblica, per formare coscienze sensibili, soprattutto in campo cattolico, ai problemi delle libertà civili, allargando la base della struttura statale e qualificando in chiave democratica la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica.
    Da questa concezione emerge l’impegno municipale dei cattolici siciliani, che ebbe in Sturzo il maggior esponente. Nel 1902 organizzò a Caltanissetta un convegno dei consiglieri cattolici comunali e provinciali dell’isola, illustrando il «Programma municipale» dei cattolici siciliani, basato sull’idea della rinascita del comune come ente organico, dotato di autonomi poteri amministrativi per risolvere i problemi locali; chiese la rappresentanza proporzionale nelle elezioni, il referendum popolare sulle questioni di maggior interesse e invitò i cattolici alla partecipazione attraverso partiti municipali autonomi, al di fuori dai gruppi clientelari locali, per avviare una moralizzazione della vita pubblica.
    Nel 1905 fu eletto sindaco di Caltagirone. Tenne la carica fino al 1920, impegnandosi per una sana amministrazione della cosa pubblica, colpendo i privilegi e la corruzione. Questa carica lo portò ad una conoscenza profonda e ad una competenza sorprendente del complesso sistema di norme e regolamenti che reggono le pubbliche amministrazioni. Partecipò anche, attivamente, all’Associazione dei comuni italiani, ove fu membro del consiglio direttivo, collaborando con socialisti, repubblicani e liberali a difesa delle autonomie comunali.
    Al di à di questi aspetti, nella battaglia municipalistica di Sturzo vanno sottolineati altri elementi di particolare significato. Da un lato il carattere antigiolittiano della sua battaglia, nel senso che egli interpretava, in sintonia con Gaetano Salvemini, la prassi giolittiana tesa a controllare attraverso i prefetti la vita locale, influenzando con metodi intimidatori anche le competizioni elettorali, la causa principale del malcostume e della corruzione politica del Mezzogiorno. In secondo luogo va sottolineato il carattere dell’organizzazione dei partiti cattolici municipali siciliani, prevalentemente ispirati alle idee della democrazia cristiana e guidati da democristiani quali Mangano, Torregrossa, Locascio, Arezzo, ecc. Scriveva Sturzo nel 1904: «Tutto quanto esiste in Sicilia di opere sociali o di organizzazioni è stato fondato da democratici cristiani. Vero è che della democrazia cristiana di parecchi c’è da fare poca fidanza o per superficialità di idee, o per preoccupazioni personali, o per debolezza di carattere. Però il criterio, lo stampo, la vitalità, quella comunicata e quella comunicabile, dai migliori nostri uomini, che riscuotono la fiducia, che lavorano e che quindi hanno l’influsso dell’idea che personificano, è nel complesso e nella maggior parte democratica cristiana».
    Questa componente del movimento cattolico siciliano al sorgere del nuovo secolo si caratterizza – soprattutto grazie a Sturzo – per una intransigenza programmatica capace di far maturare una chiara coscienza politica e di partito nei militanti cattolici. Si tratta di una intransigenza non più legata al rifiuto dello Stato unitario, che caratterizzò l’opposizione cattolico-papale post-unitaria, ma diretta ad una presenza operativa dei cattolici nella società civile, con precise istanze politiche e sociali: l’intransigenza per Sturzo – osserva Gabriele De Rosa - «diventa metodo, si detemporalizza, si trasforma in impulso interiore, in coscienza critica. L’intransigenza non divide, non separa più il cattolico dalla realtà delle istituzioni e del pensiero moderno; non lo tiene chiuso nella sua protesta. Essa da negazione assoluta, da mito catastrofico si risolve storicisticamente in una forza critica positiva all’interno della società moderna. Con Sturzo, in breve, l’intransigenza tende a staccarsi dall’origine ecclesiastica e parrocchiale, dall’ambito della polemica risorgimentale e a diventare criterio informatore di azione politica e civile; è sempre meno programma e più convinzione, vocazione e istinto di libertà».

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  3. #3
    Partito d'Azione
    Data Registrazione
    22 Apr 2007
    Località
    Roma
    Messaggi
    13,157
     Likes dati
    309
     Like avuti
    928
    Mentioned
    40 Post(s)
    Tagged
    8 Thread(s)

    Predefinito Re: Il partito popolare italiano (1980)

