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Discussione: Don Sturzo dimenticato

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    Predefinito Don Sturzo dimenticato



    di Ernesto Galli della Loggia


    Il 1° dicembre 1951, per l’ottantesimo compleanno del fondatore del Ppi, Gaetano Salvemini pubblicava sul «Mondo» un «saluto a don Sturzo». Era un breve, commosso ritratto del sacerdote siciliano in cui Salvemini, dopo aver ricordato la «bella, potente personalità morale dell’uomo» e l’amicizia che a lui lo legava - «un’amicizia che io considero uno dei più begli acquisti della mia vita» - scrive queste righe a proposito dei loro incontri:

    Discuteva e lasciava discutere su tutto, con una libertà di spirito, che raramente avevo trovato nei cosiddetti liberi pensatori […]. Don Sturzo non è clericale. Ha fede nel metodo della libertà per tutti e sempre. È convinto che attraverso il metodo della libertà, la sua fede prevarrà sull’errore delle altre opinioni per forza propria, senza imposizioni più o meno oblique.

    Nel 1951, quando queste parole vengono scritte, sia Sturzo che Salvemini sono politicamente dei sopravvissuti. Lo sono, in verità, perlomeno dal 1945, dalla fine della guerra. Li accomuna il destino di un ritorno in patria tardivo (Salvemini nel 1949, Sturzo nel 1946), e quando ritornano l’Italia che li accoglie è pronta sì a tributare loro tutti gli onori e le fanfare che si debbono ai padri della patria, ma certo non a riconoscerne in alcun modo un ruolo di guida politica per la nuova stagione di battaglie che si è aperta. Neppure – e forse tanto meno – è disposta, la nuova Italia repubblicana, e in specie le parti politiche che a Sturzo e a Salvemini più si richiamano, a riconoscere loro alcun ruolo di guida per così dire ideologica. La democrazia cosiddetta laica è appena reduce dal fallimento del Partito d’Azione. L’opzione a sinistra, l’opzione socialista, consumata sull’altare di un radicalismo intransigente nutrito di complessi d’inferiorità verso i partiti d’ispirazione marxista, sta finendo di dividere quello che resta dei cosiddetti laici, consegnandoli alla subalternità o al ruolo di pura testimonianza. Dal canto suo la Democrazia cristiana ha già consumato o sta consumando, uno scostamento significativo dal suo passato. Dall’eredità popolare essa ancora trae il vertice della leadership politica, che è simboleggiata dalla persona di De Gasperi, ma per il resto, si lascia perlopiù sedurre da orizzonti ideologici assai diversi da quelli del vecchio popolarismo.
    Già qui ci sarebbe, anzi c’è, materia per una prima riflessione. Si dice abitualmente che l’Italia repubblicana avrebbe tratto dall’antifascismo la sua cultura politica, e cioè sarebbe stata in certo senso una creatura di questa cultura. Si tratta di un’affermazione che va presa con un certo beneficio d’inventario. In realtà, della non numerosa schiera di quelli che possono a giusto titolo dirsi i padri dell’antifascismo italiano, Turati, Gobetti, Amendola, don Minzoni, Rosselli, Gramsci, neppure uno giunge a vedere la Repubblica. Sono i loro eredi più o meno legittimi che ne amministreranno il patrimonio; ma l’esperienza diretta che quei padri dell’antifascismo hanno della vittoria del fascismo e delle ragioni della sua vittoria, con tutto il bagaglio di riflessioni, anche autocritiche che in più di un caso è già dato di leggere nei loro scritti, tale esperienza resta per molti versi fuori dall’atto di fondazione della Repubblica. Vi entra l’elaborazione per più versi mitico-leggendaria (si pensi a Gramsci) della loro biografia politica, della loro lotta, non di certo la realtà vissuta in prima persona e direttamente, né l’elaborazione di essa.

