1921: De Gasperi, Cavazzoni e Don Sturzo alla sede del PPIdi Francesco Malgeri – In “Storia del movimento cattolico in Italia”, diretta da F. Malgeri, vol. III, Il Poligono, Roma 1980.
I. Luigi Sturzo e le origini del popolarismo
1. Impegno sociale e meridionalismo
Per cogliere a pieno il significato e la novità che nella storia del movimento cattolico italiano sono rappresentati dalla nascita e dalla affermazione del partito popolare italiano nell’immediato dopoguerra, occorre ripercorrere l’azione sociale e politica di Luigi Sturzo negli anni che vanno dalla fine dell’Ottocento alla prima guerra mondiale. Non che questo personaggio possa da solo coprire la multiforme realtà che caratterizzò l’esperienza del popolarismo, ma è indubbio che si deve soprattutto a Luigi Sturzo l’intuizione e la capacità di raccordare e coagulare in una sintesi politica nuova ed originale la complessa realtà del movimento cattolico italiano all’indomani della prima guerra mondiale.
Il nome di Sturzo ricorre frequentemente nei precedenti volumi di questa opera: lo troviamo negli ultimi e vivaci dibattiti in seno all’Opera dei congressi, nella prima democrazia cristiana, nelle organizzazioni cattoliche che operarono negli anni di Pio X. Ma è indubbio che il suo ruolo in questi anni va interpretato e misurato alla luce dell’ambiente sociale, economico e politico del Mezzogiorno d’Italia ed in particolare della sua regione, la Sicilia.
Per comprendere Sturzo ed il popolarismo occorre quindi soffermarsi sull’attività di questo prete siciliano, nato a Caltagirone il 26 novembre 1871 da nobile famiglia, formatosi in un ambiente ricco di interessi culturali e di spirito religioso. Giovane seminarista, attratto dalla musica e dalla letteratura, spostò il suo impegno nel campo politico e sociale a contatto con la realtà della sua terra. Il suo pensiero politico e sociale matura quindi con l’attenzione ai problemi di una regione che l’unificazione politica ed economica italiana non era riuscita ad affrancare dalla miseria e da un antico malcostume politico e amministrativo; un pensiero che si arricchisce attraverso l’analisi di una realtà meridionale prevalentemente contadina, esclusa da qualsiasi vantaggio del processo unitario, costretta a pagare i costi economici ed umani delle scelte industrialiste e protezionistiche dei governi liberali, con una grande massa di cittadini che praticamente viveva ai margini della vita politica nazionale, utilizzata spesso come massa di manovra a sostegno delle consorterie locali o nazionali.
Le idee politiche e sociali di Sturzo prendono forma a contatto con questa realtà e si rafforzano negli anni in cui frequenta a Roma l’Università Gregoriana, dal 1894 al 1898, nella Roma di Leone XIII, vicino ai fermenti e alle iniziative sociali e culturali della più impegnata gioventù cattolica italiana, che aveva trovato in Murri il suo leader. «Fu a Roma – scrisse Sturzo in una pagina autobiografica – che in mezzo ai miei studi fui realmente attirato verso le attività sociali cattoliche. Ciò che mi impressionò di più fu la scoperta di miserie ignote nel quartiere operaio (dove si trovava l’antico ghetto), che io percorsi tutto, il sabato santo del 1895, per benedire le case. Per più giorni mi sentii ammalato e incapace di prender cibo». Ad un suo compagno d’esilio, Giuseppe Stragliati, confidò, in una lettera del 1938: «Perché io mi occupo anche di politica? Perché trovo che in mezzo ad essa potrò fare del bene agli altri e realizzare, per quanto è possibile, un benessere terreno che deve servire a meglio attuare il benessere spirituale delle anime. Gesù non si occupava forse del benessere terreno quando sanava gli infermi, resuscitava i morti e sfamava le turbe nel deserto?».
Quando Sturzo, nel 1898, ultimati gli studi a Roma, torna in Sicilia, le condizioni dell’isola non erano molto diverse da quelle che avevano determinato solo cinque anni prima il moto dei Fasci siciliani, una di quelle rivolte che, pur avendo alla base rivendicazioni abbastanza precise, assunsero forme ribellistiche e anarcoidi. L’istituzione nel 1896 di un commissario civile per la Sicilia voluto dal Di Rudinì, nel tentativo di offrire all’isola uno strumento capace di eliminare soprusi e ingiustizie fiscali, era miseramente fallito appena un anno dopo, di fronte alla resistenze e all’ostruzionismo di gruppi politici ed economici siciliani; né, d’altro canto, misure d’emergenza come la distribuzione di centomila quintali di grano alla popolazione, nell’autunno 1897, potevano risolvere problemi gravissimi legati alla struttura sociale ed economica dell’isola. Tanto che, nel febbraio 1898 si ebbero altre sollevazioni a Modica e a Troina, che provocarono scontri con la polizia e una decina di morti. Di lì a poco, nel maggio del 1898, si sentirà anche in Sicilia, sia pure in tono minore rispetto ad altre regioni italiane, la drammatica «protesta dello stomaco» che scosse profondamente il paese. Disordini si ebbero a Palermo, Siracusa e Messina.