    3. L’idea di partito

    Le prime esperienze organizzative e amministrative di Sturzo in Sicilia tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX evidenziano un non marginale contenuto politico e si pongono come base essenziale nella impostazione di un progetto di partito politico. Un progetto che comincia a delinearsi nel pensiero sturziano tra il 1902 e il 1905, proprio nel momento di più acuta crisi del movimento cattolico italiano, con una democrazia cristiana in via di liquidazione e con un’Opera dei congressi che aveva esaurito i suoi compiti e non rispondeva più alle esigenze poste dai tempi nuovi. La stessa idea di partito autonomo, vagheggiato da Murri, stava naufragando in iniziative incapaci di aggregare le masse cattoliche, combattute dalla Chiesa e lacerate da profondi contrasti dottrinali.
    L’idea del partito maturò in Sturzo nel quadro stesso delle sue attività sociali, organizzative e amministrative, intese come mezzo di elevazione sociale e morale delle masse contadine, come presupposto per il riscatto del Mezzogiorno e come base per lo sviluppo di una coscienza civile, politica e democratica dei cattolici organizzati.
    Sturzo, che aveva interpretato il ruolo della prima democrazia cristiana più un mezzo che un fine nel processo di sviluppo del movimento cattolico, allorché esplode, tra il 1903 e il 1904, la crisi del movimento, non rimane legato e invischiato ad una specie di mito infranto, senza più sbocchi e prospettive. Ad evitare questo rischio lo aiuta principalmente l’ormai consolidato processo organizzativo da lui avviato in Sicilia. Allorché Giambattista Valente lo invitò nel 1905 a partecipare ai tentativi autonomistici democratico-cristiani, Sturzo rispose, il 25 maggio, esortandolo a non attardarsi in iniziative con scarse possibilità realizzative, in «chiesuole» senza concreti agganci con la società e con il mondo cattolico. Riaffermò, invece, la necessità di «intensificare l’azione locale in tutti i sensi per creare, se possibile, condizioni circondariali, provinciali o regionali delle opere omogenee o quasi, secondo le tendenze locali, sia pure conservatrici, meglio che non ipocritamente democratiche». Ed aggiungeva: «Tutto ciò creerà lo spirito di partito che ci manca, e che potremo avere solo quando ci saremo affermati nella vita amministrativa e politica con una certa serietà: altrimenti rischieremo di essere quattro gatti di buona volontà e ci azzufferemo pro o contro l’autonomia, pro o contro l’Opera dei congressi o giù di lì».
    Insomma, lotte contadine e impegno amministrativo rientrano per Sturzo nell’ambito di una prospettiva politica più vasta. Al di là, c’è la visione del partito, un partito che nasce fuori da implicazioni ecclesiologiche o teocratiche, fuori dalla parrocchia, con una visione aconfessionale, laica e democratica che doveva maturare nella coscienza delle masse cattoliche.
    Il 29 dicembre 1905, nel Circolo di lettura di Caltagirone, Sturzo pronunziò un discorso che doveva rappresentare una tappa fondamentale nella storia del movimento cattolico, non tanto per i riflessi immediati che ebbe, quanto per le indicazioni sul futuro della presenza cattolica nella vita pubblica italiana e sulle linee politiche e ideologiche che avrebbero dovuto caratterizzarla. Gabriele De Rosa ha definito questo discorso la magna charta del partito popolare, vera pietra miliare nella storia del movimento cattolico italiano.
    Sturzo esordì rivendicando al movimento democratico cristiano un ruolo fondamentale nella trasformazione del pensiero e dell’atteggiamento dei cattolici italiani verso la vita moderna e i suoi problemi sociali, politici ed economici; sottolineò soprattutto il carattere nuovo e moderno del movimento d.c. rispetto al vecchio atteggiamento intransigente legato a formule e concezioni ormai superate. Insomma, grazie al movimento d.c., era penetrato il convincimento che i cattolici «più che appartarsi in forme proprie» dovessero intervenire come tutti gli altri partiti nella vita moderna, nelle sue svariate forme, «per assimilarla e trasformarla; e il moderno, più che sfiducia e ripulsa, desta il bisogno della critica, del contatto, della riforma». Ma questo intervento nella vita pubblica non poteva essere condotto in nome della religione o della Chiesa, come partito clericale al servizio dell’autorità religiosa, «ma come una ragione di vita civile informata ai princìpi cristiani nella morale pubblica, nella ragione sociologica, nello spirito del pensiero fecondatore, nel concreto della vita politica». Occorreva, cioè, che i cattolici si mettessero «a paro degli altri partiti nella vita nazionale, non come unici depositari della religione o come armata permanente delle autorità religiose che scendono in guerra guerreggiata, ma come rappresentanti di una tendenza popolare-nazionale nello sviluppo del vivere civile».
    Sturzo intende quindi superare l’ibridismo politico-religioso che aveva caratterizzato l’Opera dei congressi, ma intende anche respingere il tentativo di una riorganizzazione delle forze cattoliche attraverso le formule del clerico-moderatismo, che egli interpreta come tentativo di coalizione clericale, come una «specie di ritorno storico della reazione», che frustrava le potenzialità vitali del mondo cattolico. Ma per arrivare al partito nazionale, senza riserve mentali e con piena coscienza, occorreva sgombrare il campo da alcune pregiudiziali che velavano una chiara e precisa fisionomia dell’impegno politico dei cattolici.
    1) La pregiudiziale nazionale, vale a dire il riconoscimento dello Stato nato dal Risorgimento, il riconoscimento dei cosiddetti «fatti compiuti» che per decenni fu al centro di polemiche e di scontri. Sturzo ritiene inutile attardarsi in rimpianti del passato. La realtà storica imponeva anche ai cattolici un giudizio che secondo Sturzo è netto e preciso: «Noi oggi possiamo affermare che fu un bene l’unità della patria, che fu un bene per essa si fosse lottato; e che però nel perseguire questo ideale, molti generosi ebbero slanci di virtù, molti ingannarono e fecero male. Il patrimonio che oggi abbiamo può essere inquinato, rovinato anche dalle ipoteche di un passato dilapidatore; ma ci ha dato una vita, e l’affermiamo questa vita, col nostro intervento».
    2) La pregiudiziale della questione romana: come dovevano porsi i cattolici di fronte alle rivendicazioni della Santa Sede e ai rapporti tra Stato e Chiesa? Per Sturzo occorreva aspettare «che una vera evoluzione storica» sciogliesse questo problema, «sorto dalle persecuzioni rivoluzionarie e maturato all’ombra di un editto di tolleranza». Ciò che Sturzo esclude è che la questione romana o il problema del ritorno del potere temporale potesse essere assunta come ragion d’essere del futuro partito dei cattolici: «non sarà mai possibile che un partito politico, e peggio cattolico, possa risolvere con un’azione diplomatica o un atteggiamento parlamentare la questione romana, di cui il papa non solo è l’unico giudice competente, ma anche l’unica forza attiva di una soluzione che mille fattori dovranno maturare».
    3) La pregiudiziale verso la monarchia italiana, cioè l’atteggiamento da assumere verso la monarchia e la dinastia sabauda a lungo contestata dall’intransigentismo cattolico post-unitario. Pur non manifestando eccessive simpatie per l’istituto monarchico, Sturzo accetta lo statu quo, accetta la monarchia sabauda come espressione dell’unità nazionale, augurandosi che la monarchia potesse assolvere questo compito senza cedere a tentazioni autoritarie o reazionarie: «Noi non abbiamo nessuna ragione di aderire alla monarchia. Per noi non è il simbolo di un passato, né una forza per l’avvenire; per noi, re o presidente, non rappresenta che la somma dei poteri dello Stato, non mai l’ideale della potenza militare o i fasti di una casa cui siano legate le sorti d’Italia. Solo accettiamo il fatto compiuto, nel senso che nessuna ragione di fatto c’invoglia a mutare quello che è l’ordinamento attuale. Noi con la monarchia di oggi, troviamo sintetizzata l’unità della nazione e la rappresentazione dell’autorità assommata in un trono; e auguriamo che nessuna reazione militare, nessun ideale imperialista, nessuna pretesa di affermare diritti antagonistici al popolo induca la monarchia a mettersi in urto con la nazione». Né l’altare né il trono erano da considerarsi elementi essenziali e fondamentali per il partito dei cattolici: «la difesa dell’altare è la difesa della religione; e la difesa del trono è la difesa del principio di autorità: né l’altare né il trono sono coefficienti organici del partito cattolico, ragioni costituzionali dell’organismo di una vita libera, costituzionale, popolare».