    1. Fascismo come reazione e ideologia progressista

    Non si tratta di una distinzione da poco, e credo che se la storiografia si dedicasse a esplorarla ne avremmo la conferma. L’antifascismo vittorioso che fonda lo Stato repubblicano fornisce una lettura delle origini e della natura del fascismo dal tono complessivamente assai diverso, infatti, rispetto a quello che si trova nella lettura di coloro che negli anni Venti lo avevano visto nascere e lo avevano combattuto restandone sconfitti. L’antifascismo che vince e che si appresta, insieme, a sistematizzare tale vittoria come il presupposto ideologico di una concreta prospettiva politico-istituzionale per il Paese, dà un’immagine del proprio avversario in chiave assai più di un regime classicamente reazionario che di un inedito fenomeno totalitario.
    Ciò ha conseguenze importanti. Infatti, se la sostanza del fascismo sta soprattutto nel suo essere reazionario, allora è evidente che il modello politico-ideologico che ad esso maggiormente si contrappone è quello «progressista». Se invece si vede centrale in esso il tratto totalitario, allora è il modello democratico-liberale quello che si presenta come più peculiarmente antifascista. In generale, tutta la cultura dell’antifascismo vittorioso si riconosce nella prima di queste due letture del fascismo, così come testimonia nella maniera più evidente l’orientamento della Costituzione repubblicana. Viceversa, i contemporanei della vittoria fascista – anche quando, com’è il caso di molti esponenti della sinistra, furono inizialmente convinti della sostanza reazionaria classistico-antipopolare del loro avversario, e persuasi magari della necessità di una risposta da dare sul terreno della rivoluzione sociale – quasi sempre anch’essi maturarono poi l’opinione che per battere il fascismo fosse cruciale un’attenzione ben maggiore di quanto da essi prestata a suo tempo ad aspetti per così dire sovrastrutturali, attinenti alla sfera dei rapporti politici assai più che non a quella dei rapporti sociali.
    Per dirla assai sommariamente, insomma, mentre i grandi padri dell’antifascismo sconfitti conobbero in complesso un’evoluzione ideologica e politica da sinistra verso destra, la cultura dell’antifascismo vittorioso nel 1945 si presenta invece con marcati caratteri «sociali» e «di sinistra».
    Ma nel 1945, forse non a caso, quei grandi padri sono tutti scomparsi. Salvemini e Sturzo costituiscono l’eccezione: sono gli unici due a cui è riservata la sorte di vedere l’Italia antifascista. Sono un’eccezione che però la dice lunga. Entrambi saranno infatti assai critici di ciò che l’antifascismo, divenuto Stato, è riuscito a essere e dei suoi risultati politico-istituzionali. In certo senso, rispetto a questo antifascismo, potremmo dire, essi sono addirittura all’opposizione. Naturalmente da ciò non possiamo dedurre nulla di ciò che avrebbero fatto Gobetti, Turati, Gramsci e Rosselli. Qui il problema della continuità tra l’esperienza militante dell’antifascismo che dovette fare i conti con il fascismo vittorioso, e la Repubblica antifascista, la sua cultura e le sue istituzioni, si sovrappone e si intreccia con il problema della continuità per così dire interna tra le due principali forze protagoniste della Repubblica antifascista e i loro rispettivi fondatori. Da questo punto di vista è certo singolare la somiglianza del rapporto tra Gramsci e il Pci con quello tra Sturzo e la Dc. Entrambi – il sardo e il siciliano – muoiono per così dire «al bando del partito», sostanzialmente disconosciuti dai loro, motivo di imbarazzo per quella leadership che pure è formalmente la loro erede. La sorte comune a entrambi è la rimozione, l’inattualità; perlomeno fin quando dura la stagione storico-politica entro la quale si conclude la loro vita: nel caso di Gramsci, lo stalinismo cominternista, impegnato nella difesa dello Stato-guida e nella cieca obbedienza ad esso e al suo capo; nel caso di Sturzo, la Repubblica dei partiti.

