di Ernesto Galli della Loggia
Il 1° dicembre 1951, per l’ottantesimo compleanno del fondatore del Ppi, Gaetano Salvemini pubblicava sul «Mondo» un «saluto a don Sturzo». Era un breve, commosso ritratto del sacerdote siciliano in cui Salvemini, dopo aver ricordato la «bella, potente personalità morale dell’uomo» e l’amicizia che a lui lo legava - «un’amicizia che io considero uno dei più begli acquisti della mia vita» - scrive queste righe a proposito dei loro incontri:
Discuteva e lasciava discutere su tutto, con una libertà di spirito, che raramente avevo trovato nei cosiddetti liberi pensatori […]. Don Sturzo non è clericale. Ha fede nel metodo della libertà per tutti e sempre. È convinto che attraverso il metodo della libertà, la sua fede prevarrà sull’errore delle altre opinioni per forza propria, senza imposizioni più o meno oblique.
Nel 1951, quando queste parole vengono scritte, sia Sturzo che Salvemini sono politicamente dei sopravvissuti. Lo sono, in verità, perlomeno dal 1945, dalla fine della guerra. Li accomuna il destino di un ritorno in patria tardivo (Salvemini nel 1949, Sturzo nel 1946), e quando ritornano l’Italia che li accoglie è pronta sì a tributare loro tutti gli onori e le fanfare che si debbono ai padri della patria, ma certo non a riconoscerne in alcun modo un ruolo di guida politica per la nuova stagione di battaglie che si è aperta. Neppure – e forse tanto meno – è disposta, la nuova Italia repubblicana, e in specie le parti politiche che a Sturzo e a Salvemini più si richiamano, a riconoscere loro alcun ruolo di guida per così dire ideologica. La democrazia cosiddetta laica è appena reduce dal fallimento del Partito d’Azione. L’opzione a sinistra, l’opzione socialista, consumata sull’altare di un radicalismo intransigente nutrito di complessi d’inferiorità verso i partiti d’ispirazione marxista, sta finendo di dividere quello che resta dei cosiddetti laici, consegnandoli alla subalternità o al ruolo di pura testimonianza. Dal canto suo la Democrazia cristiana ha già consumato o sta consumando, uno scostamento significativo dal suo passato. Dall’eredità popolare essa ancora trae il vertice della leadership politica, che è simboleggiata dalla persona di De Gasperi, ma per il resto, si lascia perlopiù sedurre da orizzonti ideologici assai diversi da quelli del vecchio popolarismo.
Già qui ci sarebbe, anzi c’è, materia per una prima riflessione. Si dice abitualmente che l’Italia repubblicana avrebbe tratto dall’antifascismo la sua cultura politica, e cioè sarebbe stata in certo senso una creatura di questa cultura. Si tratta di un’affermazione che va presa con un certo beneficio d’inventario. In realtà, della non numerosa schiera di quelli che possono a giusto titolo dirsi i padri dell’antifascismo italiano, Turati, Gobetti, Amendola, don Minzoni, Rosselli, Gramsci, neppure uno giunge a vedere la Repubblica. Sono i loro eredi più o meno legittimi che ne amministreranno il patrimonio; ma l’esperienza diretta che quei padri dell’antifascismo hanno della vittoria del fascismo e delle ragioni della sua vittoria, con tutto il bagaglio di riflessioni, anche autocritiche che in più di un caso è già dato di leggere nei loro scritti, tale esperienza resta per molti versi fuori dall’atto di fondazione della Repubblica. Vi entra l’elaborazione per più versi mitico-leggendaria (si pensi a Gramsci) della loro biografia politica, della loro lotta, non di certo la realtà vissuta in prima persona e direttamente, né l’elaborazione di essa.
1. Fascismo come reazione e ideologia progressista
Non si tratta di una distinzione da poco, e credo che se la storiografia si dedicasse a esplorarla ne avremmo la conferma. L’antifascismo vittorioso che fonda lo Stato repubblicano fornisce una lettura delle origini e della natura del fascismo dal tono complessivamente assai diverso, infatti, rispetto a quello che si trova nella lettura di coloro che negli anni Venti lo avevano visto nascere e lo avevano combattuto restandone sconfitti. L’antifascismo che vince e che si appresta, insieme, a sistematizzare tale vittoria come il presupposto ideologico di una concreta prospettiva politico-istituzionale per il Paese, dà un’immagine del proprio avversario in chiave assai più di un regime classicamente reazionario che di un inedito fenomeno totalitario.
Ciò ha conseguenze importanti. Infatti, se la sostanza del fascismo sta soprattutto nel suo essere reazionario, allora è evidente che il modello politico-ideologico che ad esso maggiormente si contrappone è quello «progressista». Se invece si vede centrale in esso il tratto totalitario, allora è il modello democratico-liberale quello che si presenta come più peculiarmente antifascista. In generale, tutta la cultura dell’antifascismo vittorioso si riconosce nella prima di queste due letture del fascismo, così come testimonia nella maniera più evidente l’orientamento della Costituzione repubblicana. Viceversa, i contemporanei della vittoria fascista – anche quando, com’è il caso di molti esponenti della sinistra, furono inizialmente convinti della sostanza reazionaria classistico-antipopolare del loro avversario, e persuasi magari della necessità di una risposta da dare sul terreno della rivoluzione sociale – quasi sempre anch’essi maturarono poi l’opinione che per battere il fascismo fosse cruciale un’attenzione ben maggiore di quanto da essi prestata a suo tempo ad aspetti per così dire sovrastrutturali, attinenti alla sfera dei rapporti politici assai più che non a quella dei rapporti sociali.
Per dirla assai sommariamente, insomma, mentre i grandi padri dell’antifascismo sconfitti conobbero in complesso un’evoluzione ideologica e politica da sinistra verso destra, la cultura dell’antifascismo vittorioso nel 1945 si presenta invece con marcati caratteri «sociali» e «di sinistra».
Ma nel 1945, forse non a caso, quei grandi padri sono tutti scomparsi. Salvemini e Sturzo costituiscono l’eccezione: sono gli unici due a cui è riservata la sorte di vedere l’Italia antifascista. Sono un’eccezione che però la dice lunga. Entrambi saranno infatti assai critici di ciò che l’antifascismo, divenuto Stato, è riuscito a essere e dei suoi risultati politico-istituzionali. In certo senso, rispetto a questo antifascismo, potremmo dire, essi sono addirittura all’opposizione. Naturalmente da ciò non possiamo dedurre nulla di ciò che avrebbero fatto Gobetti, Turati, Gramsci e Rosselli. Qui il problema della continuità tra l’esperienza militante dell’antifascismo che dovette fare i conti con il fascismo vittorioso, e la Repubblica antifascista, la sua cultura e le sue istituzioni, si sovrappone e si intreccia con il problema della continuità per così dire interna tra le due principali forze protagoniste della Repubblica antifascista e i loro rispettivi fondatori. Da questo punto di vista è certo singolare la somiglianza del rapporto tra Gramsci e il Pci con quello tra Sturzo e la Dc. Entrambi – il sardo e il siciliano – muoiono per così dire «al bando del partito», sostanzialmente disconosciuti dai loro, motivo di imbarazzo per quella leadership che pure è formalmente la loro erede. La sorte comune a entrambi è la rimozione, l’inattualità; perlomeno fin quando dura la stagione storico-politica entro la quale si conclude la loro vita: nel caso di Gramsci, lo stalinismo cominternista, impegnato nella difesa dello Stato-guida e nella cieca obbedienza ad esso e al suo capo; nel caso di Sturzo, la Repubblica dei partiti.
(...)