    Sciolti questi nodi, Sturzo entra nel terreno dell’impostazione programmatica del partito, ponendo i cattolici di fronte ad un bivio, ad una scelta chiara e inequivocabile: «o sinceramente conservatori, o sinceramente democratici». Rifiuta una soluzione ibrida, che poteva creare equivoci, confondere i cattolici con i conservatori liberali, provocare il distacco di chi voleva spingere il partito «sul cammino delle progredienti democrazie». La soluzione che propone Sturzo esce dall’ipotesi del moderatismo cattolico lombardo vicino a Filippo Meda, che auspicava l’inserimento dei cattolici nella prospettiva gradualistica del sistema giolittiano. La proposta di Sturzo è una proposta democratica, antimoderata, autonoma da condizionamenti o collusioni con altre forze politiche. Il rischio della scissione delle forze cattoliche non sembra preoccuparlo, lo giudica risultato di ragioni «logiche e storiche, e che risponde alla realtà del progresso umano». È questa la parte più viva e più forte del programma proposto da Sturzo: «A me democratico autentico, convinto e non dell’ultima ora, è inutile chiedere quale delle due tendenze politiche, nel senso comune della parola, io credo che risponda meglio agli ideali di quella rigenerazione della società in Cristo, che è l’aspirazione prima e ultima di tutto il nostro precorrere, agire, lottare. È chiaro che io stimo monca, inopportuna, che contrasta ai fatti, che rimorchia la Chiesa al carro dei liberali, la posizione di un partito cattolico conservatore; e che io credo necessario un contenuto democratico del programma dei cattolici nella formazione di un partito nazionale. (…) Da soli, specificatamente diversi dai liberali e dai socialisti, liberi nelle mosse, ora a destra ora a manca, con un programma consono, iniziale, concreto e basato sopra elementi di vita democratica: così ci conviene entrare nella vita politica. Non la monarchia, non il conservatorismo, non il socialismo riformista ci potranno attirare nella loro orbita: noi saremo sempre, e necessariamente, democratici e cattolici. La necessità della democrazia nel nostro programma? Oggi non la saprei dimostrare, la sento come un istinto; è la vita del pensiero nostro. I conservatori sono dei fossili, per noi, siano pure dei cattolici: non possiamo assumerne alcuna responsabilità». È un concetto che già due anni prima, il 1° dicembre 1903, aveva espresso, con altrettanto vigore, in una lettera a Filippo Meda: «Se noi nella vita pubblica – scriveva Sturzo – non ci stacchiamo dai liberali moderati, dai conservatori in quanto tali, noi non arriveremo ad avere altra personalità che quella sola di clericali, come ci chiamano, buoni a protestare e a lamentarsi a parole, e poi nei fatti ad aiutare gli stessi liberali con le alleanze nella vita amministrativa e con l’appoggio secreto, ipocrita, anche di cleri nelle elezioni politiche; gente irrigidita nelle formule, che fa ideale del passato storico, bestemmia il presente e non prepara l’avvenire».
    Era possibile, nel 1905, dar vita ad un partito sulla base del modello e delle indicazioni programmatiche offerte da Sturzo? La linea di Pio X, tesa alla organizzazione di un laicato cattolico su prospettive essenzialmente religiose e sotto il controllo della gerarchia ecclesiastica rendeva particolarmente difficile la realizzazione di quel progetto; la sofferta esperienza autonomistica di Murri e della Lega democratica nazionale ne erano la riprova. Insomma, in quel momento, sul piano politico la linea vincente non è certamente quella proposta da Sturzo: prevale, al contrario, la prassi clerico-moderata che, legando i cattolici alla maggioranza liberale allontanava la realizzazione di un organismo politico ad ispirazione cristiana con proprio programma e propria autonomia. Sturzo si rendeva bon conto di questa situazione, sapeva bene che avviare tentativi autonomistici significava imboccare una strada senza uscita, con il rischio di incorrere in una condanna vaticana che avrebbe spiazzato il movimento rispetto alla grande maggioranza del mondo cattolico.
    Il discorso di Caltagirone è quindi più un «manifesto» politico e ideale che non un vero e proprio strumento operativo: esso indica le linee da seguire, con lavoro paziente e tenace, indica l’obiettivo da realizzare attraverso una presenza attiva nelle organizzazioni contadine ed operaie, nelle amministrazioni comunali e provinciali, nelle cooperative e nei sindacati, respingendo le collusioni con altre forze e rifiutando la partecipazione elettorale su basi clerico-moderate. Da qui il rinnovato invito al rispetto del non expedit, proprio negli anni in cui la linea astensionista sembrava battuta. Ma l’astensionismo elettorale su cui Sturzo insiste non riecheggia i toni catastrofici di un Paganuzzi o di un Sacchetti. Non è più il rifiuto dello Stato unitario e delle sue istituzioni, non è antiparlamentarismo né strategia difensiva nella anacronistica attesa messianica di un impossibile ritorno al passato. Sturzo, ormai, è ben lontano dalle rivendicazioni temporaliste, che pur lo contagiarono nei primi anni di seminario. Né il lui prevale, in assoluto, l’idea di una vocazione extraparlamentare del movimento cattolico. Come ha osservato Francesco Piva, l’astensionismo dalle elezioni politiche era in quel momento per Sturzo «un mezzo perché il partito cattolico acquistasse personalità propria nella vita pubblica. Egli giudicava che, senza questa preparazione antibloccarda, il movimento cattolico inevitabilmente sarebbe stato succube delle centrali liberali, sarebbe stato ridotto a pura massa di manovra, a riserva di voti rimorchiata dalla coda di un partito moderato sia in politica sia in religione. (…) Se la Santa Sede aveva superato una interpretazione rigida del non expedit, il problema non cambiava: il cosidetto partito cattolico non era ancora per lui un partito autonomo. Raggiunta questa maturità era possibile passare dall’astensionismo puro all’interventismo puro con un partito ben definito rispetto alle altre forze politiche».
    Insomma, un partito che doveva nascere dal basso: per questo l’attività di Sturzo, negli anni dell’età giolittiana è tutta orientata verso un lavoro paziente, una preparazione lenta ed una opposizione decisa contro le tentazioni clerico-moderate. I suoi scritti di questi anni testimoniano una tenace lotta contro la politica di Giolitti, che mirava ad inglobare l’elettorato cattolico nell’alveo del sistema politico liberal-moderato, subordinandolo alle esigenze tattiche dello statista piemontese.
    Sturzo avversò questa linea, ebbe parole di fuoco contro la partecipazione cattolica alle elezioni del 1904 e del 1909, cercò di evitare la conclusione del patto Gentiloni nelle elezioni del 1913. Considerava l’accordo tra i candidati liberali e l’Unione elettorale cattolica del conte Gentiloni una operazione di tipo trasformistico e corruttore. In vista delle elezioni tentò di correre ai ripari almeno in Sicilia, proponendo candidature dichiaratamente cattoliche con programmi precisi e vincolanti. Ma, l’introduzione del suffragio universale maschile anziché attenuare, come molti prevedevano, accentuò il ricorso a metodi corruttori, durante le elezioni, soprattutto nel Mezzogiorno, perché il controllo di un più vasto numero di elettori imponeva metodi più decisi. I candidati cattolici in Sicilia (tra cui Francesco Parlati, presentatosi nel collegio di Terranova, feudo elettorale dell’on. Pasqualino Vassallo), incontrarono un sistematico boicottaggio, caratterizzato da violenze di tipo mafioso. Un sacerdote di Butera così descriveva in una lettera a mons. Mario Sturzo, vescovo di Piazza Armerina, fratello di Luigi, il modo in cui si erano svolte le elezioni nel suo paese: «Butera è stata da tre giorni fuori ogni legge; qui le elezioni sono state fatte dalla forza pubblica accostata con tutta la malvagità locale e con tutta la malavita di Riesi. Sin da venerdì Butera è stata bloccata da un numero stragrande di Riesini, armati sino ai denti, che han seminato lo spavento nel popolo (…). Venerdì sera i rappresentanti di Parlati, bastonati di santa ragione, dovettero lasciare Butera accompagnati dai carabinieri; un rappresentante di Crescimone con la testa rotta; venerdì sera Pontecorvo e i due sacerdoti Passaniti e Giunta, ebbero appena tempo di far chiudere le imposte della cassa rurale, che si voleva invadere a mano armata, e di scappare sui tetti». In altra località, a Mazzarino, secondo la testimonianza di un altro sacerdote, Ursino, la forza pubblica «spalleggiò la malavita, la quale accolse a sassate il candidato Parlati assieme al popolo di Mazzarino (…); durante il periodo elettorale organizzò e diresse caprari, zolfatari, mafiosi, permise a vigilati speciali di scorrazzare liberamente la notte per operare con mezzi troppo persuasivi nel campo elettorale, che perquisì mattina e sera i contadini per atterrirli; che minacciò di togliere permessi di porto d’armi e chiudere spacci di vino; che presentò denunzie anonime contro pacifici cittadini, facendole avvalorare dalle testimonianze della malavita».
    Tutta una serie di episodi che avvaloravano la convinzione di Sturzo ed erano la riprova della sua tesi: il rapporto fra moderatismo liberale ed elettorato cattolico non era una alleanza politica su basi paritarie, bensì una subordinazione, basata su una visione trasformistica e clientelare del potere, che non ammetteva pari dignità fra le due parti. Solo con una forza politica e con un programma autonomo i cattolici avrebbero potuto svincolarsi da questa morsa che avviliva le loro istanze sociali e le loro proposte politiche.