    (...)
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  2. #2
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    Predefinito Re: Don Sturzo dimenticato

    2. Il giudizio sul liberalismo, il fascismo, la Dc

    Qui dobbiamo occuparci dell’inattualità di Sturzo: l’inattualità rispetto a questa Repubblica. Volendone rintracciare cause e origini, risulta di nuovo significativo il parallelo, già accennato, con Gaetano Salvemini. Salvemini e Sturzo sono gli unici due rappresentanti dell’antifascismo italiano – di quell’antifascismo che ha partecipato in posizione già direttiva alle battaglie politiche successive alla Prima guerra mondiale – i quali trascorrono gran parte del loro esilio non già a Parigi o in un’altra capitale dell’Europa continentale bensì nel mondo anglosassone, in particolare negli Stati Uniti. La loro esperienza, il lodo modo di guardare alla società, alla politica e alla democrazia, ne escono segnati. Si può discutere a lungo quale sia stata la continuità ideologica rispetto al popolarismo sturziano della nuova generazione che dalla Fuci, dall’Azione cattolica, dall’Università milanese del Sacro Cuore arriva alla rinata Dc agli inizi degli anni Quaranta. È un fatto però che Sturzo, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti – e in misura decisiva, io credo, grazie a tale esperienza – allarga e perfeziona una propria visione del mondo, della storia italiana e della democrazia, in particolare della democrazia, che si rivelerà incompatibile se non antagonista con quella del nuovo gruppo dirigente democristiano formatosi negli anni Trenta-Quaranta, gruppo che avrà l’egemonia ideologica già nel momento di stesura della Costituzione e poi successivamente, venendo a occupare una posizione per così dire di sinistra, all’insegna di un nuovo impegno sociale.
    Sono principalmente tre gli ambiti cruciali per misurare la decisa consonanza di Sturzo rispetto a questo nuovo gruppo dirigente. Il primo è quello rappresentato dalla visione del passato italiano prefascista. Alla fine degli anni Trenta di tale passato il fondatore del Ppi dà una versione sostanzialmente positiva, a cominciare dal Risorgimento. Sturzo scrive che la «storia del Risorgimento è una pagina degna della tradizione italiana sia dal lato morale e politico, sia per il rinnovamento filosofico, poetico e artistico» aggiungendo che la storia italiana dal Risorgimento in poi «è la storia di un regime liberale parlamentare con tendenza verso la democrazia». Anche di Giolitti e del giolittismo – come del resto della tradizione unitaria precedente – egli si sforza di dare un’immagine equa che rifiuta ogni facile condanna. Nell’Italia e l’ordine internazionale, uscito a Londra nel 1944, conclude:

    La democrazia italiana che andava maturando fra il 1900 e il 1914 non aveva né Vittorio Emanuele né Giolitti come ostacoli personali, né le pretese dittature monarchico-borghesi, che non esistevano. Essa era indebolita dall’atteggiamento della borghesia industriale che si preoccupava dei movimenti operai, dall’assenteismo dei cattolici (ritenuti massa di manovra) e dal rivoluzionarismo (per quanto verbale e sporadico) dei socialisti di sinistra.