«Il risveglio delle popolazioni del Meridione – scriveva Sturzo sulla Cultura sociale del 16 febbraio 1902 – si accentua, ma minaccia di cadere nel vuoto di un empirismo rovinoso o di essere assorbito dalle forze prevalenti del socialismo nelle forme più irrazionali, le forme anarcoidi, senza stabilità di pensiero, senza base di cultura, senza coscienza di concezioni nette e precise». Una realtà che imponeva un impegno diverso del movimento cattolico siciliano. Da qui le aspre critiche di Sturzo all’assenteismo del clero isolano, che sembra non cogliere il valore dell’impegno diretto nella società civile. Egli coglie il limite di questo clero meridionale dipendente da patroni laici, dai municipi o dalle case principesche, dalle famiglie ricche e prepotenti, che sostengono molte spese di culto e tengono i preti per amministratori, maggiordomi, maestri di casa. Un clero immiserito dalle spogliazioni dei beni ecclesiastici e costretto più ad ingraziarsi i suoi padroni che a sostenere in diritti della Chiesa e del popolo: un prete che vive la vita di famiglia, ne cura gli interessi materiali e morali, come capo della casa, esercita la mercatura o l’industria agraria e partecipa ai partiti personali locali, municipali e politici, che non sono a base di idee ma di persone; preti che sostengono deputati radicali, altri preti che sostengono massoni o socialisti, e da qui, aggiunge Sturzo, «preti contro preti, mescolando partiti religiosi a partiti politici e creando quella coscienza atrofizzata in popoli materialmente religiosi, i quali non hanno scrupolo a sostenere nella vita politica uomini contrari ad ogni sentimento religioso e a ogni principio di onestà». In una conferenza tenuta a Piazza Armerina nel 1907, Sturzo attaccò ancora questo clero che sciupa il suo tempo prezioso nei cicaleggi delle sacrestie, nelle strade, nei circoli, nella farmacie, «in occupazioni in cui predomina l’ozio come forza principale». Questa realtà del prete più «persona ligia alla ricchezza» (come lo definiva Sturzo) che pastore d’anime, era resa più acuta dalle pratiche corruttrici del clientelismo politico e amministrativo, con una borghesia agraria che voltava le spalle alla Chiesa e tentava di accaparrare quanto poteva dai vantaggi derivanti dalla adesione allo Stato liberale. La propaganda socialista, sia pure inficiata da deviazioni rispetto alla linea ufficiale del partito, faceva breccia anche nelle campagne, come già avvenuto nelle grandi città industriali del Nord. Ci si avviava verso una lenta scristianizzazione delle masse, la parrocchia cominciava a perdere il suo carattere di centro e fulcro della comunità, non solo religiosa ma anche civile. L’emigrazione faceva il resto, disgregando le famiglie.
L’impegno di Sturzo mirò innanzitutto a ricucire un tessuto sociale estremamente sfilacciato e ad avviare una struttura organizzativa capace di impegnare il movimento cattolico in una azione sociale ed amministrativa, quale premessa alla formazione di una reale coscienza politica. Nel 1895 aveva fondato un comitato nella parrocchia di San Giorgio, nel 1897 a Caltagirone una cassa rurale intitolata a San Giacomo. Nello stesso anno dava vita al suo primo giornale, La Croce di Costantino, che doveva distinguersi per la vivacità e per il tono battagliero. Cercò di animare la presenza dell’Opera dei congressi in Sicilia, organizzò comizi, opere economiche, agitazioni contadine, subendo anche denunce e processi. Ancora ventiquattrenne, nel 1895, aveva affermato la necessità di «non rimpiangere inutilmente i tempi passati» ma di «indirizzare per una via migliore i tempi presenti». «Le epoche si succedono – affermò Sturzo – e con le epoche camminiamo anche noi… Il popolo si vuole raccolto in associazioni perché il numero e la maggioranza, non la ragione e il diritto comandano le amministrazioni e la cosa pubblica; si riunisca dunque, non in società che hanno statuti contrari alla religione, dove trovino il retto tramite del vivere civile, l’esempio dei diritti veri, conservati dalla religione e dalle leggi. Al popolo si è dato il diritto di voto, diritto prezioso, soggetto alle passioni che più si agitano, ai partiti del giorno, alla vergogna del corrompimento elettorale; si disciplini oramai questo popolo inconscio dei suoi diritti, si faccia conoscere ch’è supremo dovere di coscienza che il voto si dia a persone idonee, che difendano la causa della religione, che è causa nostra, che propugnino il bene della patria, che è il bene comune».