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  4. #4
    Partito d'Azione
    Data Registrazione
    22 Apr 2007
    Località
    Roma
    Messaggi
    13,157
     Likes dati
    309
     Like avuti
    928
    Mentioned
    40 Post(s)
    Tagged
    8 Thread(s)

    Predefinito Re: Il partito popolare italiano (1980)

    4. L’affermazione di Sturzo sul piano nazionale

    In questi anni la figura di Sturzo comincia anche ad uscire da un ambito prevalentemente locale per affermarsi sul piano nazionale. Al congresso cattolico di Modena del 1910, la prima assemblea plenaria dei cattolici dopo lo scioglimento dell’Opera dei congressi, Sturzo assieme a Miglioli, Bertini, Cecconelli e Chiri, in rappresentanza delle più attive organizzazioni sindacali, matualistiche e cooperativistiche cattoliche, attaccò la linea prudente dell’Azione cattolica, dell’Unione elettorale e dell’Unione economico-sociale, proponendo un programma e una disciplina ben precisi sulla base di organizzazioni di classe, abbandonando le vecchie formule delle unioni professionali miste e puntando, invece sulle leghe operaie e contadine. Il congresso di Modena offrì a Sturzo la misura di una maturazione del movimento cattolico, non ancora tale, però, da consentire a breve termine la creazione del partito. Le due anime del movimento «l’anima antica e la nuova» - scrisse Sturzo – non trovavano ancora una consonanza: «da una parte i giovani propagandisti e organizzatori, che lavorano e soffrono a contatto con la realtà e di questa portano la voce; dall’altra gli scolastici, che seguono il pensiero nostro sociale dall’alto, coniando formule desunte dalle idee e non dai fatti, e al congresso lavorano nel silenzio delle quinte».
    Il prestigio e la accresciuta notorietà di Sturzo, il suo impegno e la sua attività alacre, lo portano a significativi riconoscimenti e a ricoprire cariche di prestigio in campo cattolico e in campo nazionale: nel settembre 1912 viene eletto presidente della «Niccolò Tommaseo», l’organizzazione degli insegnanti cattolici della scuola inferiore; nel 1914 entra a far parte del consiglio direttivo dell’Unione popolare cattolica e nel marzo 1915 viene nominato segretario della Giunta centrale; sempre nel marzo 1915 è eletto vice-presidente della Associazione dei comuni italiani; nel 1916 diviene segretario dell’Opera nazionale per gli organi di guerra, istituita dalla Azione cattolica; nell’agosto dello stesso anno il ministro dell’agricoltura, Ranieri, lo nomina membro della Commissione centrale approvvigionamenti, importante istituto economico ai fini della guerra.
    Soprattutto durante gli anni di guerra, Sturzo entra in contatto con gli apparati dello Stato. La sua notevole competenza nel campo amministrativo e della finanza locale si arricchisce nel settore dell’amministrazione centrale dello Stato, di cui coglie i limiti e prospetta riforme in congressi, conferenze e discorsi, preparando il terreno alla definizione di un preciso programma di riforma amministrativa dello Stato.
    L’atteggiamento di Sturzo di fronte alla prima guerra mondiale, ed in particolare all’intervento italiano, è stato oggetto di particolare attenzione da parte degli storici, in quanto la sua posizione si distacca dal diffuso neutralismo presente nel mondo cattolico. Sin dai giorni della serrata polemica tra correnti interventiste e neutraliste, Sturzo intravede nella guerra uno strumento capace di provocare profonde e radicali trasformazioni in Italia ed in Europa, capace di abbattere il vecchio mondo nato dalla rivoluzione francese, gestito dal liberalismo massonico e anticlericale. La sua posizione nei confronti della guerra si muove, comunque su piani diversi e può apparire, entro certi aspetti contraddittoria. È indubbio che egli non veda con sfavore l’intervento italiano in guerra e che si venga spesso a trovare su posizioni non lontane dall’interventismo democratico di un Salvemini o di un Bissolati, che interpretavano la guerra come difesa delle democrazie parlamentari contro gli autoritarismi e il militarismo degli Imperi centrali. Ciò provocò polemiche aspre con i neutralisti cattolici alla Miglioli, che giudicavano la guerra come inutile sacrificio imposto al paese e soprattutto alle masse contadine. Per altro verso, però, Sturzo non mancò di sostenere e difendere la posizione pacifista e mediatrice che caratterizzò la linea del pontificato di Benedetto XV negli anni della guerra.
    È indubbio, comunque, come ha osservato Gabriele De Rosa, che Sturzo vide nella guerra «la grande occasione storica per liquidare in radice il sistema trasformistico giolittiano e per riproporre in tutta la sua pienezza la proposta di una presenza cattolica unificatrice della coscienza nazionale sul terreno civile e politico». La guerra, secondo Sturzo, avrebbe provocato una grande palingenesi sociale, da cui doveva uscire sconfitta la vecchia politica che sfruttava il Mezzogiorno e che aveva bandito la religione dalla società civile. Sturzo, del resto, non fu il solo a credere in questo ruolo palingenetico della guerra. Anche il giovane Gramsci non nascose le sue simpatie interventiste, ritenendo il conflitto mondiale condizione favorevole al processo rivoluzionario: «da un’altra prospettiva – scrive Francesco Piva – anche Sturzo affidò insomma alla guerra una portata eversiva di una trama politica dominata da Giolitti e da Turati, che egli aveva combattuto. La guerra rimetteva in discussione l’intero assetto del paese, mobilitava energie prima assopite; sembrava ai suoi occhi risvegliare lo spirito di autogestione e di responsabilità civile che poteva spezzare i legami clientelari che imbrigliavano il Mezzogiorno. Sembrava, in ultima analisi, rivalutare nella difesa del paese l’importanza politica e morale delle masse contadine che gli stavano tanto a cuore».