    È un giudizio misurato, realistico ed equo – al quale nel secondo dopoguerra pure l’antigiolittiano a 18 carati Salvemini in sostanza aderirà. Ma esso contrasta, non c’è neppure bisogno di ricordarlo, con il giudizio storico-politico della grande maggioranza dell’antifascismo, riassunto nella famosa affermazione di Ferruccio Parri alla Consulta – con relativa protesta di Croce e altri – che l’Italia prima del fascismo non sarebbe stata una democrazia. Un giudizio che i La Pira, i Dossetti, i Moro, i Fanfani, sentivano certamente molto vicino alla propria visione, e che combina insieme, sia pure riciclandoli, vecchi fremiti intransigentisti e «anti-italiani» con la critica al Risorgimento «tradito» fatta propria da tutta la giovane intellettualità antifascista e anticrociana.
    Su questo primo ambito si staglia il secondo motivo di lontananza tra Sturzo e la nuova leadership ideologica del partito che comunque è il suo. Riguarda il giudizio sul fascismo. In sostanza, negli anni dell’esilio, il sacerdote siciliano viene elaborando una visione del fascismo che ha il suo baricentro nel concetto di totalitarismo, e dunque in una prospettiva che è quella di uno sconvolgimento del vecchio ordine cristiano-liberale. Il totalitarismo di cui il fascismo è figlio ha tre padri: Hegel, Fichte e Marx; dunque anche il comunismo ha pieno diritto a quel nome: «fu ben detto – scrive Sturzo – che il bolscevismo era un fascismo di sinistra, e il fascismo era un bolscevismo di destra». Ciò che caratterizza il totalitarismo è dunque un ibrido connubio di destra e sinistra; anche il fascismo italiano è riconducibile a tale connubio: «Mussolini ideò il fascismo come un partito socialista e nazionalista allo stesso tempo: la sua prima concezione prevenne quella del socialnazionalismo di Hitler, che dopo di lui iniziò il suo movimento di rivincita in Germania. Infatti l’uno e l’altro ebbero questo di simile: appoggiarsi alla rivoluzione sociale delle masse e far leva con la gioventù per le rivendicazioni nazionaliste».
    Inutile dire quanto un giudizio siffatto – in base al quale il fascismo veniva spogliato di ogni sua sedicente specificità di destra filoborghese e filocapitalistica, ma anzi era collocato in una prospettiva semmai opposta – si distaccasse vuoi dal giudizio che mediamente l’antifascismo dava allora del fascismo, vuoi in particolare dal giudizio che ne dava il mondo cattolico postbellico. Questo, infatti (in singolare armonia del resto con l’insegnamento di Croce), era solito dare del liberalismo una lettura tutta schiacciata su Hegel e pressoché del tutto ignorante di Locke. Esso, perciò, era nella sua grande maggioranza propenso a vedere nella sconfitta del fascismo il crollo dei princìpi dell’Ottantanove, dell’aborrito individualismo tenuto a battesimo dalla Rivoluzione francese, nonché il fallimento dell’illuminismo e della cosiddetta democrazia laica; e dunque inevitabilmente era propenso a presentare ognuno di questi elementi come altrettante matrici del fascismo.
    Naturalmente, il giudizio sturziano sul fascismo come totalitarismo e connubio pararivoluzionario di destra e di sinistra, rimanda direttamente al giudizio sulla sostanza storico-politica del liberalismo e su quelli che devono presumersi i caratteri della democrazia. La critica sturziana al liberalismo ottocentesco, in armonia, ricorderà Sturzo nel 1955, con gli insegnamenti di Francesco Ferrara e di Napoleone Colajanni, i quali «influirono molto sui miei primi orientamenti liberali», non è altra che quella di essere stato un liberalismo, specie in Italia, troppo poco liberale e troppo statalista. Specialmente dopo il suo ritorno in Italia nel 1946 (ma molte sue opinioni in merito maturano già negli anni Venti e Trenta), Sturzo interpreta positivamente