C’è già, in questo discorso, il superamento della questione romana dal quadro angusto della protesta intransigente postunitaria e c’è chiara la visione di un movimento cattolico non più rinchiuso in se stesso. È in sostanza una chiara applicazione dell’invito di Leone XIII ad «uscire fuori di sacrestia». Ma, c’è, soprattutto, la necessità specialmente in Sicilia, di una organizzazione attiva e presente sul piano sociale e politico, che doveva essere il frutto di una preparazione lenta, assidua, fatta non solo di deliberati di congressi che restavano sulla carta senza ulteriori sviluppi. Scriveva sulla Cultura sociale del 1° maggio 1898: «Perché si abbia un programma ben definito e scientificamente redatto di restaurazione sociale, non basta che lo stesso prof. Toniolo lo stenda sulla carta, è d’uopo che i migliori ingegni, gli uomini influenti, i capi del movimento cattolico nell’isola conoscano (non da un voto di un congresso) e siano convinti (non da una bella conferenza) delle linee principali e degli elementi costitutivi del programma, e preparino, con una vera propaganda, coloro che devono riceverlo e accettarlo. Bisogna cominciare ma non è affare d’un giorno o d’un congresso».
Sturzo, in realtà, non credeva nel potere taumaturgico della democrazia cristiana di marca toniolina, da lui definita «troppo felice e romantica». È un tema su cui ritornerà spesso: «noi non abbiamo la concezione felice della società», disse nel 1903. Egli non crede nella totale palingenesi della società, attraverso la realizzazione del programma sociale cristiano, ma sa che «nel lavoro delle anime è vita di verità e di virtù morali, e nel lavoro sociale è vita di civiltà e di progresso; nell’una e nell’altra le lotte si alternano, e il male può vincere o può essere vinto dal bene». Anche la sofferta problematica culturale-religiosa di Romolo Murri sembra essere al di fuori delle sue preoccupazioni. Per il giovane Sturzo la democrazia cristiana in Sicilia diventa un mezzo, uno strumento per la soluzione di problemi resi sempre più pesanti dall’aggravarsi della crisi economica e agricola.
Sulla base di questi obiettivi nel marzo 1900 stipulò l’atto costitutivo di una cooperativa agricola di lavoro per la condotta dei latifondi e per altre imprese agricole; nel dicembre successivo concluse l’affitto di un feudo di circa mille ettari. L’iniziativa ebbe successo e venne imitata in altri comuni ma tra contrasti, difficoltà e lotte continue, contro la resistenza di un padronato che non ammetteva cedimenti ai privilegi acquisiti. Si trattava di quello stesso padronato che riunitosi proprio a Caltagirone, all’indomani dei fasci siciliani – come ricorda Giolitti nelle sue memorie – propose «per tutta riforma, l’abolizione dell’istruzione elementare, perché i contadini ed i minatori non potessero, leggendo, assorbire delle idee nuove». Un ambiente, insomma, che, come amaramente rilevava Sturzo, in una lettera a Toniolo dell’8 luglio 1899, «per mia disgrazia vive delle idee di cento anni fa». Resistenze alle iniziative cooperativistiche vennero anche da mediatori e gabellotti, che mal sopportavano il venir meno di privilegi e vantaggi che un sistema vessatorio concedeva loro.
Il mondo contadino siciliano è quindi, per il giovane Sturzo, un momento essenziale nella sua formazione politica e soprattutto nella ricerca di una via per avviare uno sviluppo, in chiave moderna, della società civile meridionale, con una particolare attenzione all’uomo e all’elemento religioso. Non è presente in lui soltanto il richiamo a quella tradizione cattolica che vedeva nella campagna e nelle attività rurali un elemento di salvezza contro la città che corrompe, allontana dalla fede e mina l’unità famigliare. In Sturzo c’è qualcosa di più: c’è soprattutto l’ottimistica visione di un Mezzogiorno nel quale l’agricoltura avrebbe dovuto svolgere un ruolo essenziale. La visione di un Mezzogiorno agricolo che, attraverso le autonomie amministrative, doveva fare da solo, ove l’iniziativa privata avrebbe dovuto fornire capitali, ove l’industria doveva essere legata all’agricoltura. Un Mezzogiorno centro del commercio mediterraneo, proiettato verso i paesi africani e del medio-oriente, un Mezzogiorno che poggiasse saldamente le sue fondamenta sulle migliori tradizioni cattoliche, robusto moralmente, sano spiritualmente, ove predominasse «il rispetto alla famiglia», la santità del focolare domestico, la continenza dei costumi. Questa prospettiva aveva possibilità di successo solo da un corretto rapporto fra padronato e mondo contadino, senza dar luogo ad attriti e contrasti che inevitabilmente avrebbero frenato lo sviluppo della nuova società meridionale, ottimisticamente vagheggiata da Sturzo.
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