    https://musicaestoria.wordpress.com/...l-popolarismo/

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  5. #5
    Partito d'Azione
    Data Registrazione
    22 Apr 2007
    Località
    Roma
    Messaggi
    13,157
     Likes dati
    309
     Like avuti
    928
    Mentioned
    40 Post(s)
    Tagged
    8 Thread(s)

    Predefinito Re: Il partito popolare italiano (1980)

    II. La nascita del Partito popolare italiano


    1. Guerra e dopoguerra

    Nella storia italiana degli ultimi cento anni pochi avvenimenti hanno avuto conseguenze e riflessi paragonabili alla prima guerra mondiale. Essa incise profondamente e traumaticamente sulla società italiana, non solo per i sacrifici e i lutti che impose al paese, ma perché segnò una sorta di rivoluzione che trasformò il costume, la mentalità, il comportamento degli italiani. Dopo circa tre anni e mezzo di guerra non troviamo più lo stesso paese lasciato nel maggio del 1915. Non troviamo più l’«Italietta» giolittiana che, pur con i suoi problemi e i suoi drammi, appariva gaia e spensierata agli occhi di qualche osservatore. La guerra è uno spartiacque tra l’Italia liberale e risorgimentale, borghese e provinciale, e l’inquieta Italia del dopoguerra, che nel fuoco e nel sangue della guerra sembra aver perduto i suoi antichi valori, senza trovarne altri sui quali porre le basi per una nuova convivenza civile. Tutte le profonde contraddizioni che avevano accompagnato la società italiana in mezzo secolo di storia unitaria, a lungo contenute all’interno di un sistema sociale con le sue valvole di sicurezza, esplodono improvvisamente nel clima del dopoguerra.
    L’Italia del dopoguerra, una Italia che aveva pagato i costi più pesanti della politica economica, industrialistica e protezionistica dei governi liberali da Depretis in poi, che aveva con l’emigrazione oltre Oceano e oltr’Alpe cercato la soluzione di secolari problemi di sopravvivenza nella speranza di nuovi e più fortunati destini, spesso illusori, questa Italia contadina è costretta a pagare anche i costi più duri della guerra, nelle trincee e in prima linea, a diretto contatto con il fuoco nemico. Fianco a fianco si conoscevano per la prima volta dopo mezzo secolo di unità nazionale i contadini delle più lontane regioni italiane, dalla Calabria, dalla Sicilia alla Lombardia al Veneto, culture e uomini diversi e lontani, uniti in un’unica e drammatica esperienza, di cui a stento riescono a coglierne la ragione. Cresce in loro una solidarietà nazionale nuova che è anche solidarietà di classe, li unisce la sorte comune ma anche una comune speranza di giustizia. La propaganda bellica alimenta queste speranze: lo slogan «la terra ai contadini» è ripetuto dai giornali; le stesse autorità militari, nei momenti più difficili della guerra alimentano illusioni che rimbalzano di trincea in trincea. L’attesa della terra simboleggia non solo l’antico sogno del contadino italiano, ma è anche attesa di giustizia, attesa di un mondo nuovo che, posate per sempre le armi, avrebbe dovuto assicurare un migliore avvenire per tutti.
    Questo sentimento accomuna la gran parte dei reduci, crea speranze che dovevano scontrarsi con sorde resistenze e con una realtà estremamente difficile. Alle speranze deluse seguì la protesta e l’azione rivendicativa. Le notizie che giungevano dalla lontana Russia, ove di stava realizzando la prima grande rivoluzione proletaria della storia, alimentano una sorta di attesa messianica: nelle fabbriche si prendono a prestito dalla rivoluzione bolscevica alcuni strumenti operativi: i soviet, i consigli di fabbrica, il controllo sulla gestione delle imprese; nelle campagne leghe rosse e leghe bianche organizzano occupazioni di terre per ottenere ciò che era stato promesso durante la guerra.
    Diversi sentimenti maturano nella piccola e media borghesia italiana, che aveva voluto e fatto la guerra sull’onda di sentimenti patriottici e nazionalistici, vissuti spesso con sincera e genuina partecipazione. L’ideale della riconquista delle terre irredente e della affermazione dell’Italia sul piano internazionale, di un paese più forte e più rispettato, viene frustrato dall’atteggiamento delle grandi potenze vincitrici alla conferenza della pace. Viene coniato un nuovo slogan, quello della «vittoria mutilata». Si aggiunga una difficoltà notevole per questi reduci a reinserirsi nella vita civile: «Molti rimpiangevano – ha osservato Giampiero Carocci – il prestigio di cui avevano goduto da ufficiali e che era ben superiore di quello che avevano da civili. Molti, sia per idealismo che per necessità materiali, aspiravano profondamente ad una maggiore giustizia sociale. Anche essi, come i socialisti, erano indignati dello spettacolo degli arricchiti di guerra, dei cosiddetti “pescicani”. Ma odiavano i socialisti, da cui venivano offesi in quello che avevano di più caro: nella loro sensibilità di borghesi e di ex combattenti. Le sofferenze patite insieme nelle trincee non erano state sufficienti a far loro superare il tradizionale distacco se non addirittura il disprezzo, verso il proletariato».
    La guerra non influenza soltanto l’atteggiamento dei reduci. Anche chi è rimasto a casa, chi ha vissuto i problemi del «fronte interno» subisce le scosse della guerra. Le donne costrette a lavorare in fabbrica, devono subire la diffidenza degli operai, devono provvedere, in assenza dei mariti al fronte, ai lavori dei campi, alla gestione delle case e delle famiglie. In questi anni di guerra le donne diventano protagoniste di scioperi e agitazioni, contro l’aumento dei prezzi, per il pane, per ottenere licenze ai mariti.
    È, quindi, l’intera società italiana a subire i contraccolpi della guerra. L’apparato industriale è mobilitato; attraverso le commesse belliche alcuni complessi industriali crescono in misura eccezionale, realizzando grandi profitti. Lo Stato diventa il centro motore dell’economia nazionale, una sorta di cliente unico per questi complessi. Industrie come l’Ilva e l’Ansaldo crescono artificiosamente: la fine della guerra, con la sospensione delle commesse provoca la crisi. Il problema della riconversione industriale è uno dei più gravi dell’economia italiana del primo dopoguerra. Il rincaro crescente del costo della vita, il crollo della lira rispetto alle monete più forti quali il dollaro, la forte flessione nella produzione di grano e cereali, sono altrettanti elementi che vengono a colpire il potere d’acquisto di impiegati, salariati, braccianti, mentre i piccoli proprietari subiscono il peso più pesante del carico fiscale.
    Questo il quadro, sia pure sommario, che caratterizzava la nuova e difficile realtà italiana del primo dopoguerra. Ha scritto Federico Chabod: «Il profondo sconvolgimento che la guerra ha prodotto nella vita italiana colpisce tutti gli interessi, offende tutti i sentimenti. Interessi colpiti: piccoli borghesi che cadono nelle strettezze economiche: grandi proprietari fondiari che cominciano a temere l’avvento del bolscevismo italiano e vedono con sgomento l’occupazione delle terre, gli scioperi, le agitazioni operaie. Sentimenti offesi: in primo luogo l’amor di patria, all’estero e nello stesso paese. Da parte delle masse si attende qualcosa di nuovo: s’è tanto parlato di pace, di maggiore giustizia sociale, tanto spesso, durante la lotta, si è fatto appello al popolo, garantendogli un avvenire migliore».
    In questo contesto nuovo, così complesso e così carico di fermenti e di attese, in questo aspro clima di scontro sociale e politico si colloca la nascita del primo vero e proprio partito ad ispirazione cristiana nella storia del nostro paese. La palingenesi sociale che Sturzo aveva intravisto negli anni della guerra prendeva corpo, non solo in Italia, ma in tutta Europa. Il vecchio continente assiste al crollo di un assetto politico formatosi con le rivoluzioni borghesi e nazionali nel secolo XIX e consolidatosi negli anni successivi. La guerra spazza via la secolare monarchia asburgica e il trono degli Hohenzollern, secolari pilastri della conservazione in Europa; nuove nazionalità acquistano autonomia politica nei paesi balcanici; risorge la Polonia; gli Stati Uniti d’America fanno sentire sull’Europa il peso della loro potenza economica e dei loro ideali democratici, sintetizzati nei quattordici punti di Wilson; la vecchia Europa non è più il centro del mondo; la rivoluzione bolscevica diventa un punto di riferimento per una gran parte del proletariato europeo, che ovunque chiede il riconoscimento tangibile dei sacrifici sofferti in trincea, chiede una diretta partecipazione alla vita politica.
    La guerra non era ancora finita e già Sturzo individuava i fermenti sociali che avrebbero caratterizzato il dopoguerra. In una conferenza a Caltagirone, il 26 agosto 1917, affermava: «Il popolo rifatto da questa immane guerra che torna dalle trincee o che è vissuto nelle ansie della lotta, il popolo che nell’agone e nella lotta con la società borghese, già vecchia e traballante nei suoi cardini, la soppianterà in forza di princìpi sociali ispirati al cristianesimo da una parte e al socialismo dell’altra, il popolo saprà negare con la forza della nuova società che viene affermandosi, saprà negare le ragioni dei predomini armati». In un articolo sul Corriere d’Italia del 12 novembre 1918, pochi giorni dopo la fine della guerra, scriveva ancora: «Un fremito di riforme, nel disfacimento dei vecchi ordinamenti e nel crollo di poteri assoluti o quasi, ormai penetra in Europa; e come al ’31, al ’48, al ’60, le borghesie soppiantarono il potere feudale e militare, così oggi le democrazie domandano la loro partecipazione diretta alla vita pubblica, al di fuori di monopoli occulti o di poteri irresponsabili o di consorterie dominanti e di razze di predominio. Male si provvederebbe alla patria nostra – ammonì con tono quasi profetico – se pretesi comitati nazionali volessero assurgere a focolari di vita a sé, in dissenso, in contrasto col Parlamento stesso, per prendere in momenti difficili la direzione anche al di sopra del paese».
    Sturzo ritiene ormai opportuno stringere i tempi. Le condizioni per realizzare il suo progetto politico erano ormai mature. La guerra aveva rimescolato le carte della vita politica nazionale; nel nuovo terreno aperto ad una più ampia partecipazione democratica delle masse c’era posto anche per i cattolici militanti, che potevano inserirsi nella vita pubblica come forza nuova, come componente essenziale per un rinnovamento dello Stato e della società italiana.
    Il 17 novembre 1918, in una conferenza al Circolo di cultura di Milano, Sturzo parlò di «nuova èra di popoli, come quella della rivoluzione francese, nuova concezione statale oggi segue la guerra, nuovo fiotto di vitalità democratica; i popoli dicono la loro parola, finché nell’acquetarsi di violente passioni scatenate fra le masse si rassodi un ordinamento che diventi sintesi concreta dei valori maturati nella catastrofica vigilia delle armi (…). Nessuna nazione presto o tardi sfuggirà alla grande palingenesi: tali scosse ha patito e patirà ancora il corpo sociale vivente ed evolventesi: e la rivalutazione morale più che riflessa volontà viene fatta nella elaborazione istintiva delle coscienze singole e collettive». Ma il discorso di Milano andò oltre. Sturzo tracciò un vero e proprio programma di rinnovamento e di riforme. Attaccò la concezione panteista dello Stato sovrano e assoluto, «forza dominatrice e vincolatrice, norma e legge morale, potere incoercibile, sintesi unica di volontà collettiva», rivendicando le libertà individuali e collettive, la libertà religiosa, la libertà d’insegnamento, il decentramento amministrativo, le autonomie comunali e la libera organizzazione delle classi. Sturzo tornò anche sulla questione romana: ancora una volta non ne fece una questione di parte, ma la inquadrò nel più ampio contesto nazionale: la Chiesa aspettava «solo dall’Italia, nell’amore dei suoi figli, il riconoscimento pratico del diritto della libertà e indipendenza religiosa (…). E più che mai oggi – aggiunse – quando i vecchi presidi umani così compromessi, son caduti sotto il maglio della storia, spetta ai popoli il compito di rifarsi una coscienza morale per rivalutare nella sua realtà l’essenza del problema della libertà religiosa».
    Con il discorso di Milano Sturzo poneva le concrete premesse del partito: era chiaro che le linee programmatiche da lui indicate erano le basi sulle quali dovevano porsi i cattolici come attiva componente del quadro politico italiano, non più come forza di riserva ai margini della vita parlamentare. La conclusione del discorso non ammette dubbi sulle sue intenzioni: «A questa nostra futura Italia dedichiamo anche noi le nostre piccole e modeste forze, quando tanti e tanti nostri fratelli le han dato il sangue e la vita nelle tragiche ore di una enorme guerra; quando il risveglio dei nuovi ideali e delle nuove tendenze ci deve rendere convinti di un dovere che non cessa sol perché la lotta cruenta è cessata, ma che ci chiama alle lotte del pensiero, alle lotte civili e politiche, con la stessa voce suadente della madre che fa appello alle virtù del figlio. E noi con lo stesso amore rispondiamo all’appello, se l’Italia, il cui nome desta ancora i fremiti della vittoria, se l’Italia, in cima ai nostri affetti ci trova preparati a contribuire in ogni campo ai suoi grandi rinnovellati destini».
    Insomma, al di là dei toni lirici usati da Sturzo, che risentono del clima generale, carico di patriottismo, che contrassegnò ogni pubblica manifestazione in quel fatidico novembre 1918, Sturzo annuncia pubblicamente l’ingresso ufficiale dei cattolici nella vita pubblica italiana. Lo steccato che per decenni aveva diviso il mondo cattolico dallo Stato unitario, stava per essere abbattuto.