il liberalismo, accentuandone due aspetti: da un lato l’antistatalismo costitutivo e dall’altro la premessa di difesa della libertà individuale che esso incarna e di cui la democrazia ha più che mai bisogno. «La democrazia comincia con la libertà – laddove non c’è libertà non c’è democrazia. Con ciò noi neghiamo il richiamo alla democrazia che fanno il comunismo e il socialismo marxista. In questi sistemi non vi può essere né libertà personale né libertà di enti autonomi». La democrazia, dunque, non può che essere liberale. E non può che essere cristiana; in certo senso proprio per questo: infatti «se si esclude l’uomo con Dio, non rimane che lo Stato». In altre parole, solo il cristianesimo e i suoi valori sono in grado di opporsi alla naturale onnipotenza del comando statale, al suo carattere tendenzialmente e invincibilmente onnivoro e arbitrario. Sturzo concepisce l’esperienza popolare-democristiana per l’appunto come un superamento del vecchio liberalismo italiano che non era riuscito ad essere sufficientemente liberale: un superamento in una direzione se così si può dire più liberale, aperta verso una democrazia nutrita dei valori religiosi.
    Qui ci sono almeno due punti assai importanti di fortissima disomogeneità e inattualità della sua posizione rispetto alla posizione che nel dopoguerra diviene in breve intellettualmente egemone nella Dc e che, pur tra alti e bassi, su questo terreno culturale (e per conseguenza alla fin fine anche politico) è rimasta egemone fino ad oggi. Si tratta della posizione che possiamo simbolicamente indicare nella sinistra democristiana, e tipica di una personalità come Dossetti.
    Il primo punto si riferisce al significato della Dc come partito nel contesto italiano, alla sua funzione storica, per dirla con una certa enfasi. Dopo il 1946, a Sturzo non passa per la testa neppure per un momento l’idea che al partito cattolico sia possibile l’impresa di costruire una società cristiana, come invece credono in tanti nella Dc e nella Chiesa. Troppo drammatica è in lui – come si legge nei Problemi spirituali del nostro tempo – la consapevolezza della portata lacerante, e probabilmente irreversibile, dei processi di secolarizzazione, e dunque della necessità per i cristiani di immaginarsi come una minoranza immersa in una società maggioritariamente non o a-cristiana.
    Proprio per questo, all’indomani della vittoria del 1948 Sturzo insiste perché la Dc acquisti coscienza di rappresentare «una massa al di fuori degli organizzati», inclusiva della «borghesia semi-religiosa e semi-laica», cioè, scrive, di rappresentare «non un semplice partito, ma il Paese nei suoi interessi vitali […], un partito italiano aperto a tutti coloro che vivono dello spirito italiano». Per raggiungere tale obiettivo, essa deve da un lato ricollegarsi alla tradizione di libertà del Risorgimento e del prefascismo, dall’altro «riprendere coscienza del valore che ha l’idea nazionale, non quella di prestigio vuoto e costoso, ma quella di dignità morale e di comprensione dei propri diritti e del proprio valore, sì da farla rispettare all’interno e all’estero, e di tramandarla pura alle future generazioni».
    Questa idea della Dc e del suo ruolo di «partito-Paese» orientato nazionalmente, unita alla concezione di democrazia liberale accennata sopra, danno come risultato un combinato politico-ideologico che è quanto di più lontano si possa immaginare rispetto a quella che con termine attuale potremmo chiamare la «cultura della Costituzione»: quella cultura, cioè, che è stata la cultura politica fondamentale della Prima Repubblica, e nella quale i cattolici democratici si sono venuti identificando al massimo grado, essendone stati peraltro tra gli artefici forse principali, o forse gli artefici principali.