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  6. #6
    Partito d'Azione
    Data Registrazione
    22 Apr 2007
    Località
    Roma
    Messaggi
    13,157
     Likes dati
    309
     Like avuti
    928
    Mentioned
    40 Post(s)
    Tagged
    8 Thread(s)

    Predefinito Re: Il partito popolare italiano (1980)

    2. Il Vaticano e il nuovo partito


    Tra gli ascoltatori presenti al discorso di Sturzo si trovava anche l’arcivescovo di Milano, il card. Andrea Carlo Ferrari, eccezionale figura di pastore, che non aveva mancato di sostenere il movimento cattolico milanese, dagli anni della prima democrazia cristiana in poi. Al termine del discorso il card. Ferrari chiese a Sturzo se gli argomenti da lui trattati avessero avuto un preventivo assenso da parte della Santa Sede. Sturzo rispose negativamente, riaffermando la sua tesi sulla opportunità di non compromettere le autorità ecclesiastiche in iniziative politiche che i cattolici, in quanto cittadini, ritenessero opportuno intraprendere. Il cardinale sembrò convincersi, ma consigliò comunque a Sturzo di recarsi presso il Segretario di Stato vaticano, il card. Gasparri, per ottenere la revoca ufficiale del non expedit, che ancora formalmente era in vigore e che rischiava di impedire ai cattolici il libero esercizio dei loro diritti politici. «Vada dal card. Gasparri – disse a Sturzo l’arcivescovo di Milano – esponga a lui tutto quello che lei ha detto qui; vada subito e gli parli chiaramente».
    Sturzo partì per Roma, chiese udienza al card. Gasparri; vi si recò in compagnia del conte Carlo Santucci, uno dei superstiti delle riunioni di casa Campello del 1879, allorché si tentò la costituzione di un partito conservatore cattolico. Il Santucci era procuratore concistoriale e intimo amico del Segretario di Stato.
    Pietro Gasparri fu tra le figure più significative ed emblematiche della storia della Chiesa nell’età contemporanea. Nato a Ussita, nelle Marche, nel 1852, amava definirsi, con una punta di civetteria, «pecoraro», richiamandosi all’industria della pastorizia esercitata dalla sua famiglia. Fu protagonista delle vicende della Chiesa nell’arco di ben quattro pontificati (da Leone XIII a Pio XI), coprendo negli ultimi due, per quindici anni, la massima carica politica vaticana, con uno stile per molti versi personalissimo e con un’abilità diplomatica non comune. Personaggio controverso, su cui i contemporanei e gli storici hanno espresso diversi e spesso contrastanti giudizi, che vanno dall’esaltazione, con accenti apologetici, specie nel clima di euforia che seguì la firma dei Patti lateranensi nel 1929, a critiche severe e feroci per le compromissioni con il fascismo. Sturzo lo definì uomo di eccezionale cultura giuridica e capacità diplomatica, «collaboratore ideale per Pio XI». Meno freddo e più convinto il giudizio che su di lui espresse don Giuseppe De Luca: «Da Leone XIII a Pio X, e poi soprattutto da Benedetto XV a Pio XI, dire il card. Gasparri non soltanto volle dire quell’uomo che egli era, un lavoratore agguerritissimo e fortunato, un ingegno stragrande, un cuore di provata fedeltà; volle anche dire un indirizzo, un tono, un’aria (…). C’è chi lo ritiene il Consalvi del ‘900, uomo dunque di un’arte consumata e somma, e c’è chi lo chiama il Giolitti della Chiesa, uomo di grande mestiere, ma mestiere; c’è al contrario chi rifiuta di calcolarlo altro che un segretario di Stato, come ce ne sono stati parecchi, unus multorum. Noi lasciamo alla storia la sentenza ultima. La sua politica, se è lecita una impressione di profano, è l’ultima politica europea di tipo tra veneziano e inglese, ispirata cioè dai fatti più che dalle idee, dal diritto più che dalla cosiddetta cultura».
    Personaggio complesso, quindi, che da un esame superficiale potrebbe anche apparire contraddittorio. Ma, a ben guardare, gli atti e le decisioni di Gasparri rispondono ad una ben precisa linea politica. Formatosi alla scuola di Leone XIII, il segretario di Stato di Benedetto XV e di Pio XI si portò dietro per tutta la vita una mentalità e un costume che fu tipico della generazione vissuta all’ombra del pontificato di papa Pecci, che egli stesso definì «memorando nella storia della Chiesa». Da qui il suo fastidio, negli anni di Pio X, per quella politica di ripiegamento delle forze cattoliche, in una funzione subalterna al sistema giolittiano, che ebbe nel patto Gentiloni la sua più clamorosa espressione. Sostanzialmente, e sembra contraddittorio per l’uomo che fu tra i maggiori realizzatori della Conciliazione, Gasparri era e restò sempre un intransigente. Il suo conciliatorismo non era alla Tosti e alla Bonomelli, ove era vivo più che altro, il desiderio, l’aspirazione ad una comunione d’intenti fra moderatismo liberale e mondo cattolico, una intesa spirituale più che giuridica nel nome dell’unità italiana, con residui accenti di sapore neoguelfo. Il conciliatorismo di Gasparri assunse, invece, le forme di una specie di rivincita di porta Pia e tale rimase fino all’11 febbraio 1929. Una rivincita che annullasse la legge delle Guarentigie, facesse giustizia, sia pure sotto un aspetto più formale che sostanziale, del mal tolto e restituisse alla Chiesa una parvenza di potere temporale. Il moderatismo liberale, la massoneria, il socialismo rappresentano per Gasparri altrettanti ostacoli ai fini di una soluzione della questione romana in termini tali da consentire alla Santa Sede sovranità internazionale basata sul possesso reale di un territorio, sia pure simbolico. La sua insofferenza per un Giolitti – che aveva affermato che non avrebbe mai concesso alla Santa Sede un territorio, neanche grande come un francobollo – o per un Sonnino – che aveva imposto l’esclusione della Santa Sede dalle trattative di pace, con l’art. 15 del Patto di Londra – nasceva dalla convinzione che mai questi uomini, legati alla tradizione laico-risorgimentale, avrebbero fatto concessioni tali da rimettere in discussione i termini della questione romana e si sarebbero sempre opposti, con il loro non marginale peso politico e la loro influenza presso la Corte, ad una pur minima alterazione della sovranità nazionale.
    Nel novembre 1918 Sturzo si trova costretto, suo malgrado, ad affrontare il giudizio di Pietro Gasparri e a sottoporre alla Segreteria di Stato il suo progetto di partito e il suo programma politico. Ad un primo incontro, di fronte alla richiesta di Sturzo, Gasparri apparve riservato, chiese tempo, disse di doverne parlare al Papa e invitò Sturzo a tornare dopo due o tre settimane. Poco prima di Natale il sacerdote siciliano era di nuovo in Vaticano. Lo stesso Sturzo ha più volte ricordato quell’incontro: «In quella udienza sentivo il cuore battermi con eccitazione. Quella sera subii un vero interrogatorio stringente, e durante alcuni minuti pensai che la causa era perduta». Sturzo esordì chiedendo se, in caso di formazione di un partito «fra cattolici», il Papa avrebbe tolto il non expedit. Ma Gasparri replicò chiedendo ulteriori chiarimenti: «Ammessa l’ipotesi che il Papa dica di sì, che politica farete voi verso la Chiesa?». «Nessuna politica contraria è chiaro – rispose Sturzo – ma anche nessuna politica speciale come partito. La questione romana è questione nazionale». Il cardinale incalzò: «Che politica farete voi? la politica di Sonnino o di Orlando?» Sturzo rispose che personalmente era contrario a Sonnino ma aspettava il responso del primo congresso del partito per precisare la linea politica da seguire. Di punto in bianco Gasparri chiese: «E che farà lei se il congresso le dirà di collaborare con Treves e Turati?». Sturzo rispose: «Sono pronto a collaborare anche con essi. Non ne avrei paura». Sturzo temette, con questa risposta di aver compromesso la sua causa, temette che di fronte ad una eventuale ipotesi di collaborazione tra cattolici e socialisti il Vaticano avrebbe frapposto ostacoli al nuovo partito. Invece la risposta di Gasparri fu rassicurante e sorprese lo stesso Sturzo. Sorridendo sarcasticamente, affermò: «Bravo! sarà meglio collaborare con Turati che collaborare con Sonnino: faccia pure quel che il congresso delibererà, ma eviti sempre di parlare a nome del Vaticano o a nome dell’Azione cattolica». E concluse: «Se lei farà bene sarà suo merito e se farà male il paese giudicherà». Ad una ulteriore richiesta di Sturzo circa l’abolizione del non expedit, Gasparri rispose: «Il Santo Padre provvederà quando e come crederà meglio».
    Il Segretario di Stato vaticano sembra, quindi, cogliere l’importanza della nascita di un partito «fra cattolici». Sembra anzi non nascondere le sue simpatie verso questo partito, la cui impostazione al di fuori da responsabilità della Santa Sede e con un programma che, pur ispirandosi ai valori del cristianesimo non voleva essere espressione di una fede religiosa, trovava il suo consenso. Esistono, a questo riguardo altri documenti, a partire dalle stesse memorie di Gasparri: «Resta – egli scrisse – il mio favore al partito popolare. Le mie idee relative al partito popolare erano conosciute perché esposte varie volte nell’Osservatore; io ritenevo che non poteva chiamarsi partito cattolico, quasi che fosse l’esponente o il rappresentante della Chiesa cattolica e della Santa Sede in Italia e nel Parlamento ma che era un partito politico come tutti gli altri, con un programma che si avvicinava di più ai princìpi cristiani, nonostante alcune lacune. Non era neppur vero, come sosteneva il Giornale d’Italia che il partito popolare fosse voluto dal S. Padre Benedetto XV; il partito popolare sorse per generazione spontanea, senza alcun intervento politico della Santa Sede, né pro né contro».
    È una versione confermata da altre fonti; da una lettera di Gasparri a Santucci del 1° aprile 1928, dove riafferma che la nascita del partito avvenne «senza intervenzione della Santa Sede» e da un brano autobiografico dello stesso Santucci, che scrive: «Il giorno stesso in cui fu definitivamente approvato dai promotori il programma del partito popolare e l’appello agli italiani, io reputai dovere, attese le nostre amichevoli relazioni, di recarmi dal card. Gasparri per leggergli quei documenti. Egli li percorse rapidamente, e poi disse: “Sta tuto bene; solo tenete fermo di non dare al partito nome di cattolico o di cristiano, ma d’Italiano, affinché non possa credersi che esso rappresenti il Vaticano, il quale è e vuole essere estraneo”».
    Gasparri, insomma, sembra anche lui cogliere la nuova realtà del paese. Comprende che anche ai cattolici spettava un ruolo politico, che fosse espressione di un programma autonomo e non di derivazione ecclesiastica; che i cattolici, come cittadini di uno Stato, fossero portatori di istanze civili e politiche. Comprende che la soluzione della questione romana poteva essere trovata, in quel momento, nell’ambito della società italiana e del rispetto della libertà religiosa. Il partito di Sturzo avrebbe potuto svolgere su questo piano un ruolo non indifferente per far superare al paese vecchi pregiudizi anticlericali. Ma, questa iniziale benevolenza subirà negli anni successivi, soprattutto dopo l’avvento al potere di Mussolini notevoli incrinature. Il partito popolare non troverà più in Vaticano molte simpatie. Il fatto è che Sturzo da un lato e Gasparri dall’altro, pur trovandosi d’accordo alla fine del 1918 sulla impostazione da dare al partito, si muovevano su direttrici diverse. Gasparri mirava soprattutto alla soluzione della questione romana e seguiva questa sua politica con grande fermezza e spregiudicatezza; Sturzo mirava ad inserire i cattolici nella vita pubblica italiana come portatori di precise istanze ed interessi, come forza democratica capace di avviare un processo di riforma delle strutture civili, economiche e amministrative del paese. Quando le due direttrici vennero ad incrociarsi, per Sturzo ed il suo partito, come vedremo, la vita diventò molto più difficile con l’altra sponda del Tevere.

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  7. #7
    Partito d'Azione
    Data Registrazione
    22 Apr 2007
    Località
    Roma
    Messaggi
    13,157
     Likes dati
    309
     Like avuti
    928
    Mentioned
    40 Post(s)
    Tagged
    8 Thread(s)

    Predefinito Re: Il partito popolare italiano (1980)

    3. Le riunioni preparatorie


    Gli scritti, gli articoli, i discorsi di Sturzo successivi alla fine della guerra gettarono le basi per una serie di dibattiti e di incontri che dovevano segnare l’atto di nascita del partito popolare italiano. Fra i primi ad intervenire in questo dibattito troviamo Stefano Cavazzoni, rappresentante fra i più noti del movimento cattolico in Lombardia, ex democratico cristiano, convertitosi poi alla linea clerico-moderata, fautore, durante l’età giolittiana di un raggruppamento cattolico di centro su ferme posizioni antisocialiste e favorevole ad intese con i liberali. Il 17 novembre il Corriere d’Italia pubblicò una lettera di Cavazzoni a Sturzo, nella quale, dopo aver esposto un programma di riforme sulla linea del pensiero cristiano-sociale, prospettiva l’ipotesi di un partito che fosse emanazione, o per meglio dire un ulteriore stadio di evoluzione dell’Azione cattolica, con fisionomia simile al Centro cattolico tedesco e su posizioni ben distinte rispetto alle forze più estreme. Sturzo rispose a Cavazzoni, sempre sul Corriere d’Italia, il 24 novembre: ribadì la necessità di distinguere funzioni politiche da attività religiose e di creare una coscienza di partito non attraverso gli organismi dell’Azione cattolica, ma nella coesione spirituale e nella consapevolezza di chi aderiva al programma e ai princìpi informatori del partito.
    Negli stessi giorni, il 23 e 24 novembre, Sturzo aveva convocato a Roma, nella sede dell’Unione romana, in via dell’Umiltà 36, un gruppo di amici fra i più rappresentativi in campo cattolico. Intervennero alla riunione: Boggiano Pico, Borromeo, Campilli, Cavazzoni, Cingolani, De Rossi, Genuardi, Grandi, Longinotti, Mangano, Martire, Mattei Gentili, Merlin, Preda, Seganti, Tupini e Valente. I convenuti si trovarono d’accordo nel riconoscere la necessità di dar vita ad una forza capace di rappresentare i cattolici sul piano politico con fisionomia e responsabilità propria. Si stabilì, inoltre, di convocare per il 16 e 17 dicembre una «piccola costituente», per gettare le basi concrete del futuro partito. A questa assemblea vennero invitati quarantuno fra i maggiori esponenti del movimento cattolico, in rappresentanza di quasi tutte le regioni italiane. Convennero a Roma: Banderali (Genova), Bazoli (Brescia), Belloni A. (Roma), Benvenuti (Treviso), Bertini (Senigallia), Boggiano Pico (Genova), Borromeo (Roma), Bresciani (Brescia), Bussetti (Roma), Campilli (Roma), Cappa (Bologna), Caputo (Cosenza), Cavazzoni (Milano), Cingolani (Roma), Conio (Milano), Fascetti (Pisa), Grandi (Milano), Longinotti (Brescia), Mangano (Palermo), Martinelli (Como), Martinoli (Rho), Martire (Roma), Mattei Gentili (Roma), Mauri (Milano), Merlin (Rovigo), Olivieri di Vernier (Torino), Pecoraro (Palermo), Pesenti (Venezia), Pichetti (Brescia), Rodinò (Napoli), Rovasenda (Torino), Santucci (Roma), Scevola (Voghera), Seganti (Roma), Torriani (Torino), Uberti (Verona), Valente (Faenza), Vicentini (Ferrara), Vigorelli (Pavia), Zaccone (Torino). Personalità, a volte, distanti fra loro: si andava da un vecchio conservatore nazionale come Carlo Santucci, a sindacalisti come Valente e Grandi, ad ex democratici cristiani come Bertini, Mangano e Cingolani, ad esponenti di gruppi finanziari come Vicentini. Diversità di orientamenti e di posizioni che pesarono sulle discussioni attorno alla natura del partito: Cavazzoni, ad esempio, auspicava un partito di concentrazione fra i cattolici, lontano dalle due estreme; Tupini intravedeva una sorta di partito del lavoro; Longinotti voleva un partito di collaborazione fra le classi «nella giustizia sociale»; Vicentini sottolineava l’importanza del programma di ricostruzione industriale. Alla fine prevalse l’idea di dar vita ad un partito che rispondesse alla crescente attesa di rinnovamento del paese, sulla base di un «programma sociale, economico e politico di libertà, di giustizia e di progresso nazionale, ispirato ai princìpi cristiani» (art. 1 dello Statuto). Venne anche nominata una commissione provvisoria, composta da Sturzo (Segretario politico), Bertini, Bertone, Cavazzoni, Longinotti, Mauri, Merlin, Rodinò e Santucci, con il compito di definire gli atti costitutivi del partito. Uno dei problemi affrontati dalla piccola costituente fu quello del nome. In un appunto lasciato da Sturzo compaiono le quattro alternative sottoposte all’assemblea: partito popolare, partito popolare nazionale, partito popolare cristiano, partito democratico cristiano. La scelta definitiva (partito popolare italiano) rispondeva all’esigenza, più volte manifestata da Sturzo, di un partito che fosse emanazione del popolo, che evitasse anche nel titolo aggettivi che richiamassero motivi confessionali e che sottolineasse la sua cittadinanza italiana, evitando, comunque, accentuazioni di sapore nazionalistico. Nel discorso di Caltagirone del 1905, a proposito del nome da dare al futuro partito, Sturzo aveva affermato: «Noi ameremmo che il titolo di cattolici non fregiasse il nostro partito e i nostri istituti. Che se urta al nostro senso estetico leggere in cima alle insegne delle nostre banche o delle nostre società di assicurazione e dei nostri giornali il titolo di cattolici, urta anche e più che urta confonde i termini il vedere che domani un partito politico o amministrativo assuma la ragione di cattolico».

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  8. #8
    Partito d'Azione
    Data Registrazione
    22 Apr 2007
    Località
    Roma
    Messaggi
    13,157
     Likes dati
    309
     Like avuti
    928
    Mentioned
    40 Post(s)
    Tagged
    8 Thread(s)

    Predefinito Re: Il partito popolare italiano (1980)