    (...)
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  3. #3
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    Predefinito Re: Don Sturzo dimenticato

    un grande, uno dei pochissimi veri liberali italiani
    «che giova ne la fata dar di cozzo?»

    “Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è ottima”

  4. #4
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    Predefinito Re: Don Sturzo dimenticato

    3. Il «terzo partito» di Sturzo

    La causa della lunga rimozione di Sturzo, della sua inattualità nell’Italia repubblicana, del sostanziale ostracismo comminatogli così a lungo dal suo stesso partito, sta principalmente nella sua completa disomogeneità rispetto alla cultura della Costituzione, nonché nella sua estraneità a quella premessa decisiva di tale cultura, a quella sua vera e propria parte integrante che è l’antifascismo. Pur essendo un antifascista inflessibile, Luigi Sturzo, a causa del suo altrettanto inflessibile anticomunismo, derivantegli dalla prospettiva antitotalitaria, non fece mai proprio su alcun aspetto della vita pubblica italiana il punto di vista dell’antifascismo, inteso alla Furet (o alla De Felice o alla Del Noce), cioè come l’ideologia legittimatrice in senso democratico della sinistra comunista. Inutile dire che proprio ciò – questa disomogeneità e questa estraneità – sono la causa, oggi, della sua attualità.
    Come ho detto, il fondatore del Partito popolare non condivise affatto l’ambizione messianica di «rifare una società cristiana» per usare le parole di La Pira, che secondo tanta parte del mondo cattolico avrebbe dovuto essere invece lo sbocco ovvio del reingresso politico dei cattolici stessi nella società italiana e doveva perciò connotare il testo costituzionale. Ma non solo: egli prende esplicitamente di petto il carattere contenutistico, l’aspetto di manifesto-programma socio-economico, che specialmente il gruppo dossettiano si sforza, riuscendoci, di dare alla Carta. L’impianto della Costituzione, scrive Sturzo, porta lo stigma dell’«istinto accademico» e del «gusto delle formulazioni teoriche», «vecchie eredità italiane, resi più acuti durante la doppia dittatura hegeliana e fascista». Nelle formule che popolano la prima parte della Costituzione egli sente scarso senso di realtà ma soprattutto «statalismo soffocante»: «lo Stato è sempre invocato come il provveditore di tutto e di tutti», «l’aria del fascismo statale ancora ammorba le stanze chiuse dei parlamenti e dei ministeri italiani».
    «Doppia dittatura hegeliana e fascista», «statalismo», «fascismo statale»: sono formule diverse che però puntano tutte in una sola direzione. Verso – o meglio contro – quella cultura politico-sociale e giuspubblicistica che durante gli anni Trenta si sviluppa nel mondo cattolico universitario e che risente molto dell’atmosfera culturale del fascismo, impregnandosene in maniera significativa. E precisamente tale cultura – ne ho già ricordato i vari esponenti, i «professorini» che militano nella sinistra Dc e ai quali va aggiunto almeno un altro nome, oltre quelli fatti, il nome di Costantino Mortati – quella che si impegna interamente nella fondazione della democrazia italiana animata da una fortissima carica di ostilità verso il liberalismo e i suoi valori, visti sempre come emanazione diretta dell’illuminismo francese di stampo laico-immanentista. Ha notato giustamente a questo proposito Paolo Pombeni, uno storico del dossettismo:

    È curioso che nessuno di questi uomini del gruppo dossettiano avesse contezza di quell’altro filone di origine del liberalismo, quello che partendo da Locke e arrivando alla costituzione americana costruisce la dottrina dei diritti fondamentali su una secolarizzazione di tradizioni teologiche.

    Superfluo sottolineare ancora una volta lo stretto legame che, invece, Sturzo sente e ha precisamente con questo filone del liberalismo.
    Per la cultura cattolica che fonda la democrazia in Italia, un ruolo assolutamente centrale spetta allo Stato, che deve essere promotore e custode di solidarietà e di armonia sociali. È uno «Stato di massa», che ammette sì i diritti di libertà, ma a condizione, come insisterà La Pira alla Costituente, che ad essi sia sottratto il loro fondamento individualistico e che ne venga proclamata l’esclusiva funzionalità al bene comune e ai valori della Costituzione. Allo Stato – scrive Mortati – spetta raccogliere «l’aspirazione all’uguaglianza diffusa nelle masse […] che deve essere soddisfatta se si vuole ricreare l’omogeneità necessaria alla vita stessa dello Stato». Poco importa che l’obiettivo di tale omogeneità implichi necessariamente l’estensione potenzialmente senza limiti dei poteri dello Stato. In realtà, è l’intero rapporto tra individuo e Stato che la cultura della Costituzione vorrebbe riorientato in senso superindividuale. I cittadini, è il pensiero di Mortati, non devono più essere portatori di interessi particolaristici. Viceversa, organizzati stabilmente nei partiti e nei sindacati, e da questi rappresentati (che in pratica diventano a loro volta vere e proprie articolazioni di fatto dello Stato), essi sono tenuti insieme dal vincolo del lavoro e della solidarietà e armonizzati da tale vincolo sotto l’egida dello Stato.
    Non è possibile riuscire a riassumere in poche righe tutta la complessità di motivi e di ispirazioni propri di quella cultura cattolico-democristiana che ebbe nelle proprie mani la regia dei lavori della Costituente e che nei decenni successivi e fino a tutt’oggi, ha detenuto la leadership pressoché incontrastata nella rappresentanza ideologica che la Dc ha dato di sé e del proprio ruolo. Ma quel che si è detto è sufficiente a dare almeno l’idea dell’abisso che separa la visione di Sturzo da quella della più agguerrita intellighenzia cattolica che fin dall’inizio stabilisce facili legami con la sinistra marxista, con il Partito comunista e con quei settori – culturalmente cruciali – che pur estranei al Pci sono ad esso subalterni in senso politico (penso naturalmente a certe importanti correnti dell’azionismo in primo luogo). Agli occhi di questa koiné politico-culturale di sinistra-centro, di cui l’allentarsi e poi la fine della guerra fredda rendono ancora più facile il solidificarsi a partire dai secondi anni Cinquanta, don Luigi Sturzo incarna un personaggio un po’ patetico, dal passato glorioso forse, ma che non ha più nulla da dire circa i problemi veri che la storia pone all’ordine del giorno e di cui, essa sì, conosce invece la chiave.
    Sturzo va così a raggiungere le poche minoranze riottose (forse non bisognerebbe neppure il termine collettivo minoranza, ma parlare di una piccola schiera di singole personalità) che non si allineano alla cultura politica ufficiale della democrazia antifascista, avendo un’altra idea sia della democrazia che dell’antifascismo. I nomi che primi vengono alle labbra sono quelli di Salvemini, di Giuseppe Maranini, e di pochissimi altri che, visti retrospettivamente possono essere considerati i membri di un vero e proprio terzo partito ideale, collocato oltre la divisione destra/sinistra di quegli anni: un terzo partito ideale non interessato o ipnotizzato né dall’anticomunismo né dall’antifascismo, benché composto di anticomunisti e di antifascisti specchiati, quanto interessato invece a capire per quali vie e in quali forme i vizi antichi del sistema politico e della società italiani si stessero perpetuando, spesso grazie a molti floridi innesti, nei vizi recenti della nuova Italia: il più delle volte all’ombra, o addirittura con il favore, di quella Costituzione troppo facilmente assunta a compimento perfetto e intoccabile. È il piccolo partito che fin dagli anni Cinquanta si schiera in battaglia contro la ripresa e la riattualizzazione del vecchio statualismo organicista di marca fascista-corporativa entro le coordinate della nuova spesa pubblica e delle partecipazioni statali, destinate, insieme al parlamentarismo senza alternanza, ad aprire la strada alla partitocrazia, al consociativismo, alla corruzione politico-affaristica.
    In questa battaglia Sturzo occupa un posto originale, specialmente per la critica acuta e precocissima contro alcuni importanti aspetti degenerativi del modo di funzionare delle istituzioni rappresentative e dell’istituzione governo. Qui basti ricordare le decine e decine di articoli e di interventi contro il voto segreto (incredibilmente difeso allora da molti cosiddetti liberali), contro il potere legiferante delle Commissioni parlamentari, contro il bicameralismo perfetto, contro la pratica delle crisi extraparlamentari, contro la pratica da parte dei partiti membri della maggioranza parlamentare di considerare i ministri estratti dal proprio seno come cosa propria e facenti parte di supposte «delegazioni» al governo, infine, a partire dal 1951, la battaglia per correggere la proporzionale.
    C’è in questi scritti, in questi discorsi, un timbro che attesta ancora una volta l’originalità profonda del popolarismo sturziano: la capacità di tradurre l’aspirazione senza riserve alla libertà, alla massima libertà per tutti, entro un’attenzione per i meccanismi istituzionali e per la macchina amministrativa, che il liberalismo italiano aveva sempre avuto in piccolo grado e poi aveva del tutto perduto con il crocianesimo prima e con il gobettismo poi, restandone unici eredi di qualche peso da un lato una pattuglia di salveminiani e dall’altro il piccolo gruppo milanese di «Stato moderno».
    Tutti costoro sapevano che sul terreno di questo liberalismo – e fatte salve le differenze ovvie: quella per esempio sulla libertà d’insegnamento – sapevano che don Luigi Sturzo era uno dei loro. Non è certo un caso che proprio «Il Mondo», sin dal suo primo numero, attraverso un ritratto di Silvio Negro, volesse sottolineare il rilevo e la nobiltà dell’azione del sacerdote siciliano.
    L’Italia di oggi torna a questi uomini, torna all’ispirazione che animò Sturzo, torna ai suoi scritti, non già, per un «banale» liberalismo o per un altrettanto banale «antistatalismo», come è stato già autorevolmente sottolineato. Né ci torna, noi almeno non vogliamo ritornarci, per usare di Luigi Sturzo nella polemica quotidiana: solo l’intenzione sarebbe grottesca. No, noi torniamo a Sturzo per la forza delle sue idee e dei suoi valori, per l’altezza purissima e i modi della sua fede cristiana, per la sua visione penetrante: per sentirci meno soli sulla via non facile che oggi si apre davanti all’Italia.

    In Ernesto Galli della Loggia, Speranze d’Italia. Illusioni e realtà nella storia dell’Italia unita, Il Mulino, Bologna 2018, pp. 167-178.


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