    4. L’appello «a tutti gli uomini liberi e forti»



    Nel cuore della vecchia Roma, alle spalle del Pantheon, in via santa Chiara, una di quelle strade strette, con le sue ombre e le sue luci, che formano il dedalo suggestivo e ricco di testimonianze e di ricordi legati alla storia e alla vita della Roma dei papi, si trova l’albergo Santa Chiara. Questo antico albergo romano è passato alla storia come la sede che vide l’atto di nascita del «Partito popolare italiano». La sua fortuna è legata al caso. Qui alloggiava Luigi Sturzo alla metà di gennaio del 1919, allorché era stata convocata la commissione provvisoria che doveva definire l’appello, il programma e lo statuto del nuovo partito. Una indisposizione aveva costretto Sturzo a non muoversi dall’albergo, per cui, anziché nella sede dell’Unione romana, in via dell’Umiltà, la commissione provvisoria fu costretta a riunirsi nella stanza d’albergo di Sturzo. Dopo tre giorni di riunioni, il 18 gennaio 1919 vennero resi noti alla stampa l’appello al paese, lo statuto e il programma del partito.
    L’appello del P.P.I. diretto «a tutti gli uomini liberi e forti» si caratterizza per forte tensione etica e civile, per il richiamo ai problemi e alla realtà del dopoguerra e alla attesa di pace, giustizia e libertà, per la richiesta di profonde trasformazioni politiche, amministrative e sociali. Il programma, in dodici articoli, entrava nel dettaglio di questi problemi: invocava l’integrità della famiglia e la tutela della moralità pubblica; la libertà d’insegnamento e la diffusione della cultura popolare e dell’istruzione professionale; il riconoscimento giuridico e la libertà dell’organizzazione di classe nella unità sindacale; una legislazione sociale, assistenziale e assicurativa a tutela del lavoro; lo sviluppo delle cooperative e della piccola proprietà; l’organizzazione e lo sfruttamento delle capacità produttive del paese; la colonizzazione del latifondo, le bonifiche, lo sviluppo del Mezzogiorno; il decentramento amministrativo con il riconoscimento delle funzioni proprie del comune, della provincia e della regione; la riorganizzazione della beneficienza, dell’assistenza pubblica e della previdenza sociale; la libertà e indipendenza della Chiesa nella esplicazione del suo magistero spirituale; la riforma tributaria sulla base dell’imposta progressiva; l’introduzione della rappresentanza proporzionale, del voto femminile e del Senato elettivo; la tutela dell’emigrazione e del commercio; il rispetto della Società delle Nazioni quale arbitro dei rapporti internazionali; l’abolizione dei trattati segreti e della coscrizione obbligatoria; il disarmo universale.
    «L’appello a tutti gli uomini liberi e forti – ha scritto Gabriele De Rosa – è uno dei documenti più elevati e di maggior impegno civile della nostra letteratura politica, una carta d’identità perfettamente laica, senza riserve e pregiudiziali clericali di nessun genere, espressione singolare di una consapevolezza altamente liberale dei problemi di un moderno Stato democratico, uscito dal dramma del primo conflitto mondiale. Le ansie riformatrici, le aspettative pacifiste, le esigenze di un contenuto più sostanziale e popolare da assegnare alla funzione della democrazia parlamentare erano tradotte in un linguaggio misurato e moderno, accettabile da quanti confidavano nelle possibilità di una evoluzione graduale del nostro sistema sociale, senza passare attraverso la strada breve della rivoluzione. Era un fatto nuovo nella nostra storia politica, che un partito si presentasse all’opinione pubblica con una carta programmatica, con un documento, peraltro, che fondava la sua ragione di essere nella lezione ricavabile dall’esperienza, dal risultato di una prova viva consumata da un popolo intero durante la guerra e ricondotta nei termini di un impegno cauto e prudente e fare tesoro dei messaggi culturali più aperti e generosi della filosofia politica cristiana del periodo della guerra: dalla condanna dell’ “inutile strage” di Benedetto XV ai “14 punti” di Wilson».
    Si trattò di un programma politico che, pur rifacendosi alle istanze programmatiche del movimento cattolico postunitario (si pensi alla tutela della famiglia, alla libertà d’insegnamento, al riconoscimento dei sindacati, al decentramento amministrativo, ecc.), per altri versi appare nuovo e riflette la realtà europea del primo dopoguerra, non solo per il richiamo al rispetto del principio di nazionalità e per la difesa dei popoli deboli contro gli imperialismi, ma anche per lo spirito accentuatamente democratico, per la totale assenza di richiami integralistici e l’abbandono di qualsiasi idea di fare del mondo cattolico elemento di blocco d’ordine antipopolare. Un partito, insomma, che tenta di inserirsi nella vita pubblica italiana come forza democratica e laica, con precise istanze civili, con una visione pluralistica e dinamica della società e delle istituzioni.
    È indubbio quindi che la guerra influì e non poco sui modi e sui tempi della nascita del partito popolare. Ma è altrettanto indubbio che il popolarismo è anche il risultato di un preciso processo storico legato alle vicende del movimento cattolico italiano. Scrive ancora Gabriele De Rosa: «Guerra o non guerra, sarebbe stato solo questione di tempo. Difatti, non fu tanto il conflitto mondiale a provocare la nascita del partito popolare, quanto l’evoluzione del sistema sociale, prodotto dalla rivoluzione borghese, che aveva liquidato per sempre la formula dell’alleanza trono-altare, che aveva detemporalizzato la politica della Chiesa lasciando le plebi e il proletariato a contendere da soli contro il capitalismo aggressivo della borghesia industriale e contro l’impoverimento delle campagne. Non erano più problemi della beneficienza e dell’économie charitable: il vescovo non avrebbe potuto essere né capolega né capopartito. Insomma, dietro la nascita del partito popolare non vi fu, né avrebbe potuto esservi, una volontà chiesastica, quale che sia, né il fatto occasionale, per imponente e catastrofico che sia stato, della guerra. Avremmo avuto, con o senza intervento nel primo conflitto mondiale, un partito nazionale di cattolici. Però non ci sentiamo di escludere l’influsso che ebbe la guerra sul modo con il quale nacque ed operò il partito di Sturzo. E questo fu indubbiamente grandissimo».
    In sostanza, il nuovo partito fu la presa di coscienza, in chiave democratica, di un movimento che aveva avuto varie e molteplici esperienze: dall’intransigentismo protestatario e temporalista, al conciliatorismo, alla stagione della prima democrazia cristiana di Romolo Murri, al centrismo di Meda, all’esperienza delle leghe bianche contadine di Guido Miglioli, a tutta una fitta rete di associazioni religiose, culturali, sindacali, mutualistiche, cooperativistiche, di giornali, scuole, istituti di credito. Il popolarismo fu, per molti aspetti, il coagularsi di iniziative, programmi, progetti idee in un organismo politico nuovo e moderno. Sturzo fu il realizzatore di questo disegno, di un partito, cioè, concepito e vissuto secondo una precisa ispirazione sociologica e politica, un partito che nasce non soltanto attraverso elaborazioni teoriche ma a diretto contatto con la realtà del paese e con l’attenzione ai suoi problemi. Ma il passaggio dal vecchio movimento cattolico al partito popolare non fu un processo meccanico e lineare: fu il risultato di diversi elementi e condizionamenti storici che favorirono la nascita e l’affermazione di quel partito e non di altri.
    L’area sociale alla quale guardava il partito popolare era molto ampia, andava dal mondo contadino nelle sue molteplici articolazioni (con particolare attenzione ai fittavoli, ai mezzadri e ai piccoli proprietari), agli artigiani, alla piccola e media borghesia urbana (dagli insegnanti agli impiegati), ai ceti professionistici. Più limitata l’influenza nei settori operai, se si escludono i tessili e i ferrovieri. Le aree geografiche nelle quali il P.P.I. raccoglieva i maggiori consensi erano le regioni centro-settentrionali (in particolare il Veneto, la Lombardia, la Toscana, le Marche), regioni nelle quali preesisteva una solida rete organizzativa del movimento cattolico e dove più intensa ed efficace era stata l’azione rivendicativa nelle leghe contadine e dei sindacati bianchi. Più debole la presenza del partito nel Sud e nelle isole, se si eccettua la Campania e la Sicilia.
    Intento di Sturzo era di creare un raccordo, una sintesi tra masse lavoratrici e borghesia, «nel tentativo – affermò – di portare una parola di giustizia nella valutazione sociale, etica ed economica del lavoro». In sostanza, l’«utopia politica» di Sturzo mirava, secondo il De Rosa, a coagulare «le numerose frange di scontento al Nord e al Sud, le forze sociali che generalmente sono rimaste emarginate dalla scelta giolittiana della democrazia industriale. Partito cattolico, dunque, che diventa partito di ceti medi e di mondo rurale declassato, partito pazientemente raccolto nell’ambito di un movimento di riqualificazione democratica e popolare delle classi cosiddette subalterne, non più fuori ma dentro la dialettica dello Stato liberale». In sostanza, il partito popolare intendeva dare diritto di cittadinanza e coscienza democratica a categorie sociali rimaste al di fuori dal processo politico ed economico unitario: fossero essi quei cattolici che non avevano approvato i modi con cui si era arrivati alla soluzione della questione romana e che attraverso l’astensionismo e l’intransigenza avevano inteso manifestare la loro protesta, i piccoli e medi proprietari terrieri che avevano pagato di persona i guasti della politica protezionistica dei governi liberali, i contadini, mezzadri, fittavoli, braccianti angariati da pesanti condizioni di lavoro. Il partito di Sturzo non è un partito rivoluzionario, collettivista, libertario o populista; non mira a ribaltare gli schemi della società borghese utilizzando l’organizzazione delle masse. La sua è una visione prevalentemente riformista, con precise connotazioni antistataliste, liberiste e regionaliste, con il non nascosto intento di ricostruire, attraverso la diffusione della piccola proprietà contadina, un tessuto civile animato e sorretto dalle tradizionali virtù cristiane presenti nel mondo rurale. Il P.P.I. si assumeva quindi il compito di farsi portatore di valori sociali, politici e religiosi, attraverso una sorta di pedagogia civile diretta ad un mondo contadino e ad una piccola e media borghesia disabituata alla democrazia partecipativa e spesso preda di suggestioni moderate e clientelari, se non autoritarie.

    https://musicaestoria.wordpress.com/...lare-italiano/
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

Discussioni Simili

  1. Risposte: 5
    Ultimo Messaggio: 10-08-15, 10:54
  2. Verso un Partito Popolare Italiano?
    Di POL nel forum Politica Nazionale
    Risposte: 1
    Ultimo Messaggio: 01-09-14, 22:31
  3. Risposte: 3
    Ultimo Messaggio: 28-04-09, 12:14
  4. 1980, l'anno del terremoto italiano
    Di Misterbianco nel forum Politica Nazionale
    Risposte: 3
    Ultimo Messaggio: 18-04-05, 19:40
  5. Il Partito Popolare Europeo, primo partito d'Europa
    Di anroma nel forum Politica Nazionale
    Risposte: 49
    Ultimo Messaggio: 16-06-04, 16:12

Tag per Questa Discussione

Permessi di Scrittura

  • Tu non puoi inviare nuove discussioni
  • Tu non puoi inviare risposte
  • Tu non puoi inviare allegati
  • Tu non puoi modificare i tuoi messaggi
  •  
[Rilevato AdBlock]

Per accedere ai contenuti di questo Forum con AdBlock attivato
devi registrarti gratuitamente ed eseguire il login al Forum.

Per registrarti, disattiva temporaneamente l'AdBlock e dopo aver
fatto il login potrai riattivarlo senza problemi.

Se non ti interessa registrarti, puoi sempre accedere ai contenuti disattivando AdBlock per questo sito